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La cifra muta: dentro di sé

Una delle cose più importanti nella vita è la capacità di leggere e scrivere. Durante tutte le fasi della vita ogni persona usa una penna. La storia della scrittura, con la quale gli esseri umani hanno registrato e trasmesso pensieri e sentimenti, è la storia della civiltà. Questo è il modo in cui conosciamo la storia del genere umano, dai segni e disegni, parole e immagini che abbiamo registrato, attraverso i metodi di scrittura. Ogni persona per comunicare, oltre al linguaggio orale, usa la scrittura e forse il disegno. E allora, perché non ripensare di scrivere e di disegnare ciò che ci circonda? Perché non creare un’estensione alla nostra mano, un’estensione che ci renda in grado di trasmettere il nostro tratto nel modo più naturale possibile, tramite l’utilizzo di un prolungamento del nostro dito e della nostra sensibilità naturale e immaginativa? Così, in questa realtà grafologica, rintracciata in questo mio pensiero, inizia a prendere forma la nuova creazione di Lucia Gangheri. E da una immagine nella mente, iniziano i primi schizzi dell’opera fino ad arrivare al suo completamento, rendendola parte della nostra esposizione immaginaria. E dunque, quanto valore ha effettivamente un nostro pensiero sulla natura o attraverso la natura? Basta guardarsi intorno per rendersi conto che tutto ciò che gli occhi di Lucia Gangheri vedevano e vedono, dai circuiti stampati della tecnologia alle piante e agli animali, alle foglie e ai colori, ad esclusione di una natura propriamente esterna, non sono altro che le idee della pittrice, pensieri di sensazioni portati ad esistere in questa realtà pittorica. 

Artificiale e naturale è una delle più potenti dicotomie della modernità. Artificio e natura sono comunemente due concetti opposti, tuttavia ad una attenta analisi del significato dei termini si coglie che l’uno racchiude l’altro: naturale (dal latino nasci: nascere) significa derivato dalla forza che genera; artificiale (dal latino Artificio) è tutto ciò che viene prodotto con mezzi e strumenti di imitazione della natura. La natura, infatti, è la prima fonte di ispirazione per l’artista che nei secoli l’ha interpretata, declinata e trasformata a seconda delle epoche e soprattutto degli strumenti a disposizione. La vita dell’artista è sempre più immersa in una sfera artificiale che la condiziona, a volte fino a renderla irriconoscibile. Il rapporto artista-natura è sempre più complicato nel mondo odierno. Il ricordo, unica forma di sopravvivenza attuabile, trova tutta la sua umana materialità nello spazio circoscritto tra poche linee, nell’essenza stessa del disegno e del tratto pittorico, che muove sempre a partire dal disegno, suo presupposto imprescindibile. Sarà per questo che a Vasari era tanto caro il mito di Butade, sarà per questo che nella Firenze del XVI secolo la ripresa dei miti classici per mano dell’Alberti trovò una così grande considerazione. Il mito classico, quasi unico nel suo genere, è capace, tutte le volte, di accogliere nuove interpretazioni e di rispondere alle esigenze critiche più in linea col pensiero di questa o quella epoca, in tale o talaltro luogo. Non poteva certo chiedere di meglio un’arte tanto nobile quale il disegno e la pittura di Lucia Gangheri, capace di materializzare le più sensibili dimensioni del corpo: il ricordo, le emozioni e gli ideali di una espressione fra corpo ambientale, corpo animale e corpo umano. La nascita della pittura dentro alla biografia della Gangheri viene quindi associata al ritratto di un’ombra, alla proiezione di un’ombra sul muro, l’ombra di un amore creata dalla luce di una lanterna. Un segno, visto come proiezione di uno spettro ambientale, di un qualcosa di passato, una reliquia, una testimonianza di cosa era e non è più possibile avere. Ombre rappresentanti piante e animali che, come dice Edmund Burke, sono causa di sublime. 

È legge della nostra percezione che prima dal sensibile conosciamo le generalità e poi le particolarità delle cose esistenti. Perciò prima si offre alla nostra conoscenza l’universo corporeo in modo generico, cioè negli elementi comuni a tutti i corpi, e poi gli elementi non comuni a tutti i corpi, ma appartenenti a particolari categorie di corpi, che costituiscono il mondo minerale, vegetale e animale. La realtà materiale che per prima cade sotto i nostri sensi, sono i corpi. Con la parola corpo si intende comunemente nella lingua italiana e nelle Scienze ogni porzione di materia che occupi uno spazio, cioè qualunque oggetto, qualunque cosa materiale. E l’insieme di tutti i corpi esistenti è chiamato l’universo corporeo, materiale. Riguardo ai corpi la “Vista artistica” ci fa conoscere i principi formali, cioè le ultime parti componenti che si possono stabilire col disegno mimetico, dedotto da fatti visuali sperimentalmente accertati. L’esistenza dei corpi è una realtà certa, incontestabile: è un fatto tanto sicuro ed evidente che solo un folle può disconoscere. 

L.G., al contrario, sottolinea negli esseri animali e ambientali elementi quali carnalità, finitudine, vulnerabilità, nonché quell’ambivalenza che permette di affermare, senza essere contraddittori, che noi siamo un corpo ed abbiamo un corpo. L’Autrice ribadisce, anche insistentemente, l’importanza della corporeità quale medium per incontrare gli altri e svolge un’accurata stilizzazione, tesa a dimostrare come nella società contemporanea il corpo sia ormai oggetto di un vero e proprio culto, anche se ciò di cui si parla è più un’immagine ideale verso cui tendere, che non la realtà. La conseguenza è che oggi sembra si possa parlare di un nuovo tipo di dualismo, che passa per un’opposizione/contrapposizione tra volontà e materialità ed alimenta l’illusione che ognuno di noi, in quanto agente razionale, possa imporre la propria volontà sul proprio corpo e fare come se esso nella sua corporeità non esistesse. Completamente asservito alle nostre costruzioni culturali, sociali e ambientali, il corpo sembra pertanto essere una materia totalmente plasmabile a seconda dei nostri desideri.

Viviamo in tensione continua rispetto alla nostra esistenza fisica. Noi siamo esattamente ciò che siamo, poiché siamo il corpo che possediamo. Assieme prossimo e lontano, il corpo offre a ciascuno di noi l’esperienza dell’intimità più profonda e dell’alterità più radicale. Tale ambiguità si ritrova anche nella trasposizione faunistica e nella complicata pratica dei trapianti visivi dell’immagine della natura, che investe la cruciale questione dell’identità, soprattutto per quanto concerne il trapianto del fiore, poiché il possesso dello stesso contribuisce a creare il senso che si ha di sé e rappresenta uno dei fondamenti dell’intersoggettività. Il volto animale, insomma, identifica una persona nella natura, la manifesta, la rende contemporaneamente estranea e prossima, poiché è anche grazie alla morfosi botanica che un essere umano esplicita la propria irripetibilità, ma al contempo è sempre grazie alla vegetazione che due esseri condividono la propria umanità. Attraverso questa grande varietà di metodi e tecniche pittoriche è possibile, quindi, ricreare quel senso di rovesciamento della realtà che poeti e pittori surrealisti andavano cercando all’interno degli stati psichici e dell’inconscio.

Altro tema noto e rimesso in discussione dalla pratica pittorica è quello del mimetismo. Il saggio Mimetismo e psicastenia leggendaria di Roger Caillois influenzò moltissimo gli psicanalisti degli anni Trenta, che lavoravano a Parigi. Jacques Lacan, ad esempio, deve a questo testo la sua elaborazione del concetto di “stadio dello specchio”, secondo cui il soggetto umano prende coscienza di sé attraverso le operazioni di duplicazione della sua immagine. Per quanto riguarda la pittura di Lucia Gangheri, il tema del mimetismo sfocerà nell’esplorazione del doppio. Le spiegazioni scientifiche collegano il mimetismo degli animali ad un comportamento legato all’adattamento con l’ambiente, quando l’animale cerca di assumerne le sembianze di ciò che lo circonda per mimetizzarsi. Callois tuttavia osserva che, prendendo ad esempio l’insetto, non sempre questo adattamento mimetico va a buon fine: l’animale, infatti, può essere comunque preda dei suoi stessi congeneri, o può non essere riconosciuto dai membri del gruppo di appartenenza. Callois ipotizza che il fenomeno del mimetismo possa essere associato alla psicosi dell’insetto: cambiando la percezione dello spazio, inevitabilmente perderà il possesso di sé, perché mimetizzandosi annullerà la sua differenziazione rispetto allo spazio circostante. Il mimetismo, quindi, rappresenta la perdita della coscienza e della percezione di sé. Può esistere un altro spasmo della natura in cui le categorie formali vengono spezzate in maniera così brutale? Senza alcun dubbio il mimetismo è – anche per la Gangheri – un modo efficace per creare la forma della mediamorfosi

Fu proprio questa sensazione di perdita della forma e della percezione della realtà ad interessare i Surrealisti, che tenteranno di riprodurla nelle loro opere, interessandosi all’effetto d’iscrizione dello spazio sul corpo, che il mimetismo produce. Tale effetto porta a definire il soggetto in termini di proiezione, ovvero non sarà più colui che vede ma sarà colui che viene visto. La figura viene completamente annullata perché il corpo, doppiando lo spazio, è posseduto dall’ambiente circostante, creando una rottura all’interno del rapporto tra l’organismo e lo spazio circostante, inevitabilmente quindi insorgerà un problema relativo alla rappresentazione. La Gangheri mostra a tal proposito una particolare concezione del visivo: affrontando il tema della figurazione post-surreale, non possiamo che confrontarla con la logica modernista e la sua idea di potere ottico, secondo cui l’unica dimensione possibile per l’arte è quella puramente visiva. Tuttavia, la concezione di Callois, sviluppata da Lacan e ripresa anche da Lucia Gangheri, mette in crisi l’idea modernista della superiorità nel senso della vista e la sua autoreferenzialità; la dimensione visiva era infatti un qualcosa che proveniva dall’esterno del soggetto e dipendeva dalla rappresentazione.

La pittura risulta essere il mezzo più adatto ad indagare il visivo e il suo gioco di riflessi, essa infatti può giocare il ruolo del doppio descritto da Callois. Nel graphein della pittura non vi è una netta separazione tra il soggetto che sta vedendo e l’immagine che gli viene restituita dallo sguardo, perché quest’immagine, in cui si trova prigioniero della rappresentazione, viene percepita dal punto di vista di un’altra persona. La peculiarità intrinseca della graficità della pittura, e che la differenzia da qualsiasi altro procedimento che è in grado di produrre immagini, è quella di possedere il doppio già all’interno del proprio supporto che le garantisce una condizione di reversibilità; grazie alla trasparenza, infatti, è già possibile leggere l’immagine anche se rovesciata. Questo rapporto tra il soggetto e la sua immagine nello specchio interessò moltissimo i Surrealisti, che in particolare furono affascinati dal sentimento di minaccia creato da questo effetto del doppio. Attraverso il dato “grafico e retinico della pittura”, era possibile ricreare questa sensazione di angoscia e minaccia, che Freud chiamò perturbante, riferendosi all’inquietudine generata dall’idea del doppio, quella paura primitiva legata agli specchi. Il concetto di perturbante chiarisce anche quella sensazione, quella sorta di shock, che procurava la Bellezza convulsiva di cui parla Breton nelle sue opere. L’effetto perturbante, l’impossibilità di distinguere l’immaginazione dalla realtà, che i Surrealisti andavano cercando nella loro opere, era legato secondo Freud alla credenza primitiva della magia. Animismo e onnipresenza narcisistica rappresentano la penetrazione di stadi anteriori dell’essere all’interno della coscienza e questa penetrazione provoca nel soggetto una sorta di ferita, un’esperienza di morte. Questa sensazione di essere feriti, chiamata da Roland Barthes punctum, è sensazione da lui stesso provata e definita come un tipo di spavento improvviso, legato alla visione di un “fantasma grafico”. 

Secondo Benjamin, la fotografia ha completamente cambiato la percezione della realtà, scardinando le categorie formali della visione e della natura. Le proprietà dei corpi sono caratteristiche inseparabili da essi, li seguono ovunque, sono afferrate dai sensi perché realtà materiali e ci rivelano la natura, la costituzione dei corpi medesimi, frutto dell’intelletto. Il problema della ridefinizione del corpo permea, con diverse modalità, l’intera produzione della Gangheri. Se non è facile precisare in cosa si traduce questa ridefinizione, non abbiamo dubbi sull’identificazione dell’immagine in contrapposizione alla quale prende le mosse questo movimento: l’immagine tradizionale del corpo femminile, giovane, armonioso, proporzionato, che Magritte sceglie per significare la parola femme nel collage Je ne vois pas une … dans la foret

Dal 1980, con la raccolta dei primi disegni e pitture, la radicalizzazione dell’organicismo naturalistico di Lucia Gangheri prende la via di una sempre più netta negazione della visualità come artificio, come processo regolato dall’artista e ad esso finalizzato. Alla tecnologia per la tecnologia, la pittrice contrappone l’antinomia tra l’esistere delle cose e il non esistere della pura tecnica, entro cui vede annullarsi i principi di individualità, di spazio e di tempo. Questa è d’ora in poi l’area della sua pittura. Nelle opere degli anni 80 e degli anni ’90 e nei recenti quaderni di disegno, il protagonista è un universo di cose ordinarie e straordinarie che si confrontano con la natura della tecnica e con la tecnica della natura (l’immagine stessa), di figure naturali, dove una lingua propria delle piante, degli alberi e della natura stessa, che ha vanificato ogni plain air, misura attimo per attimo, morfologia per morfologia, genesi per genesi, ceppo per ceppo, arbusto per arbusto, il fallimento di un segno astratto e l’emergere del dato iconografico come dato significante, privo di ogni ambiguità, perfino quello della sua vanità. La legittimazione nasce da una vita vissuta nella cifra muta del dentro di sé. Il sogno di essere un metre de gay saber è speranza concreta e la pittrice sconta la tensione di aver affidato la propria vivacità individuale ad una aristocratica consapevolezza mentale: “più di ogni altra cosa, fu savia e celeste la mia consapevolezza della natura; anzi, della mia natura”. 

Quando saltano i punti di riferimento di questo sapere, il baratro e il nulla si spalancano e la Gangheri li registra, cogliendoli negli aspetti più comuni di ciò la circonda e di ciò che affiora del ricordo. L’atmosfera di arcana saggezza, di misteriosa sospensione della sensibile stagione pittorica gangheriana si è compiuta dentro di sé. I magici amuleti salvatori, l’attesa della formula che possa aprire ai mondi fantastici della natura, l’enigma della tecnologia, il confronto con l’hardware, i circuiti stampati che divengono architettura e disegno, esorcizzati dal compiacimento di possederli a livello della propria coscienza artistica, lasciano il posto ad una sorta di osservazione separata (per dirla con Carlos Castaneda), lontana distanze astrali: sono queste distanze a dividere la pittrice da ciò che ella oggi guarda, da ciò di cui disegna, tanto che tutto pare scomporsi in pure divagazioni sul tema dell’Altro naturale. La divina indifferenza dei simulacri, secondo un processo di coerente sviluppo endogeno, è approdato al senso dell’insistenza. La Gangheri reagisce alla codificazione simulacrale del femminile proponendo un’immagine non sostitutiva, ma organica: l’artista sovverte la figura strutturale della natura, anzi, la propria, fino a stravolgere le icone della fisicità e dell’anatomia, approdando alla definizione di un corpo mimetico, instabile, mutante nella morfologia del naturale e nella poesia del dato ordinario. 

Nello spirito della natura in sé, l’autrice riproduce, per sovvertirlo, il discorso della cultura mimetica; in altri termini si serve del discorso mimetico per decostruire le figure delle piante e degli animali e trasformarle provocatoriamente in creature inquiete, dai connotati sviluppati nella mimesi e dall’identità biologica e sessuale indefinita. Il problema della ridefinizione del corpo implica naturalmente una riflessione sull’identità. Nella Gangheri il gioco sul corpo si traduce nell’affermazione di una identità fluida, plurale, o, nei termini di Lacan, discontinua. La pittura ben si presta a porre in evidenza il nesso problematico (e, proprio per questo, speculativamente fecondo) tra natura e arte, che è come dire fra arte e bellezza. In che senso si può dire ‘problematica’ la relazione fra arte e bellezza? L’arte non è forse il campo del bello par exellance? Come può un’opera d’arte non essere bella? Se la natura è a-cosmica, se le forme che sembravano pervaderla, nella precedente rappresentazione ‘mimetica’ e ‘cosmica’, si sono rivelate una mera illusione, allora è gioco-forza rinunciarvi, ossia deporre l’idea di un’arte bella perché mimetica della bellezza che domina in natura. Di conseguenza, per sostituirla con un’arte ‘brutta’, sia in quanto rappresentativa del disordine naturale finalmente svelato, sia – e ancor di più – in quanto espressiva della potenza di chi tale ‘bruttezza’ naturale contempla, comprende e supera entro le proprie facoltà spirituali: il soggetto umano. La pittura illustra, forse meglio di ogni altro ambito di riflessione e di produzione culturale, tale passaggio epocale dall’arte preromantica – condizionata dal sentimento di piacevole orrore (secondo la nota definizione che ne diede Edmund Burke) in cui si risolve l’esperienza del sublime, di fronte a spettacoli naturali tremendi, quali tempeste, naufragi, eruzioni vulcaniche, ovvero paesaggi sconfinati, desertici, o aspri e selvaggi – a quella più propriamente romantica, in cui tale visione si ricompone in un equilibrio ormai fondato su una dimensione in-formale, non-oggettiva, sempre più spirituale e concettuale che, in certe sue manifestazioni, tende addirittura a prescindere dalla natura, o a inglobarla entro le potenzialità creative del soggetto, sia individuale che collettivo. E, nella pittura, il paesaggio è l’elemento che, per primo, subisce la metamorfosi da ‘bello’ a ‘brutto’, divenendo lo spazio ideale per rappresentare la natura, ormai svelata agli occhi dell’osservatore disincantato – e degli artisti attivi fra Sette e Ottocento.

La scrittura-visiva di Lucia Gangheri reca un topos personale, autobiografico, il senso del mentre io, del quando io, l’origine, la nascita, la crescita biologica, lo sviluppo iconico, privato e sociale, che risuona nei dettagli della scena, nel teatro costruito dalle morfologie delle piante, nel fondale spoglio, denudato, quasi trasparente e sospeso nel conflitto io/natura che diviene spesso una metafisica della poesia e una ribellione alla Mimesi, in altri termini un’estasi assurda. Si può cogliere, nei bagliori e nelle ombre del figurato, l’espressione di una ontologia originaria, tradotta nella meccanica scritturale multipla di un gioco fatale, spesso, a partire da uno sdoppiamento assurdamente accettato o voluto. In ogni pittrice la sfera del privato ha influito, quando non proprio causato, la visione scritturata, ma in alcune, questa esperienza del vissuto, di ciò che si vive e del come lo si vive, è dichiarata, in altre mascherata: in Lucia Gangheri, come in L. Carrington di En Bas, questo rinvio autobiografico viene quasi sempre suggerito o esplicitamente enunciato: come mimetica organica del Sé. Ed è anche chiaro che per una pittrice e un’artista, come la Gangheri, che ha potuto esibire  la sua opera mentre la realizza o subito dopo averla disegnata e dipinta, l’opera segue di pari passo la vita. L’opera è nel Sé e il Sé si intreccia all’opera, il doppio è, dunque, trascinato verso la consumazione, la cancellazione del corpo e del soggetto, della persona dell’autrice e non sempre in termini di metafora o di pratica metafisica, ma in termini reali, nel senso che non solo l’opera è la traccia di un soggetto occultato (che si assorbito in parte in quella immagine), ma nel senso che davvero l’opera è premonizione/assimilazione del corpo dell’autrice. Bisogna, dunque, tener presente che in Lucia Gangheri c’è scambio-intreccio, fino all’allucinamento-mimetico, tra opera e esistenza. 

Infine, ciò che dà senso a una pittura-disegnata, ad una scrittura-dipinta, ciò che la rinnega o la riconosce, la indebolisce o la rafforza, sono gli ultimi colori e l’ultimo frammento, l’ultima pennellata, l’ultima testualità, l’ultimo segno e la particolarità dell’imago mentis. Abbiamo bisogno che la pittura ci mostri la strada per ritornare all’esperienza ordinaria e straordinaria di noi stessi, per renderla un oggetto di interesse e di piacere e non di disprezzo e fuga. Allo stesso modo, il rapporto pratico-ricorsivo, che si dà tra conoscenza di sé e prassi esistenziale della pittura, costituiscono prospettive interessanti per comprendere come “La pittura s’impara solo facendola”. 

Nell’opera della Gangeri, il ritorno della pittura all’ambiente natura è inteso come la banalizzazione delle funzioni e del linguaggio della pittura. Se uno dei principali meriti del ciclo pittorico e disegnativo di L. Gangheri è quello di ricordare le differenti specificità di immagine naturale e pratica mediale, in un periodo in cui le due espressioni rischiano di essere confuse o appiattite in un unico senso, un altro è dato dalla modalità rigorosa, per riferimenti, lessico, indagini, con la quale i differenti segni sono stati trattati offrendo, in particolare, la formulazione di diversi possibili paradigmi di riferimento per muoversi all’interno del vasto orizzonte di queste icone distinte, ma non separate. Il ciclo gangheriano rinuncia, infatti, a ridurre il fenomeno della pratica pittorica a una formulazione generica, magari di facile fruibilità ma di scarsa utilità e corrispondenza alla realtà, affrontando la complessità dello stile da prospettive differenti per approcci, riferimenti epistemologici, finalità e interessi, offrendo così un lavoro nel complesso sostanzialmente inedito seppur su di una pratica assai considerata.

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