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LA PERFORMANCE IN ITALIA #1 – Giovanni Gaggia

Una rubrica che tracci le linee guida della performance italiana oggi, un linguaggio necessario in un momento culturalmente così arido e sterile. Scelgo di dare voce ad artisti che con il proprio corpo generano azioni dal forte impatto emotivo, autori in grado arrivare in maniera decisa all’osservatore e generare attimi indimenticabili o riflessioni importanti. Artisti, quindi, dal forte impatto politico, a mio avviso necessario. A qualcuno potrebbero venire in mente gli anni ’70, ma non è questo il punto né l’intenzione, anche se la connessione può apparire forte e non si disconosce affatto un percorso storico necessario a comprendere cosa e come questo linguaggio si è modificato nel tempo, e quale il suo valore odierno. L’arte oggi deve e può ritornare ad essere protagonista, può giocare un ruolo fondamentale e tentare di generare un moto, un cambiamento. Fra i linguaggi più interessanti in questo processo la performance è senza dubbio quello che oggi esprime di più quel senso di presenza dell’io, dello spettatore e dell’artista contemporaneamente ed è quello che per molti aspetti meglio racconta il presente.

Inizio da Giovanni Gaggia, artista che seguo da tempo. Come lui racconta, la sua performance più grande è Casa Sponge, la sua casa aperta agli altri e all’arte 10 anni fa. Sappiamo bene che valenza ha oggi aprire le porte, ricordo le sue azioni al fianco dei parenti delle vittime della strage di Ustica o Amnesty International.

Tre domande per farmi raccontare la sua visone della performance e il suo nuovo ciclo di opere dalla forte impronta spirituale.

Valeria Santoni Come mai hai scelto la performance come forma d’arte?

Giovanni Gaggia È il linguaggio a me più affine, ho una mano felice, una formazione classica, dipingevo e non escludo in futuro di ritornare a farlo. Sono sempre possibilista in tutte le sfumature dalla vita. Però per me tutto ciò non era bastevole, avevo la necessità di comunicare in maniera diretta, quindi ho scelto di farlo utilizzando il mio corpo. La performance è un territorio a se, tutto si sviluppa in un qui e ora specifico, si realizza solo in un determinato momento. Considera che se penso nello specifico alle arti visive, le mie azioni sono un atto unico, mai più ripetibili. Deve essere un equilibrio perfetto, qualcuno mi ha paragonato ad un funambolo. Le mie azioni si realizzano sempre con l’altro da me, di qualsiasi natura esse siano. Questo genera la nascita di opere collettive, un termine a me caro.

VS Il tuo nuovo ciclo di opere si chiama PROPHÉTA. È iniziato da pochi mesi e al momento si suddivide in due parti.

GG PROPHÉTA 12+1 Morire a sé stessi per poi rinascere è un progetto nato con la volontà di sviscerare e ricercare il senso del termine unione attraverso dodici vite, dodici voci, dodici narrazioni, dodici testi sacri provenienti da sei religioni differenti. Uomini e donne che hanno lo specifico compito di esporre il loro esodo o viaggio non unicamente in forma corporea ma anche sotto una parvenza immateriale interna. Come si era assistito durante la performance a Fano, all’interno della rassegna Performing jazz a cura di Milena Becci, i dodici scelti costruivano una cornice attorno ad un quadrato, da sempre raffigurazione della perfezione, all’interno il corpo, quello del danzatore Leonardo Carletti; Il ponte tra la terra e il cielo, la materia e la spiritualità. Per tutta la durata dell’azione le dodici voci sono il soundtrack. Il suono è generato dalla parola dando vita al ritmo, alla musicalità e questo significa per me cooperazione. Resa visibile grazie all’uso delle luci, ad ogni soggetto ne spettava una, fino al raggiungimento di una illuminazione globale dello spazio sacro.

Il secondo passaggio di PROPHÉTA 12+1 Il silenzio dei vivi si è concretato presso la Casa Rossa di Alberobello all’atto conclusivo del mio intervento per la residenza, a cura di Carmelo Cipriani per Apulia land Art Festival. Il riferimento principale questa volta è stato Elisa Springer, donna deportata nei campi di concentramento in precoce età, la quale rilascia uno spaccato delle proprie esperienze e memorie alla penna del figlio che ha riportato su carta l’intera vicenda, dando così la possibilità ad un libro di nascere, un testo accessibile anche ai giovani, con l’unico scopo di conservare la memoria con la speranza che pagine così buie di storia non si ripetano più. Anche qui dodici persone più me, con il comune scopo di raccontarsi e mettere in atto la medesima azione compiuta dalla Springer e dal figlio, grazie alla toccante partecipazione di dodici adolescenti chiamati a riportare le parole ascoltate. Questa volta io ho avuto il centro: ho ricamato un grande arazzo di circa tre metri per tutto il tempo della lettura, in sacrale silenzio, la frase “Il silenzio dei vivi”. Il giorno successivo, i dodici ragazzi sono stati chiamati a leggere al pubblicamente i testi a chiunque passasse nei pressi della Casa Rossa. PROPHÉTA continuerà, la mia pratica si sviluppa in cicli di opere, di norma molto lunghi.

Ricordo Inventarium, il mio intervento al fianco dei parenti delle vittime della strage di Ustica, questo è solo l’inizio…

V.S. In questo nuovo percorso nelle due tappe già messe in essere hai due ruoli differenti almeno nell’apparire…

GG Mi piace osservare il teatro e ciò che succede in quello spazio di straordinaria magia e maestranza. È un luogo di grande sacralità laica, in quella scatola si muovono grandi professionalità tecniche unite per raggiungere un unico obiettivo: arrivare al pubblico. Ecco qui la parte che mi preme ora: considerare chi mi guarda. Ho pensato che questa fosse una azione che dovesse raggiungere più persone possibile, in particolare in un momento storico così buio e non voglio aggiungere nemmeno una battuta su ciò che ci succede intorno. Ho scelto quindi di rivolgermi ai codici del teatro e di studiare. Così la danza, dove il corpo non si muove mai senza consapevolezza. Avevo la necessità di disciplina di movimenti precisi e collegati in maniera evidente alle parole, mi è sembrato l’unico modo possibile per rispettare le tematiche delicate e per lasciare un prodotto di senso, forse utile ( è un termine che adoro) all’altro da me. Nel secondo atto l’opera era già presente nel luogo, ho solo aiutato il pubblico a guardare in maniera differente quel lembo di straordinario giardino della Casa Rossa, dove le querce hanno già compiuto tutto. Sono di tre tipologie differenti, ovviamente molto simili, ma coabitano uno spazio compiendo un atto di straordinaria bellezza. Era per me necessario, in un luogo così pregno di storie, portare la semplicità. Quindi: 12 + 12, due generazioni, mondi e storie differenti. Guardare, ascoltare, scrivere. Ho tenuto il centro per rendere visibile il senso, ho tessuto storie come ho già fatto altre volte. A breve ci sarà una nuova tappa di 12+1, vedrai che la forma ed il mio ruolo saranno ancora differenti. Adoro il silenzio, mi annoio con grande facilità.

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