Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes.
Come spesso accade in molte città siciliane, e spesso accade, lo assicuro, anche nella meravigliosa Gela lo splendore del passato è una malinconica cartolina sbiadita. Dall’ingresso del Museo Archeologico Regionale, prima di entrare, diretto con lo sguardo verso sud-ovest, rapito dal tramonto, le fantasie elleniche sul mare così antico, calmo a febbraio, fanno da breve premessa alla fiera facciata di un palazzo di metà Novecento, o alla stazione petrolifera al largo, cadendo in frantumi. Sì, questo accade. Perché quando vien posto su un piano il rapporto tra l’antichità e il contemporaneo, e per condanna cronologica è ovviamente il contemporaneo a calcare tale piano e soppesare tale rapporto (impossibile finora il contrario), la malcelata indole darwiniana dell’osservatore tenta di rintracciare le evidenti lacune all’interno di quel tenero pezzetto di stoffa dell’esistenza la cui trama, solitamente, i due estremi dovrebbe legare.
Però, entrando al Museo di Gela, opulento ed elegante, opulento ed elegante nonostante tutto (sic!), di fronte al reperto numero 13859, una statuetta di pochi centimetri, tutto è messo a tacere: arrossendo, commuovendo. Non importa che ella sia lo sviluppo concettuale del mito di Demetra, sipario da cui l’oscenità si apre al mondo e sorride al mistero della vita; non importa che il suo nome suoni “Baubò”, e teatralmente, offrendo il ciceone alla Dea Madre caduta negli abissi della tristezza (oh!, quella tristezza di donna che perde la figlia), dimostri un insopportabile nervosismo a un ragionevole rifiuto. Ciò che importa è il suo non colto insegnamento (e colto sta qui in una doppia veste), che di erotico non ha nulla, ma proprio nulla: riducendo a una minuscola carta appallottolata complicate idee, con un semplice gesto.
La mostra al Museo Archeologico di Gela, continuazione di “Hotel Eros”, svoltasi la scorsa estate presso Lo Magno Arte Contemporanea di Modica, ha tentato l’impossibile dialogo tra due linguaggi opposti, antico e contemporaneo, con lo sforzo degli artisti Philippe Berson, Barbara Cammarata, Giulio Catelli, Daniele Cascone, Gaetano Costa, Lou Dubois, Emanuele Giuffrida, Giovanni Iudice, Kali Jons, Isa Kaos, Frédéric Léglise, Giacomo Rizzo, Ignazio Schifano, Marco Stefanucci, Jojo Wang, William Zanghi, e la posizione freudiana della curatrice Alba Romano Pace.
Chissà se oggi sussiste ancora un briciolo di coraggiosa oscenità (oscenità, non erotismo!, che è più impegnativa) in traduzione artistica. Quando sarà possibile invertire il tempo, dai giganti, noi nani, ci faremo spiegare qualcosa; dopo avergli chiesto scusa: il minimo, no?