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Le stanze

Le Stanze ospitano l’arte, l’arte occupa il Castello Colonna di Genazzano. Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, è il Principe che ha ordinato a diciassette artisti italiani di allestire e trasformare le stanze del Castello, diverse per misura e luminosità. Costantino Dardi è il Cortigiano che ha tracciato il percorso (con segni più invisibili che visibili, che denotano ancora una volta il suo stile in fatto di allestimento espositivo) all’interno della mostra, voluta dalle autorità comunali della cittadina laziale per attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sulla disastrosa condizione cui versa il Castello, e sull’uso che se ne potrebbe fare. Assieme alla validità dell’appello e dell’iniziativa, si può già intravedere un nuovo modo di fare mostre d’arte, senza complessi e mire espansionistiche.

Le Stanze come ‘interno’, interno in cui si addensano il mondo esterno e l’immaginario dell’artista, dove la accessibilità è sempre controllata. Le Stanze come luogo per interminjlbili pause estetiche contemplanti sogni, rispecchiamento e fughe verso imprecisati esterni. Le Stanze come evento di incontenibili desideri verso la natura e l’altrove. Le Stanze come continuo attraversamento fantastico, come inabissamento nella profondità del mito e della storia.

Siamo di fronte alla rappresentazione di un eccitabile ‘orror vacui’, che ‘le stanze’ offrono attraverso cangianti configurazioni poetiche, dove non esiste più divario tra realtà e finzione.

L’improvviso visivo che balza agli occhi stupiti del visitatore è meraviglioso e inquietante per la misteriosità e profondità delle opere. Nelle stanze i materiali dell’arte sembrano esiliati, tanto la suggestione dell’ambiente è forte; esiliati per scelta propria, cioè per volontà dell’artista. Sono come circondati e penetrati dall’ambiente; ambiente certamente più demiurgico che tautologico. Persino un artista ambientale come Paolini sembra sentirsi a disagio. Le sue due tele raffiguranti Minerva e Giunone, nonostante la loro maestosità, non riescono a modificare la stanza con un divertente caminetto settecentesco. 

L’importanza dell’ambiente l’ha compresa subito Mochetti, scopritore di realtà spaziali, collocando il modellino dell’aereoplano Natter al centro dell’immensa spazialità dell’androne, spalancata sopra una grande voragine. In alto, quasi invisibile, l’aereoplanino è immobile; due punti-luce, sulle pareti a destra e a sinistra corrispondenti rispettivamente al muso e alla coda dell’aereoplanino, ne suggeriscono l’inquietante presenza. Qui l’enormità spaziale pare annullarsi, risucchiata da quel minuscolo ed innocuo giocattolo. Indifferente all’enormità spaziale, Clemente occupa uno spazio esiguo, di passaggio; gioca (un mirabile gioco a nascondere) sulla sorpresa, con quel suo mosaico dalle figurazioni in bianco e nero. Ritrovamento di un frammento romano, o già dell’epoca cristiana? Non lo sapremo mai, risponde Clemente (finissimo artista romantico) coltiva le pulsioni della sua fantasia, non certo erudizioni stilistiche.

Nel vuoto astratto ma suggestivo di una stanza interrata, Marisa Merz ha tracciato le sue trame di fili di rame. Lo spazio è piranesiano, per il ruolo che luce e disegno assumono nel rivelare la trama proiettata dell’opera. Una esile opera il cui significato è tutto nello schermo luce idealizzato dalla essenzialità continua dello spazio. Quanti spazi evoca questo spazio continuo… ~ il miracolo del “nulla”, dove non-senso e labirinto sono valori linguistici notturni.

Vettor Pisani è invece indifferente alla suggestione dell’ambiente. La sua stanza è un ambiente/contenitore, estraneo alle interferenze spazio-temporali. Solo l’Opera è protagonista assoluta; il suo uso avviene altrove, come le armi forgiate nella fucina di Vulcano. Nell’Opera primordialità e radicalità linguistica sfociano nell”‘artifex” alchemico, che riqualifica le cose di significati nuovi e inediti. Perciò Vettor Pisani ha presentato cinque lavori, che vanno dal ’72 al ’78 (R.C. Theatrum, La piccola opera, L’isola, I gemelli, Sangue blu di Klein), come a dimostrare che l’opera non si lascia suggestionare dall’ambiente. Tuttavia quando si entra nella sua stanza non si uscirebbe più. I lavori, per via dello spessore dei significati, diventano labirinti, ci trascinano in cavità profonde e misteriose dove il reale, come Giano, è bifronte; infiniti sguardi, trasalimenti verbali cui l’arte fa ricorso per s/velare la sua imponenza linguistica, colpiscono ogni nostra segreta domanda, meditata o improvvisa. Dove non appare immediatamente il suo significato linguistico, l’opera d’arte è dominata da continui improvvisi simbolici. L’enorme “Igloo capanna” (trasparente) di Mario Merz proietta su di sé il gigantesco ambiente che lo contiene.

Mario Merz, Igloo capanna, 1979

Magicamente diventa anch’esso ambiente, la cui circolarità oltre a contrastare la stanza, evoca altre spazialità, altri luoghi. Dove corrono le tre gambe dipinte sulla grande tela trapassata dalla luce al neon azzurrina? Certo intorno all’Igloo-capanna, ma anche attraverso lo spazio impercettibile della storia. La storia non conosce successioni geometriche: gli eventi si susseguono “disordinatamente”, si rincorrono e s’intrecciano paurosamente, danno luogo a imprecisati contorni e colori. Questa specie di trapanazione o frizione storica Mario Merz la rappresenta immaginando fughe fantastiche, infiniti attraversamenti naturali. La volontà di rappresentare la pittura col fuoco è una idea di Calzolari, il quale nella sua grande stanza ha collocato un pannello verso il quale un mangiatore di fuoco vomita fiamme, scena ricca di suggestione, che ricorda la caverna platonica. Lo splendore della pittura è così effimero, ma proprio per questo suscita in noi meraviglia. L’arte supera il modello cui si riferisce per inseguire un imprendibile “verosimile” suggerito dalla finzione della pittura. La pittura è figlia dello .spazio interno, dove sfoggia maggiormente la sua imparagonabile bellezza.

Cucchi, Paladino e De Maria hanno “installato” le loro opere tenendo presente (specie Cucchi e De Maria) l’ambiente. La raffigurazione, irrazionale e impossibile, della loro pittura è imprevedibile, segue traiettorie misteriose, per cui appare sempre qualcosa che non c’è. La grande tela che visualizza un mare rosso di Cucchi è in relazione, attraverso la traiettoria di un ramo azzurro, alla sagoma di una barca azzurra dipinta sul pavimento di una stanza accanto. La barca che non c’è è una “apparizione”, senza la quale i1 mare della grande tela sarebbe tautologicamente mare, di liciniana memoria. Rintracciare la connessione visiva all’interno dell’evento è come seguire il continuum del mare rosso. Paladino gioca sulla dimensione gigantesca. Le due grandi tele, con macchie di colori e segni zodiacali, non sono indifferenti ad una “porta” ideata come supporto immaginario delle due tele, peraltro appoggiate alla parete in modo sbilenco. Sembrano fondali distanti, ma soprattutto sipari che non si alzeranno mai: perché l’evento pittorico è già avvenuto, e ogni altra “apparizione” sarebbe certamente una intrusione. C’è, però, molta ridondanza, un artificio di facciata che nasconde elementi poetici suscitati dalla pittura medesima. Più imprecisata e misteriosa è la stanza di De Maria, con quelle forme-colore dipinte direttamente sul muro. Disposte con virtuosità tecnica, offrono un sentire e un creare continuo, come se l’artista si fosse lasciato rinchiudere in quelle forme-colore. Nonostante questo c’è un equilibrio spaziale che fa dell’installazione un momento di passaggio imprecisato.

All’opposto, puntando sulla dimensione del quadro, Chia ha appeso su due pareti diverse due grandi tele. Una raffigura l’interno tremolante di una grotta, l’altra una visione cromatica con sgocciolature di colori, sottolineate dalla tessitura “a basso liccio” dell’arazzo. Due grandi opere decisamente figurative per un interno storico, con la sua trascendenza estetica. Il loro significato rimane, come sempre in Chia, mascherato o velato: in quanto la figurazione non è poi così finalizzata come sembra a prima vista. La figurazione di Chia appare come ribaltata, non solo spazialmente ma anche favolisticamente.

Ciò che per l’artista è “reale”, per noi è “realtà”; un reale come sfavillio enigmatico toccato da anticipazioni e irrazionalità estetiche. È quanto accade nelle stanze di Boetti, l’artista più dinamico nell’evocare paradossali immobilità visive. Appoggiata ad una parete ha collocato una grande vetrata: trasparente “tableau” che se completato con pazienza mette in moto il brivido dell’ineffabilità del reale, del suo non rispecchiamento della realtà circostante. Interno come impossibile esterno, una visione sul “nulla”. Ma l’imprendibile ironia di Boetti è in quel suo “ricamo” invisibile appeso sulla parete vicino al camino. Sottile gioco di allusioni e ricordi che si intrecciano come le trame del ricamo.

In una stanza dove non si vedono oggetti, c’è la ideazione pura, un improvviso visivo come il raggio di luce che entra dalla finestra. La misurazione di una ideazione è l’opera di Anselmo, con i suoi “particolari” rivolti ai quattro punti cardinali. Proiezione di una verità scientifica, l’opera è la perfezione anche di un evento il cui effetto continuo è rivolto su di noi, anche se rimaniamo assenti. Così la verità di un oggetto è in rapporto alla sua definizione estetica.

Il gigantesco “soffio” in terracotta di Penone, collocato al centro di una stanza con soffitto decorato, è la materializzazione di un soffio vitale, che sottrae la forma alla attualità per portarla alla soglia di una eternità simbolica.

La retorica celebrativa ci ha lasciato una infinità di lapidi commemorative, quasi sempre esaltanti la vita del personaggio scomparso. Invece le due lastre marmoree con scritto in oro” Le pietre preziose davanti ai porci” di Salvo capovolgono all’infinito ogni valore celebrativo. Poggiate per terra, sembrano suggerire la deposizione della retorica. Non è difficile indovinare o immaginare chi sono i porci e che cosa sono le pietre preziose.

La stanza di Zorio, con quelle strane forme sospese, ricorda una sala museografica di cimeli. Le forme sono però in relazione con l’ambiente, per cui sono esse a rivelarne la spazialità continua e stupefacente. Entrando nella stanza, lo stupore è grande: le figure evocano “gesti antichi”, tanto che la loro immobilità, più apparente che reale, sembra evocare /invocare un passato inafferrabile.

Infine c’è da aggiungere che il gruppo di opere storiche di Kounellis sono state scelte dal curatore della mostra.

Dunque “Le stanze”, che Achille Bonito Oliva immagina come eterno luogo dell’infanzia dell’arte (luogo fantasioso nell’evidenziare “frammenti” di somiglianze e verità), più che caverne sono illuminanti e improvvisi momenti di eternità raccolti all’interno. Avendoli occupati di persona, l’artista vi ha proiettato non favolosi miraggi del futuro, ma agevoli scenari ideati per la tensione dell’essere, che genera l’arte attraverso fissità insidiose, stupori palpitanti, le magie della bellezza. Differenziando i lineamenti della propria individualità, l’artista ha modellato la sua opera in definizioni assolute. Percorrendo le stanze si comprende perché l’imprevedibilità estetica dell’opera “esista”: cattura l’occhio, rovesciandone la luminosità e l’oscurità come ultimo e supremo presente.

Malignamente qualcuno ha parlato delle Stanze come di un “album di famiglia”. Che triste sarebbe la vicenda critica odierna senza relazioni, ricordi, desideri, avventure, che poi formano la ricchezza (l’unica vera ricchezza) dell’esperienza.

Anche se fosse, non è proprio l’album di famiglia a consentire interminabili “divagazioni” riflessive, che attraversano liberamente passato e presente, rendendone invisibili i confini? Infatti “Le Stanze” hanno cancellato i confini all’attraversamento dell’opera, per cui non indicano “spazi” per “immagine, ma l’installazione dell’immagine. 

Le fotografie di questo servizio sono di Roberto Bossaglia

Catalogo di Achille Bonito Oliva. Le stanze. Castello Colonna, Genazzano, 30 novembre 1979 – 29 febbraio 1980, Firenze, Centro Di, 1979

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