Mai come in questo caso la partenza ha una leggera analogia con l’arrivo. Mentre il viaggio viene vissuto da Agrigento a Gibellina, cioè dal tufo giallognolo al mare, dagli aranceti al dolce verde del Belice, con il sottofondo grigiastro del cemento esploso un po’ ovunque, i luoghi sussurrano se stessi.
La meta è una città che abbraccia lo sguardo deliziandolo, fondata ormai quasi cinquant’anni fa; e tuttavia deserta, almeno per le strade, rendendola illusoriamente priva di abitanti. Le sculture di arte contemporanea, in ogni angolo, godono di una solitudine tenera: e vigilano il proprio fruitore con grande attenzione.
Alla Fondazione Orestiadi, posta sulla sommità di un colle, c’è ad attendermi l’architetto Enzo Fiammetta, il direttore. Al quale, per una curiosità personale, è indirizzata una domanda che avrà ascoltato chissà quante volte.
«È da qui, da questa collina che guarda la città, che si può meglio riflettere su Gibellina. Senza presunzione, ma per osservarla da una diversa prospettiva», risponde. «E probabilmente ti posso essere di aiuto: perché non sono gibellinese. Anche se lo sono virtualmente dal 1996, da quando ho iniziato a lavorare con Ludovico Corrao. Con questo voglio dirti che ho seguito sia dall’esterno che dall’interno il rapporto tra Gibellina e la Fondazione Orestiadi, tra l’urbanistica e l’arte. E ciò che posso affermare è che, anziché giudicare quanto è stato fatto, poiché è facile giudicare, prima sarebbe il caso di intraprendere un viaggio lungo tutti i paesi del Belice. E dico tutti. Per avere una visione chiara del progetto di ricostruzione, e per comprendere, infine, ritornati a Gibellina, ciò che di particolare qui è accaduto».
Oltre al dramma del terremoto, la fondazione di una città?
«Appunto. Una città che è stata fondata come le altre; ma che subito ha posto di fronte a sé la questione della sua identità, della ricostruzione dopo il dramma, del trasferimento in altro luogo e delle trasformazioni antropologiche e sociali di quegli anni. Questo “come” è dentro Gibellina, anche adesso. Tutte le riflessioni inerenti al “perché sia così Gibellina”, dunque, cadono se si pensa che per la realizzazione di quanto definisce oggi una città nuova non si può che applicare i linguaggi del tempo. Come testimonia la storia di altre città di nuova fondazione».
Questione di linguaggio e di gusto?
«Soprattutto di linguaggio. Il linguaggio, che è usato per dare forma a un’opera, non può essere differente dallo spirito del tempo che lo genera».
Il linguaggio cambia velocemente, però, e con esso il gusto…
«Perché il desiderio di sperimentare è sempre vivo. Fa parte dell’uomo. L’architettura e l’urbanistica, nel caso della ricostruzione delle città del Belice, forse non hanno fatto proprio lo spirito del tempo, né compreso il genius loci che guida il rapporto tra spazio, storia e architettura. Per colmare questo peccato originale, sono stati chiamati artisti da tutto il mondo: forse perché, in quel periodo, essi avevano la capacità di comprendere necessità e cambiamenti».
E sul mutare dell’identità?
«Gibellina vive due momenti importanti nella sua breve storia: dal 1968 al 1996, dal 1996 al 2011. Nel primo momento Corrao è sindaco e segue la vicenda di Gibellina in prima persona (Ludovico era un visionario. Lui è stato il più grande artista: i suoi amici, intervenuti a Gibellina, hanno lasciato opere meravigliose). Subito dopo il terremoto la comunità, fondamentalmente dedita all’agricoltura, che viveva lì dove adesso sorge il “Cretto” di Burri, rimane, ovviamente, legata alle vecchie tradizioni sociali, ma, mediante l’intuizione di Corrao che individua nel teatro e nelle arti visive gli ambiti che consentono una partecipazione collettiva al progetto di ricostruzione, ritrova un nuovo spirito di comunità. Tutti i cittadini vengono chiamati a partecipare al nuovo progetto: gli artigiani, le sarte, le scuole… Insomma, la città diventa protagonista. Nel secondo momento, dal 1996 in poi, la generazione che aveva subito il dramma lascia il passo a chi aveva vissuto i momenti entusiasmanti delle stagioni memorabili delle “Orestiadi”. I giovani sono consapevoli della “specificità” della loro città, con un patrimonio artistico tra i più importanti in Italia. E l’arte per le strade di Gibellina, ai loro occhi, diventa parte della loro nuova identità. Essi, anzi, si sono formati con una capacità di lettura dei linguaggi contemporanei maggiore rispetto ai loro coetanei di altri luoghi, o addirittura di altre periferie urbane italiane. Qui si apre un altro aspetto: quello dell’affetto per i luoghi in cui sono nati e cresciuti».
E cioè la conoscenza…