Sabato 15 settembre a porto Santo Stefano, Monte Argentario, nella suggestiva cornice della Fortezza Spagnola, dinnanzi ad un panorama mozzafiato, sei esperti, a vario titolo, hanno dato vita ad una vivace tavola rotonda sul tema delle migrazioni.
L’occasione è stata quella del finissage della mostra LIBERE MIGRAZIONI / CORRENTI DI DERIVA di Claudia Melotti. Una esposizione che, a partire dal 3 settembre, ha riproposto, con diverse aggiunte e ampliamenti , il percorso con il quale la galleria Embrice di Roma aveva già presentato i lavori dell’artista romana, la quale tanto nella sua attività professionale di illustratrice, quanto nella sua libera ricerca pittorica si è sempre avvalsa di una profonda conoscenza della cultura africana acquisita in loco a seguito di una serie di coraggiose scelte di vita.
I lavori si sono aperti con una serie di riflessioni di don Sandro Lusini, un sacerdote che in base alla sua esperienza personale ha chiarito come dopo aver lavorato nelle missioni a contatto con popolazioni la cui cultura è stata lacerata e distorta dall’incontro con l’Occidente industrializzato non è più possibile offrire sostegno spirituale ai migranti secondo gli stereotipi del passato, ovvero secondo protocolli in cui non è incluso l’ascolto profondo del proprio referente.
A questo intervento che doveva avere anche un valore introduttivo ha fatto seguito una “breve ma veridica storia” dell’interesse dell’arte europea per quella dei continenti non ancorati alla sua stessa cultura accademica. Una sorta di cavalcata umoristica proposta da Paolo Balmas docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma. che attraverso le “stazioni di posta” delle Chinoiseries tardo seicentesche, del Giapponismo ottocentesco, del tribalismo dell’Avanguardia Storica e del Citazionismo Postmoderno ha cercato di dimostrare come ogni volta l’arte non occidentale sia stata utilizzata in funzione del suo potenziale rigeneratore ma sia anche stata indagata solo parzialmente, cosa che oggi dinnanzi ad una Globalizzazione non più presentabile come festosamente metropolitana non è più possibile fare senza assumersene fino in fondo la responsabilità.
A questo intervento, che voleva avere anche un valore introduttivo e di raccordo ha fatto seguito una brillante relazione dell’avvocato Eugenio Alfano, che si occupa per conto di Amnesty International dei diritti civili di migranti e rifugiati. Una relazione che, evitando di ripartire dagli slogan con cui le contrapposte fazioni politiche del nostro paese ci bombardano ogni giorno, ha chiarito come il dibattito vada ricondotto entro termini comunque tecnicamente esatti pur nella loro inevitabile semplificazione, ed ha insistito sui paradossi e le assurdità che nascono dal non volersi soffermare sulla evidenza delle storture prodotte dall’improvvisazione politica e dalla approssimazione mass-mediale.
L’intervento di Annamaria Gallone direttrice artistica del Festival del Cinema Africa, Asia e America Latina, ha invece fatto il punto sulla fecondità della produzione cinematografica di qualità nei continenti di cui si è fin qui occupata la sua associazione, distinguendo tra tre diverse problematiche: quella del bisogno che ormai sentono gli autori soprattutto Africani di mettere a sistema una produzione spontanea che, pur nella sua prolificità, rischia di essere presto dimenticata in patria e del tutto ignorata nel resto del mondo; quella di aumentarne la conoscenza in un Occidente ancora totalmente ignaro di quanto sta accadendo fuori dei propri confini e quella di formare presso le popolazioni locali un gusto diffuso che permetta loro di dare il giusto peso alla distinzione tra produzione colta e autoconsapevole e pura produzione di consumo. Il tutto non senza richiami al lo stretto rapporto esistente tra la disinformazione della nostra critica e l’inerzia della nostra distribuzione.
Infine Zoe Balmas designer impegnata nella ricerca sui possibili rapporti tra la propria disciplina e le problematiche della migrazione ha chiarito con limpida consequenzialità come oggi sia fondamentale distinguere tra i possibili apporti del design direttamente legato all’industria (product design) e quelli del design impegnato nel settore dell’innovazione sociale (social innovation design). Il primo settore, ha chiarito la giovane ricercatrice, fin qui è sembrato non andare più in la di pochi semplici spunti più interessati alla fascinazione del pubblico che non alla soluzione dei problemi dell’utenza. Il secondo invece, anche, ma non soltanto, sotto la spinta della portata epocale dei fenomeni migratori del presente, mutevoli, ma sempre di interesse planetario e con risvolti etico-politici non ignorabili, sta vedendo un fiorire di iniziative e di proposte straordinariamente interessante che va però “messo a sistema” non solo per isolare le soluzioni più interessanti relative ai diversi snodi in cui si articola, ma anche per costruire in progress una serie di linee guida in base alle quali agire nel tempo. Delle linee guida rispetto alle quali il momento dello scambio culturale reciproco si sta mostrando sempre più essenziale al fine di ottenere risultati duraturi ma anche capaci di evolversi nel tempo. Una prospettiva questa entro la quale gli operatori del settore stanno recuperando proprio quella dimensione di festosità che invece nella prima fase dell’esperienza postmoderna si era rivelata vistosa ma inconsistente in quanto ancora tendenzialmente unilaterale.