La situazione più curiosa è che la struttura (?), inaugurata allo spegnimento di diciotto candeline – e vecchia esteticamente e nei materiali, soprattutto tenendo conto degli ultimi sviluppi dell’architettura -, teoricamente oggi, più che essere prossima alla patente, potrebbe contenere, a un tempo, la schiera dei vari amministratori della città; i quali, calcolatrice alla mano, sembrano essere in sovrannumero rispetto alla media indicata dagli anni. Questa è quasi diventata una “tradizione” che si sta verificando sempre più spesso in Italia (noi italiani, si sa, siamo conservatori).
La situazione più ovvia, invece, è che, successivamente allo spumante, sono seguite le solite lamentele. Di ogni genere. Fischi, urla e giudizi di gusto “bipolare”, del tipo: l’opera è brutta; forse carina; anzi bella; esageratamente grande; i posti a sedere sono pochi; è costata troppo; 200, no, 500 milioni; però, probabilmente, abbiamo anche risparmiato; per la cultura questo e altro… e così via.
La storia la conosciamo. E se non la conoscessimo, potremmo prenderne una a caso, anche dal contenuto non esattamente simile, e mettere in bocca alle istituzioni, come fumetti adesivi, le parole udite. Per magia avremo il caso Centro Congressi di Roma.
Insomma, polemiche inevitabili, isterie italiche e problema contestualizzato, andiamo avanti, fino alla cronaca. La festa della diciottenne è andata bene, in perfetto stile italiano, con coreografie svolazzanti e violoncelli. I protagonisti presenti erano in veste da star, la politica al seguito, l’eccitazione tangibile. L’importante, hanno detto alla plebe quelli che comandano, è il fatto di esserci sbarazzati di una incompiuta, anche se dopo anni e dopo soldi; la quale, lieto fine, è divenuta la compiuta più “compiuta” della Penisola. Taglio del nastro. Fine.
Il leitmotiv recitato di fronte gli specchi giganti, che riflettevano la festa, le bollicine e le lacrime di commozione, è stato: “Guardiamo al futuro”. Nonostante tutto, “Guardiamo al futuro”.
Ebbene, al futuro, qualcuno di noi ha guardato, diciotto anni fa; e ha intravisto, come in quelle visioni dei filosofi rinascimentali, una nuvola, intrappolata in una scatola di acciaio, che, sconfitta, pesava in un’antica bilancia l’Italia che stiamo immaginando in questo strano presente: in un piatto c’era l’ossessione assurda di unire antico e contemporaneo, e di lasciare che i due elementi facciano scintille e stridano come la prima marcia inserita senza frizione; nell’altro c’era un Belpaese in autunno, con un referendum drammatico agli sgoccioli, ferita al Centro, legata dal trash di cui è composta.
Nota. L’architetto sostiene che, nella Nuvola, che egli non chiama così, ci sia del barocco, sparso un po’ qua è un po’ là. Tra queste righe oniriche, che digeriscono l’architettura contemporanea come il graffito di uno street artist affrescato sul muro di un palazzo sperimentale di periferia, anche.