Roma ha un potenziale espositivo praticamente illimitato, potendo di fatto abbracciare un arco temporale infinito che va dalla classicità fino al contemporaneo. Di questa unicità temporale si comincia a intravederne oggi diffusamente il valore, con operazioni culturali centrate su un processo di sperimentazione estetico formale senza precedenti.
Si infrangono tutte le connotazioni epocali che distinguono un tempo dall’altro, attraverso una disarticolazione cronologica sempre più radicale, che accosta intenzionalmente e nello stesso momento, nello stesso spazio opere distantissime nel tempo, per forma e significato. Eppure paradossalmente è proprio la Storia che finisce per emergere da queste operazioni culturali, che si presentano sempre di più come degli “interventi sul tempo”. E il presente si qualifica come un’irruzione improvvisa, un’irruzione su un passato altrimenti morto.
Un ribaltamento, in cui la consapevolezza di quel cono storico straordinario in cui ci è stato dato il privilegio di vivere, si apre sotto i nostri occhi, per contrasto. E possiamo abbracciarlo con un unico sguardo, nell’istante in cui viene ricontestualizzato dalla forma contemporanea: l’opera d’arte.
Un esempio eccellente di quanto si è appena provato a esporre, è ciò che accade a Palazzo Fiano da alcuni anni. Il palazzo è un complesso architettonico risalente al quattrocento, con fondazioni anche precedenti, un tempo residenza dei titolari Cardinali della Chiesa di San Lorenzo in Lucina.
Palazzo Fiano ospita ogni anno un “Premio per l’Arte Contemporanea”, rivolto alla promozione dei migliori talenti artistici italiani: L’Arte che Accadrà. Rassegna curata da Valentina Ciarallo per il gruppo di comunicazione Hdrà, con sede nell’edificio stesso.
Il luogo dell’esposizione è quindi un antico palazzo, ma il palazzo è anche luogo di lavoro.
Il progetto prevede l’intervento di cinque artisti, selezionati fra i più promettenti nel panorama artistico italiano, e giudicati dai 150 dipendenti della società. Non una giuria di esperti ma una giuria estesa, presupposto di un’arte puntata sull’accessibilità. La rassegna giunta alla sua terza edizione ha già ospitato quindici artisti, le cui opere restano in collezione del gruppo Hdrà, che ha l’obbiettivo non solo di promuovere l’arte, ma anche di formare una collezione d’arte del presente italiano.
Per Mauro Lucchetti presidente di Hdrà: “L’intento è quello di allargare i confini della fruizione di queste forme di espressione a un pubblico eterogeneo, più ampio e meno esperto di chi frequenta abitualmente musei e gallerie.”
Ora, la possibilità di operare questa frammentazione estetica su una sede di questo tipo, libera una forza creativa inaspettata. Il palazzo di incredibile bellezza assume il carattere di un’unità. Gli ambienti diventano parte di un’opera totale, costantemente modificabile. Il lavoro ambientale segna un passaggio decisivo di tipo formale e metodologico, ovvero dall’opera come oggetto tridimensionale, contenuta nel luogo, si passa all’opera come spazio capiente e penetrabile. L’ambiente stesso allora diventa una scultura, una scultura nel senso più esteso del termine, segnata dalla relazione con ciò che si espone, e dall’azione artistica che ne modifica complessivamente il volto.
È attraverso l’espediente artistico contemporaneo voluto dagli organizzatori, su un oggetto così storicamente definito, che si inserisce un elemento dinamico dirompente rispetto alla schiacciante staticità della storia, che in una città come Roma spesso fagocita ogni tentativo di attualizzazione.
La manifestazione di Hdrà grazie alla scelta accurata degli artisti, che ha nel suo novero nomi come Marco Raparelli e Matteo Nasini, infrange questo totem dell’intangibilità di Roma, diventando un esempio eccellente di quella identità poliedrica che la cultura oggi possiede. Connotata dall’uso disinvolto di tutti i linguaggi possibili, di tutte le disarticolazioni temporali possibili, e dalla concezione sempre più elastica dei termini e delle categorie. L’arte esce dai musei, invade le strade, invade i luoghi di lavoro quindi. In una visione attuale del bello, come esperienza sempre più motivata dalla strettissima connessione fra arte e vita, di vaga ascendenza Fluxus.
Non è un caso forse che quest’anno a vincere la manifestazione sia stata Silvia Celeste Calcagno.
Genovese di nascita, già vincitrice del Premio Faenza nel 2015, si è presentata con un’opera site-specific intitolata Just Lily. Con il suo lavoro interpreta questioni come la memoria, l’oblio, la catalogazione, la circolarità, l’infinito. L’incompletezza come aspetto della modernità. E lo fa attraverso un medium, quello della ceramica, che ha sì delle valenze oggettuali specifiche, ma la cui versatilità e varietà d’uso – impiegata da sempre con marcata diversificazione per le più svariate funzioni della vita quotidiana -, ne ha fatto una delle fonti primarie per una disciplina che risuona fortissima nel contesto romano. Gli archeologi per reperire informazioni sul passato, tracciare, ordinare, sistemare la storia antica si servono del reperto ceramico come materiale d’elezione. Il reperto. E non è forse casuale che quello di Celeste Calcagno sia un lavoro con fortissime allusioni all’idea di un’opera come inventario enciclopedico del frammento. Un reperto che si riverbera in una sorta di archeologia del sé, dell’identità soggettiva e di tutto ciò che solo all’apparenza codifica il nostro mondo conosciuto.
Just Lily è un lavoro installativo di tipo autobiografico al confine fra diverse discipline, la ceramica, la fotografia, la stampa, la scultura. L’opera consiste di una quantità di lastre di grés di forma rettangolare che ricoprono per intero la stanza, dal soffitto al pavimento. Su queste sono impresse immagini, dettagli, reperti di una quotidianità di piccole forme che sembrano, a prima vista, una raccolta fotografica, l’esposizione privata di un antiquariato recente.
Un gusto per il rinvenimento, per il memoriale, che trasforma l’ambiente impersonale di una sala riunioni nello specchio di una vita, colta nel suo status domestico, evocativo di una intimità concretamente familiare. Se non fosse che tutto questo viene contraddetto dal senso lievemente compulsivo che il lavoro di rivestimento parietale a tratti assume. L’opera emana costantemente il carattere del perturbante, dato proprio dalla “funzione del doppio” che la fotografia possiede.
Eppure, il lavoro di Silvia Celeste Calcagno non sfocia mai nel dramma, nell’urlo straziante; sembra piuttosto una nevrosi innocente, un abbandono inesorabile, un dolce indugiare in se stessi. Pervasi dal delicato senso di perdita cui si oppone l’azione dell’artista. Probabilmente consapevole dell’inutilità del suo gesto, rispetto alla impossibilità di catalogare materialmente l’intero spettro della memoria, della propria vita. Intrappolata in un’ossessione irrinunciabile, coltivata segretamente nell’animo, ma che si rispecchia in quella cultura dell’immagine e della frammentazione tipica del nostro tempo. E dipana la sua fragile ossessione nell’opera, come se l’opera non conoscesse né fine, né pace. E l’immagine stessa che insegue è quella che in fondo noi tutti inseguiamo collettivamente, attraverso i nostri stessi frammenti figurativi, senza mai riuscire a compiersi veramente.
Per l’Arte che Accadrà 2019 erano presenti insieme a Silvia Celeste Calcagno, Fabio Giorgi Alberti, Marta Mancini, Giuseppe Pietroniro, Corrado Sassi.
III Edizione Premio | L’arte che Accadrà- Gruppo Hdrà
A cura di Valentina Ciarallo
Con la collaborazione di Silvia Cavalsassi
Sede: Palazzo Fiano, Piazza San Lorenzo in Lucina, 4 Roma
mostra chiusa il 22 maggio 2019
Primo premio III Edizione “L’arte che Accadrà” a Silvia Celeste Calcagno
Organizzazione e informazioni artisti: v.ciarallo@giubilarte.it- www.giubilarte.it