Dire che la mostra antologica romana di Giancarla Frare, fino al 5 maggio al Casino dei Principi di Villa Torlonia, per la cura di Antonella Renzitti, è una delle più belle fra quelle dell’ultimo periodo è ancora poca cosa. Ad avermi colpito, oltre al commento dell’autrice che ha avuto l’amabilità di accompagnarmi durante la visita nel delizioso contesto delle sale del Casino dei Principi, è il constatare la multiformità dei mezzi espressivi da lei utilizzati: la lingua, anzitutto, parlata e scritta in prosa e in versi, il disegno, la pittura, l’incisione, la fotografia, il video. La disinvoltura che l’artista mostra nel passare da un mezzo all’altro, e nell’armonizzare gli esiti del suo “fare”, racconta di un tempo lontano in cui si dava la massima importanza ai segreti del “mestiere”, che non è ancora “arte” ma che ne rappresenta comunque l’antefatto.
I segreti del mestiere Giancarla Frare li conosce benissimo e lo si capisce sin dalla sua prima video-opera che, all’inizio del percorso espositivo, restituisce il fascino del Castello medioevale di Apice, presso Benevento, dove l’artista trascorre parte della sua infanzia. “…Era una mole ben grande, con i torrioni cilindrici agli angoli e lo vedevi, quando ci arrivavi dal fondovalle, da una prospettiva da sotto in sù che te lo faceva sembrare ancora più maestoso (…). Ma c’era altro che m’affascinava: i muri del castello, pieni di muschio e di anfratti misteriosi, pezzi di pietre con qualche antica iscrizione. Io m’incantavo e fantasticavo sui passati abitanti”. Una citazione da uno scritto dell’autrice che è importante riportare perché illumina il senso di un viaggio nel tempo che, dalle opere più recenti, ci conduce a ritroso fino alle sue scaturigini.
Sono il tempo e la memoria, infatti, ad essere i veri protagonisti di questa splendida mostra. Del tempo e della memoria sono ancora testimoni dopo tanti anni i muri del castello di Apice, il muschio e, soprattutto, i “pezzi di pietre” che insieme a “pezzi di ombra” sono i convitati abituali di una pittura gentile e solenne. Solenne, fino al punto, a volte, di destare inquietudine oltre che rispetto e reverenza. Un’inchiesta sul tempo trascorso sembra proprio essere la pittura – sempre rigorosamente su carta – di Giancarla Frare. Non il tempo di una vita, ma tutto il tempo di ogni singola vita di tutti gli uomini che hanno calcato la terra da millenni. L’ardimento della ricerca di questa autrice, infatti, arriva ad escludere qualsiasi riferimento di cronaca, come – d’abitudine – qualsiasi figura umana.
Non ci sono biografie nei racconti della Frare, e, al di fuori di suggestioni archetipiche, nemmeno autobiografie. C’è, invece, un ungarettiano sentimento del tempo che spiega del thauma di Aristotele molto più di quello che si legge nei trattati. La traduzione più comune del termine thauma è meraviglia. Ma non è quella giusta, come ci spiega Emanuele Severino. La traduzione più giusta è sgomento, o quanto meno inquieta e maieutica presa d’atto di una grandezza che ci trascende: quella della natura. Una natura che la pittrice mette in scena e di cui siamo parte e modo ma di cui non siamo i proprietari: al massimo e per breve tempo, i custodi. E così, senza orpelli decorativi, o artifici ruffiani, questa autrice man mano che si osservano a ritroso gli esiti della sua ricerca pittorica – nella quale non di rado si inseriscono brani di fotografia perfettamente integrati – ci racconta della sua visione del mondo, della sua idea di natura.
In essa non dovrebbe abitare la guerra che, invece, sta diventando sempre di più parte costitutiva essenziale della nostra storia. Come si è detto, la pietra, più spesso senza riferimenti architettonici, la luce e soprattutto l’ombra sono gli elementi abituali del vocabolario dell’autrice, con il colore – più spesso l’azzurro – che sporadicamente “si insinua”, creando spaesamenti seducenti. Si direbbe un impianto aniconico il suo. E invece no. Perché, sempre, osservando le sue opere si ha l’impressione di osservare un mondo.
Le atmosfere prevalenti, che a volte sembrano alludere alla lezione di un Sironi depurato, hanno la solidità e il fascino della vita vera. “Abitare la distanza” è il titolo della mostra che l’autrice ha tratto da un saggio dell’amato Pier Aldo Rovatti, un magnifico sigillo che non parla banalmente di distanza fisica, evidentemente. La distanza non si abita, infatti. La distanza separa e non accoglie. La distanza che la Frare abita con i suoi dipinti allude, piuttosto, a una dimensione spazio/tempo che non si misura con il contachilometri.