Continuiamo con il proporre gli approfondimenti più interessati pubblicati sul numero 263 di Segno per richiamare l’attenzione sulla Biennale di Venezia
Vi invitiamo a leggere l’ opinione di Pietro Marino in L’eco ovattato del mondo reale.
Non si può dire che non abbia mantenuto le sue promesse Christine Macel, la curatrice francese del Centre Pompidou designata da Paolo Baratta a dirigere l’edizione 2017 della Biennale di Venezia. Intendeva spargere ottimismo sin dal titolo della mostra da lei curata “Viva Arte Viva”. Aveva detto e scritto che le stava a cuore esaltare l’individualità degli artisti come portatori di energia creativa e di espansione vitalistica. L’arte come “un modo di riconciliarsi con se stessi”. E anche col pubblico, che in genere sembra aver gradito nei giorni di preview (divenuti ormai un evento di massa, in cui giornalisti e critici si ritrovano smarriti e sommersi). Così, il salone del Padiglione Centrale ai Giardini che due anni fa era teatro delle declamazioni su Marx volute da Enwezor, ora è occupato dal festoso laboratorio messo su da Olafur Eliasson dove ragazze bianche, giovanotti africani e donne musulmane costruiscono artigianalmente fragili lampade di design ”verde” messe in vendita a 250 euro per finanziare Emergency. È uno dei rari casi in cui si avverte in mostra l’eco, seppure ovattata, di conflitti e di migrazioni, di drammi sociali economici e ambientali che agitano il mondo reale. Già le pareti del salone sono rallegrate da figurine fantasiose di Edi Rama – il sindaco pittore che diede colore agli edifici di Tirana – e di tanto in tanto vi scoppiano jam sessions. Ora, è vero che l’arte ha da gran tempo rinunciato all’illusione di cambiare o salvare il mondo. Ma qui, nelle opere e nelle azioni dei 130 autori da lei convocati, la Macel sembra voler suonare la ritirata totale, quasi un rappel à l’ordre come invocava Jean Cocteau dopo la prima guerra mondiale, o il matissiano sogno di luxe calme et volupté. Nei fatti, nei 9 “transpadiglioni” disposti fra Giardini e Arsenale domina la proposta di volgere i linguaggi del cambiamento e dello spiazzamento emersi nell’ultimo mezzo secolo a strategie di consolazione e rassicurazione. Così l’Avanguardia incorpora la Tradizione, l’Antropologico viene estetizzato, il Dionisiaco si formalizza, il Concettuale prende colore, la Performance persegue il coinvolgimento. Proprio l’aspetto performativo/partecipativo vuole caratterizzare l’edizione. Sono iniziati con Kiki Smith i venerdì e sabato in cui si può andare a tavola con un artista e conversare con lui. Il sito web della Biennale rimanda video che mostrano “pratiche d’artista” dei singoli espositori. Nel padiglione Sterling ai Giardini è stata attivata una biblioteca (assai deserta) con libri scelti dagli artisti, a dichiarare i loro gusti e interessi. Momenti quasi ludici sono profusi nella prima parte del percorso in Arsenale. Per esempio si possono infilare mani, piedi o parte del corpo nelle tasche e nelle pieghe di coloratissimi teli geometrici ritagliati da Franz Erhard Walter, il 78enne artista tedesco pioniere di arte da indossare al quale è stato conferito – piuttosto tardi – il Leone d’Oro come migliore artista. Oppure, togliendosi le scarpe, partecipare dentro una tenda tramata in arancione alle sedute vagamente psichedeliche di Ernesto Neto con indios dell’Amazzonia. Nelle prime due sezioni allocate nel Padiglione Centrale ai Giardini è emblematico l’incipit che invita all’otium umanistico, al sonno o sogno riparatore della poesia praticati da artisti come Franz West, Mladen Stilinovic, Franzes Stark. Il punto è che quest’aura di disimpegnato invito a recuperare i piaceri dell’arte è diffusa senza l’intensità di progetto “umanistico” che si vuole richiamare. Con un eclettismo museale ben distante dalle magie del Teatro Enciclopedico di Massimiliano Gioni nel 2015. Una “aurea mediocritas “- per dirla con Orazio – sembra connotare la carica del centinaio di sconosciuti poco noti autori asiatici e africani, la gran parte educati in Occidente. Ma anche degli italiani all’estero Michele Ciacciofera e Salvatore Arancio. Con lampi qua e là di di opposte rivelazioni: per esempio l’espressionismo baconiano del siriano Marwan (scomparso nel 2016) e la trasognata videoanimazione della giovane americana Rachel Rose. Un’appagata maniera connota anche la presenza di poche star. Il riesumato Raymond Hains, grande rivale di Rotella. L’evanescente Philippe Parreno. Orozco in versione buddista. I sempre più raffinati disegni femminili di Kiki Smith. Il vecchio rullo da stampa di carta da parati che diventa un carillon a cilindro di Anri Sala. Un campione del nuovo archivismo come Kader Attia si dedica a ricerche sulla musica algerina. Gli storici girotondi di contestazione ambientalista di Anna Halprin assumono sensi di festa agreste. In simile contesto si comprendono la (giusta, come a Documenta Atene) rivalutazione di Maria Lai, il richiamo alla armi di anziani cultori italici della pittura armonica come Guarneri e Griffa. Dal generale effetto placebo sembrano distaccarsi alcuni accenti di “concettualismo poetico” – per dir così – diffusi nell’ultima sezione ai Giardini, non a caso dedicata all’Infinito. Il rettangolo mobile di polvere ritagliato dalla luce per Edith Dekyndt. I labirinti borghesiani fatti percorrere ad una ragazza da Sebastian Diaz Morales. Le pietre di Kishio Suga galleggianti nel bacino umbratile delle Caggiandre. Nel Giardino delle Vergini l’egiziano-londinese Hassan Khan (giustamente premiato con il Leone d’Argento come migliore artista emergente) diffonde suoni e bisbigli di tenera sound art. Solitario y final, nella torretta che chiude il percorso, lampeggia il video-lampo 1971 di Bas Jan Ader, l’artista concettuale scomparso in Atlantico quattro anni dopo. Si tiene appeso con le braccia ad un esile ramo di albero sporgente su un ruscello, resiste finché può, casca nell’acqua, ma ne riemerge. E ancora oggi appare metafora delle ostinate prove di salvezza e caduta dell’arte moderna.