La ricerca di un coinvolgimento politico-sociale fa parte di una necessità essenziale. Un solido bagaglio culturale è indispensabile se si vuole acquisire senza alcuna difficoltà cosa il mondo nuovo propone; conoscenze fatte di un glossario di significante e significato dove manifestazioni e contenuti ne rappresentano le fondamenta. La performance in questo caso è il contributo che un individuo, un gruppo, un’organizzazione o associazione che sia, realizza per mezzo di una azione dalle peculiari finalità e obiettivi. Il risultato è un’intera programmazione che, in questo caso, soddisfa non più un bisogno individuale ma bensì pubblico, per certi aspetti, persino universale. In altri termini, tale tipologia di performance rappresenta una sorta di serbatoio dell’energia collettiva. Una pratica che, sebbene ereditata dalle prime esperienze artistiche degli anni Settanta e Ottanta, oggi assume un significato inedito e originale, caratterizzato da un potenziale comunicativo che fa leva su aspetti relazionali e di diretto contatto con il mondo esterno.
Continuo la mia rubrica con Filippo Berta, i cui lavori, per lo più performance collettive, rientrano esattamente in questo contesto. Nella sua ricerca Berta si occupa e preoccupa soprattutto di evidenziare le relazioni sociali provocate dalla relazione tra gli individui e le relative società di appartenenza. La sua attenzione per queste istanze sociali traslano in opere di forte esaltazione di quei piccoli gesti quotidiani, presentati in modo tale da rivelare disuguaglianze, tensioni e resistenze.
Berta oscilla sul dilemma esistenziale dell’uomo, ovvero la realtà, distinta in due tipologie. La prima è la realtà sensoriale, vale a dire un potenziale mutevole che offre all’individuo le esperienze necessarie per la crescita fisica ed intellettuale. Essa può assumere infinite forme, in quanto generata dalle particolari attitudini della persona. La seconda è la quella sociale, strutturata dalle norme ideate dall’essere umano, che gli garantisce un ordine rasserenante, ma al tempo stesso si pone come un assestamento limitante e artificioso. Nel mezzo di questa dualità, l’arte cerca di offrire diverse chiavi di lettura di entrambe. Di conseguenza, l’intervento artistico dovrebbe suscitare una discussione, dove l’estetica non è il fine assoluto, ma un mezzo con cui l’autore condivide la sua impellenza. Mantenendo chiaro questo pensiero, l’interesse si rivolge alle varie tipologie di tensioni prodotte dallo scontro tra il disordine della realtà sensoriale, e l’ordine innaturale della realtà sociale. L’arte possiede molteplici fini e un ruolo radicato nella collettività, seppur non offre migliorie istantanee, indipendente dall’epoca storica e dalle pluri-forme estetiche sfruttate dal ventaglio degli artisti presenti in essa.
In breve, l’arte dovrebbe mettere in crisi le verità dell’individuo, perché solo nel dubbio si celano i presupposti per un’evoluzione intellettuale soggettiva. Ciò non accadrebbe se l’uomo fosse un essere vivente perfetto, che esalta se stesso trascurando la realtà circostante. L’arte deve essere intesa come un collettivo eterogeneo e non come un simbolo uniformante e strumentalizzato dagli ambiziosi. L’artista potrebbe evitare una comunicazione imperscrutabile facendo uso di significanti nascosti nella realtà, tangibile o digitalizzata. Ogni individuo reagisce alla pressione del presente in maniera soggettiva. Di conseguenza, se ci allontaniamo dalla dimensione del singolo, vediamo un ammasso sciatto di reazioni allo schiacciamento quotidiano, su cui paradossalmente poggia la società umana creando instabilità e mutevolezza. L’artista, in tutto questo, è una figura estremamente radicata nel presente, al punto tale da subirlo. Egli vive basandosi sulla propria capacità di lettura del mondo attuale, volta a rivelare ogni minima peculiarità della realtà percepibile, tenute nascoste per svariati motivi. In conclusione, spostando la riflessione oltre l’artista stesso, si origina un nuovo assetto sociale, l’individuo, da parte sua, ha l’obbligo di crescere intellettualmente, ma nel mentre, percepire l’instabilità ancora predominante. In una tale situazione, l’essere umano è l’essenza stessa del presente, mentre l’immaginazione del futuro è una piacevole distrazione.
Valeria Santoni. Quando hai deciso di fare della performance il tuo linguaggio espressivo?
Filippo Berta. L’uso della performance, come mezzo d’espressione, non è stato per me una scelta manieristica ma una conseguenza, anche perché non sono un performer. La mia ricerca indaga le tensioni insite nell’individuo messo in relazione con la società d’appartenenza, che generano condizioni dualistiche e di confine. Questo è il motivo per cui ho iniziato a coinvolgere direttamente l’essere umano in performance collettive, scavalcando le forme estetiche più astratte. Partendo da azioni semplici e quindi impossibili da interpretare, come accendere un fiammifero, appendere un crocefisso o tirare una corda, il mio intento è proporre un rapporto orizzontale con il pubblico, con un lavoro libero da qualsiasi forma concettuale di cornice. Infine, nonostante questa mia propensione verso la performance, il disegno rimane sempre il punto di partenza. Per questo motivo, le mie fotografie sono la concretizzazione nella realtà di una forma sintetica tracciata su un foglio in precedenza, e non una selezione di scatti fotografici della performance.
V.S. Che cosa tratti all’interno delle tue azioni e perché lo fai?
F.B. Come ho accennato nella domanda precedente, gli stati irrisolti nascosti nella relazione tra individuo e società sono l’epicentro della mia ricerca, che cerco di sintetizzare con performance basate su azioni semplici ma rivelatrici di uno stato di tensione. Dualismi e confini sono le parole chiave con cui leggere i miei lavori, e spesso sono rappresentate da immagini inequivocabili. Per fare qualche esempio, posso citare la mia prima performance intitolata Canzonette (2008), che fu realizzata nel centro della città di Bergamo. L’azione consisteva in un gruppo di immigrati, i quali posti in fila su un tappeto rosso, fischiettavano in continuazione una canzone tipica del territorio bergamasco. Dall’altra parte della strada i cittadini si fermavano, attratti dalla melodia conosciuta e da coloro che la stavano fischiettando. In quel momento si concretizzò la distanza che quotidianamente definisce il dualismo: immigrato e locale. Nel 2011 realizzai Homo Homini Lupus, una performance in video compiuta da lupi e non da esseri umani, perché l’azione doveva essere istintiva e non recitata. All’interno del branco, metafora della società umana, i membri si contendono assiduamente una bandiera. L’azione non ha una fine logica e cela in sé il dualismo umano rappresentato dalla logica dello “stato di diritto” e dall’irrazionalità dello “stato di natura”. Al contrario, Sulla retta via (2014), offre un’immagine più armoniosa ma sempre instabile. Il video mostra una fila infinita di persone, le quali sono riprese dall’altro mentre camminano lungo la riva di una spiaggia, cercando di mantenersi sulla linea bianca lasciata dalla schiuma delle onde. In questa performance, gli esseri umani diventano i punti di una linea irregolare e non di una retta perfetta, come fosse un confine reso instabile dalla continua ricerca di equilibrio tra condizioni dualistiche umane. Un limite irregolare è l’elemento fondamentale anche di A nostra immagine e somiglianza 1 (2017), una performance realizzata la prima volta per la sesta edizione della Biennale di Salonicco. Il lavoro consiste nel primo capitolo di un trittico proposto come riflessione sulla tendenza all’idolatria della società, da cui poi scaturiscono forme dualistiche basate sul concetto di perfezione e imperfezione. Nello specifico, la performance consisteva in un gruppo eterogeneo di persone disposte lungo le pareti di una sala, le quali cercavano di fissare un chiodo con un martello, ma rimanendo in punta di piedi, in modo tale da raggiungere il punto più alto concesso dai loro corpi. Poi ogni persona poneva un crocefisso al chiodo, e in quel momento si realizzava l’immagine di un confine irregolare, perché definito dai limiti corporei dei performer, e che tracciava taglio tra una dimensione sottostante umana, opposta a quella sovrastante, ideale e quindi irraggiungibile. Dopo questa sintesi del mio lavoro, suddivisa in quattro passaggi, posso dire che in questo periodo sto cercando di sviluppare un progetto ideato nel 2015 e da realizzare lungo i confini di stato definiti da fili spinati.
V.S. Nel rapportarti a una tradizione della performance come interpreti il tuo rapporto con la realtà oggi? di conseguenza quello di tale linguaggio?
F.B. L’interazione empatica è la peculiarità della realtà sensoriale umana, tangibile e antitetica al modo virtuale. Nell’epoca dell’immaterialità, la performance soddisfa questo nostro desiderio carnale, diventando così un mezzo d’espressione necessario, e per questo motivo, prepotentemente presente nell’arte odierna. Nello specifico, la performance consiste in un gruppo di esseri umani che osservano dei loro simili mentre compiono una serie di azioni, proposte come dei potenziali significanti, e questa condizione può generare nell’individuo una realtà percettiva sovraeccitata e senza filtri. Questa dimensione parallela, se ben calibrata dall’autore, può rimanere radicata nell’animo dello spettatore, diventando uno strumento di lettura della realtà esterna e superficialmente codificata. In conclusione, se tutta l’arte offre alla persona le chiavi di lettura della realtà sociale e sensoriale in cui essa stessa è immersa, la performance lo fa proponendosi allo spettatore come lo specchio di se stesso, perché espone l’essere umano in carne e d’ossa.
V.S. Qual è stata per te la performance più importante fino ad oggi e perché?
F.B. Io direi Allumettes (2012) perché è nata da una difficoltà. Eugenio Viola e Adriana Rispoli mi invitarono a partecipare a Corpus 3, una rassegna di performance che loro curavano all’interno del Museo MADRE di Napoli. L’istituzione non stava attraversando un buon periodo, ma i curatori non volevano abbandonare il progetto. La difficoltà economica mi portò a realizzare un lavoro basato sull’essenzialità di un gesto semplice, che divenne un potenziale significante senza la necessità di supporti estetizzanti e costosi. L’unica cosa necessaria era la partecipazione di molte persone, e in questo ho scoperto che la città di Napoli ha molto da offrire. In sintesi, la performance consisteva in un centinaio di persone accorpate in modo da formare un quadrato largo cinque metri. La performance iniziava quando tutti accendevano un fiammifero e lo innalzavano sopra le loro teste. In quel momento diventava visibile, al centro di una grande sala oscurata, una piccola società racchiusa in una forma quadrata e perfetta. La vita di un fiammifero però è molto breve, e quindi ogni performer ne accendeva altri in un tentativo collettivo di mantenere viva l’unione. Il numero dei fiammiferi a disposizione era limitato, e quindi a un certo punto, le prime persone senza fiammiferi si staccavano dal gruppo, decretando il lento e inesorabile sfaldamento e sparizione del quadrato. Questa mia esperienza la espongo spesso ai miei studenti del master presso la Fondazione Fotografia di Modena, come un esempio concreto in cui una difficoltà in origine limitante, possa diventare invece lo stimolo necessario per l’ideazione di un nuovo lavoro.
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