Il passaggio successivo, correggimi se sbaglio, è l’alternanza di forme naturali e artificiali, di radici vere e disegnate, come nel Trittico del femminino sacro e natura.
Esatto. Il trittico del femminino sacro ha una nascita travagliata. Prima era composto da soli tre pezzi, il trittico del femminino sacro, appunto, figlio naturale degli sconfinamenti categoriali, esposti alla mia prima personale dal titolo “Ucronìe” al Castello di San Giorgio Monferrato nel 2018, un’imponente struttura in cui convivono diverse epoche architettoniche. Al centro campeggiava un’installazione, “il tavolo del Demiurgo”, dove avevo disposto tutti i miei reperti, conchiglie, coralli, piccoli frammenti fossili, fiori, radici, appunti e studi e ancora alambicchi, contenitori di vetro con liquidi densi. Una mostra immersiva ed esperienziale che aveva lo scopo di calare lo spettatore nella giusta prospettiva per riuscire a comprendere il metodo con cui affrontavo, con cui tutt’ora affronto, i miei lavori. Due anni dopo il trittico si arricchiva, esposto alla mostra collettiva “JAS, Just Another Stage”, degli elementi naturali che ora lo rendono completo. Perché c’è questo legame forte che lega natura e uomo, ci sono connessioni precise e similitudini troppo interessanti, troppo poetiche per passare inosservate. Il mio lavoro è incentrato proprio su queste connessioni, sul valore simbolico di certi elementi naturali, e sulla meraviglia, sull’enorme potere dell’osservazione.
‘Uova e parole’ scriveva Anne Sexton, ‘vanno maneggiate con cura, una volta rotte non si possono riparare’. La stessa cosa vale per gli oggetti. Ma con una differenza: in essi la frattura parla, aggiunge sovrasensi, dischiude squarci memoriali. Sino a che segno i tuoi lavori sono arte di memoria?
La memoria è un tema presente soprattutto nei miei ultimi lavori, soprattutto la memoria legata al corpo. In alcuni lavori passati era una sotto traccia, quasi un bordone, un tema quasi sussurrato che mi legava ai ricordi di mio padre. Ultimamente il tema della memoria è diventato un’urgenza soprattutto dopo la morte di una zia carissima malata di Alzheimer.
Perdere traccia di luoghi, parole, ricordi, interi episodi della propria vita, infine i visi delle persone e con loro l’essenza stessa della propria vita, perdere la memoria significa perdere sé stessi.
Durante un simposio artistico al quale ho partecipato in Austria, a fine aprile, ho sentito la necessità di realizzare una “mappatura dei ricordi sul corpo”: un’immagine che ricorda le tavole dei meridiani energetici diventa il fulcro sulla quale ho cucito, con un filo di lana rossa, i post-it delle memorie legate alle zone del mio corpo, quindi cicatrici, fratture, ma anche la gravidanza, il primo latte, e le mani con la vitiligine, il primo profumo di cui ho memoria. Unitamente a questo lavoro, anzi, parallelamente, sto realizzando delle “trappole per ricordi”, che uniscono parti anatomiche e fili cuciti e tesi, pronti a vibrare e a intrappolare i ricordi che li attraversano. La memoria è diventata quindi l’inchiostro dei miei ultimi racconti visivi.
(segue)