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La dinamica sonora delle forme. Intervista postuma a Daniele Lombardi

Daniele Lombardi è stato un pianista, compositore e artista visivo; esperto di grafia musicale contemporanea ed esecutiva, ha coltivato un profondo interesse per un’idea multimediale d’arte – grazie alla doppia formazione pittorica e musicale – e una visione estetica che ingloba segno, gesto e suono. Il punto di partenza è un’idea di percezione molteplice fatta di analogie, contrasti, stratificazioni, rotture, mentre la ricerca, compenetrandosi su livelli diversi, risulta carica di sedimentazioni e notazioni semantiche. L’arte, come la musica, non è più forma chiusa rappresentativa bensì rappresentazione indipendente ed emergente, concreta e aleatoria al tempo stesso, fatta di eventi ma anche di scritture che determinano un linguaggio personale e destrutturato. In questa intervista in parte inedita, realizzata per il Camusac un paio di anni fa, l’artista recentemente scomparso lo scorso 11 marzo 2018 ci racconta della sua personale ricerca.

Tommaso EvangelistaProf. Lombardi cito una frase tratta dal suo testo Scrittura e suono: «È stato detto che la musica comincia dove finisce il segno ed il gesto, ma è anche vero che il segno ed il gesto cominciano dove finisce la musica. La storia dei linguaggi è un continuo moto circolare». Penso inoltre alle composizioni L’apprendista stregone e To gather Toghether. Vi è in tali opere una forte componente progettuale, dichiarata negli spartiti, basata sulla sinestesia e sull’idea di ordinare un linguaggio segnico-musicale. Anche alla luce delle sue successive ricerche che hanno formulato una sorta di distanza tra suono e immagine come vede l’utopico studio di un linguaggio tanto forte da legare queste due dinamiche espressive? Pensa sia possibile la strutturazione oggettiva di un alfabeto segnico-musicale? E se sì su quali basi?

Daniele Lombardi. Penso che la strutturazione oggettiva di un alfabeto segnico-musicale da secoli sia pensata come un’oggettiva necessità, ma al tempo stesso sia un’utopia, quella di un linguaggio condiviso, come un processo coatto nel quale significante e significato si identificassero in una relazione biunivoca. La storia delle avanguardie del secolo scorso ha dato ampia prova che questo pensiero, come quello di un “progresso” parallelo a quello della scienza, sono teorie impossibili, in un contesto in continuo mutamento, dove l’espressione artistica e musicale sono a volte il sismografo e a volte profezia di ciò che sta accadendo.

La parola stessa “musica” racchiude significati diversi nelle varie situazioni storiche: intrattenimento, concezione filosofica di interpretazione della realtà, liturgia religiosa, solipsistico iter verso nuovi mondi, avanguardia tout court, insomma in una sola parola si sono concentrate tantissime espressioni, a volte simili, a volte dissimili, fino ad essere opposte.

Quando nel 1972 feci per la prima volta il mio “Teatro Metamusicale” all’Autunno Musicale di Como, esponendo partiture mute, il momento era caratterizzato da una babele di linguaggi arbitrari, ogni compositore sviluppava la sua idea musicale sperimentando nuovi suoni e nuovi processi di semiosi. Si fece primaria in me l’esigenza di una ricerca che ponesse al centro il valore subliminale di una concezione formale che ormai andava perduta nella complessità di grammatiche sempre più astruse. Al tempo stesso l’ascolto, compromesso da questi percorsi – gli esploratori vanno nella giungla da soli – era stato ulteriormente reso enigmatico da una visione concettuale della notazione che aveva assunto un valore spaziale come formalizzazione sintattica.

Visualizzare un pensiero musicale come apparizione di forme da allora per me è stato un ponte per collegare l’evoluzione creativa e il suo risultato potenziale: come riportare la musica al di quà – o al di là – di un impatto emotivo, per trovare la sua logica formale. Per questa scelta l’humus a cui devo molto furono la “Mutica” di Gianni Emilio Simonetti, ed altri artisti e musicisti come Bruno Munari, Dieter Schnebel, Anestis Logothetis, Robert Moran, Earle Brown e poi chiaramente Cage, Bussotti…

Suono ed immagine si legano tra di loro secondo l’efficacia della relazione biunivoca che la notazione rende possibile: rimane una sfida che non è stata certo risolta in quegli anni di ricerca e un problema aperto, nonostante il mutamento dovuto alla presenza forte del digitale e il suo mondo virtuale.

T.E. Questa esigenza formale, quindi, è da collocarsi giustamente prima nel clima sperimentale delle avanguardie storiche e successivamente nella visione prismatica degli anni Settanta quando si tentava di ricomporre un senso con l’eccesso dei linguaggi. La notazione musicale, in bilico tra aspetti semiotici, estetici ed espressivi, virava verso l’idea di “opera aperta”. Nella ricerca di rapporti dialettici tra configurazione e indeterminazione lei è arrivato a maturare un linguaggio visivo che considera “apparizione di forme” e ricerca di un Logos. Penso all’opera presente al CAMUSAC, Musica virtuale, del 2000, percorsa da un sottile equilibrio cromatico e da una sorta di ponderazione che rimanda ad un contrappunto, mentre trovo Mèlos, del 2014, presentata sull’ultimo numero della rivista MOZART, una vera e propria linea di tensione nella quale il suo linguaggio visivo è come se avesse trovato dal vuoto la propria scaturigine. E’ un’opera dalla spazialità nuova ma con una tensione generativa in perfetto dialogo con l’architettura. Si può parlare di evoluzione?

D.L. Non credo si possa parlare di evoluzione, è piuttosto il risultato del consolidamento di un sistema semiografico complesso che confina e si confonde con la visualizzazione grafica di energie, con immagini che ne sono una manifestazione in analogia con i suoni.

Nel caso di Musica Virtuale (2000) l’opera consiste in un’interazione di sollecitazioni grafiche con cromatismi e figurazioni intrecciate tra di loro, e così come si ascolta una musica, che è la somma di tante sonorità diverse, l’immagine vive in questa immediatezza che è azzeramento in un istante del flusso. Ho chiamato “policronia” questo attimo fermato dell’immagine istantanea. Questa notazione di fatti sonori vede la compresenza di campiture più o meno sfaldate fisse nel loro posizionamento, elementi melodici che si snodano con un movimento potenziale più io meno veloce e infine elementi velocissimi, spesso realizzati con una dripping.

T.E. La notazione musicale novecentesca come la scrittura visiva è una sorta di “evento” che presuppone un coinvolgimento interattivo e una visione simultanea. L’idea dell’interazione è stata molto forte per esempio nelle sue performance. A riguardo avrei due suggestioni. Una mi viene dall’avanguardia storica, ovvero dai futuristi che nei loro spettacoli costringevano il pubblico, attraverso artifici e provocazioni, a partecipare ed a rispondere, la seconda invece viene dalla Teoria Eventualista formulata negli anni Settanta da Sergio Lombardo. Di quest’ultima mi ha colpito in particolare tale definizione: «Questo concetto estetico, non ancora completamente definito, richiede che l’evento modifichi la personalità di chi interagisce con lo stimolo, indirizzandola verso ideali culturali nuovi, più complessi e più raffinati». In che misura il suo lavoro “modifica” lo spettatore e nell’esecuzione delle sue opere qual è il posto assegnato all’evento?

D.L.La prima modifica è l’atteggiamento che queste opere richiedono: curiosità, pazienza, una crescente capacità appercettiva che dall’analogia suono – colore, figura visiva – andamento di una struttura sonora, sollecita ad una sintesi che evolve ciò che già era richiesto dallo spiritualismo di Kandinsky e dalla pratica di tanti astrattisti all’inizio del secolo scorso. Questa pittura pur definibile “figurativa”, che ritraeva le energie si collegava all’arte musicale, ritrae l’invisibile, era ancora lontana da tecnicismi di precise analogie e per questo fortemente poetica. Oggi con sistemi digitali l’analogia tra visivo e uditivo è profondamente evoluta, ma nel suo precisarsi ha perso il fascino di una libera elaborazione mentale che richiede sensibilità in espansione. Questa facoltà sviluppa un lavoro attivo che è agli antipodi dell’alluvione audiovisiva alla quale gli attuali media stanno assuefacendo, opposto all’idea di uno zapping, richiede forte concentrazione sul particolare e non subire la necessità di un continuo spostamento dell’informazione visiva ed uditiva. É in sostanza una pratica di meditazione profonda, niente di anarcoide o di eversivo, ma soltanto l’invito ad una condivisione di un percorso interiore che proietta una capacità percettiva anche su altre esperienze visive e sonore.

 

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