Keith Haring, il venticinquenne campione della subway di New York, per la prima volta in Italia nella galleria di Lucio Amelio dove, per la serie di mostre “Terrae-motus”, espone insieme ad altri lavori un’opera realizzata a Napoli di sei per tre metri. Tanta musica e buttons, armato del suo marker (argento per questa occasione), Keith Haring, t-shirt jeans e scarpe da basket, viene sorpreso ancora al lavoro nella galleria; il colloquio è rinviato al dopomostra nel ristorante Dante e Beatrice.
Nella biografia apparsa nel catalogo della mostra “Champions” tenuta nel febbraio scorso alla Tony Shafrazi Gallery di New York si parla del tuo lavoro come post-concettuale. Che cosa significa? Che influenza ha avuto sul tuo lavoro l’incontro alla School of Visual Arts di New York con Keith Sonnier e Joseph Kosuth?
Veramente le biografie di quel catalogo sono state scritte da Shafrazi. Ma devo dire che sapendo del loro lavoro me ne sono interessato molto. Il lavoro che mi ha interessato di più é stato però quello di Vito Acconci.
Per i concettuali direi che ho capito il loro lavoro. Essi hanno spinto l’arte al limite, mettendo in questo limite l’arte e la non arte. Ma il concettualismo aveva anche il limite di aprire e di chiudere rispetto all’arte. Alcune strutture di Judd, per esempio, se messe per la strada fuori da una galleria sono solo delle enormi scatole.
Chi sono gli artisti dei graffiti?
Graffiti sono tutte quelle scritte che sono sorte a migliaia sui muri della periferia e nella metropolitana. E graffitisti tutti i “Writers” che scrivono il proprio nome. All’inizio era infatti solo uno scrivere il proprio nome per identificarsi con esso.
Ma secondo te non c’é differenza tra ciò che veniva scritto sui muri e ciò che veniva scritto sui treni?
Non c’é differenza perché sono scritte che emergono da una situazione di lavoro illegale. I murales, per esempio, sono il prodotto di un lavoro che si costruisce nella piena legalità.
Come è cominciato in te l’interesse per la strada, per la metropolitana, insomma come e quando hai iniziato a lavorare nelle stazioni della metropolitana di New York?
Disegnavo da sempre e volevo continuare a farlo. Arrivato a New York sono stato fortemente attratto da
quello che stava accadendo nelle strade e nella metropolitana. C’erano migliaia di ragazzi che scrivevano i loro nomi sui muri delle periferie e che riempivano i treni di vernici colorate e allo stesso tempo persone che lavoravano nella strada (soprattutto nel centro) con l’uso di posters e di manifesti, che mi colpirono anch’essi moltissimo. Per due anni sono stato molto attento a tutto ciò che stava accadendo, mi guardavo intorno e volevo trovare il modo per intervenire con l’uso del disegno all’interno di questa situazione. Infatti una delle prime cose che ho fatto è stato il disegnare con lo stesso pennarello usato dagli altri un mio segno di riconoscimento accanto alle scritte o ai nomi: il mio omino che correva.
Fu quando mi accorsi di poter disegnare sui pannelli neri delle pubblicità scadute della metropolitana che iniziai in modo più diretto e continuo ad intervenire nella situazione. La scoperta del pannello nero é stata fantastica. Perché: per primo, il pannello nero è rettangolare ed è lo spazio ideale all’interno del quale disegnare, secondo, potevo usare il gesso bianco che ha il grosso vantaggio di poter essere facilmente cancellabile oltre che veloce nell’uso e di essere economico, lo portavo in tasca e con estrema rapidità potevo usarlo nel giro di pochi minuti in più punti della metropolitana; terzo, perché questi disegni fatti sui pannelli potevano essere visti da migliaia di persone che ogni giorno attraversano la metropolitana.
Ma questo in che periodo avviene e quali erano stati i tuoi precedenti contatti?
Questo lavoro comincio a farlo nell’estate dell’80. Tra il ’78 e I’80 vivevo nell’East Village e alla School of Visual Arts sono diventato amico di Kenny Sharf, e cercavo una direzione per il mio lavoro che si legasse sia ai treni che ai posters. In questo periodo ho conosciuto Jean Michel Basquiat e Jenny Holzer. Mi sono sentito molto vicino per sensibilità al lavoro di Jean Michel e mi interessava da tempo quello di Holzer che finalmente ho incontrato in occasione della mostra sul manifesto dove anch’io partecipavo.
Come inizia la tua attività di artista?
Nell’East Village ho organizzato da solo mostre nei Club, come al Club ’57, anche perché mi interessava in ogni caso rendere partecipi diversi tipi di persone al mio lavoro. In questi anni le gallerie ufficiali andavano proponendo un certo tipo di artisti con un certo tipo di lavoro. Di conseguenza non potevo usufruire di questi spazi né mi poteva interessare il tipo di gente che frequentava queste gallerie. Cosi spesso si organizzavano mostre in spazi diversi o alternativi. Nel 1980 c’é stata la mostra “Times Square Show”‘ che é stata la prima grande esposizione a riunire il lavoro di molti artisti che lavoravano in situazioni analoghe alle mie come Fab 5 Fred, Dondi White, etc.
Ritornando al tuo lavoro nella Subway, come si sono andati evolvendo i tuoi disegni?
Ho cominciato a fare i disegni nella subway nell’estate dell’80. All’inizio, si trattava di una specie di gioco, come di un’intrusione, che consisteva nel disegnare un omino che correva tra gli altri graffiti, come se rincorresse o fosse rincorso dai nomi. Cominciai a disegnare sui pannelli neri tra il gennaio ed il febbraio 1981. In quel periodo intanto si andavano definendo i miei soggetti: omini, bambini raggianti, cani, televisori, etc. Disegni il più possibile di lettura semplice ed immediata per la gente che li vedeva. Le stesse persone potevano vedere e riconoscere quei simboli in più posti nel giro di pochi minuti. Questo cominciò a stimolarmi moltissimo e iniziai a pensare di creare una narrazione attraverso questi disegni. Un grosso stimolo alla proliferazione di immagini veniva anche dal fatto che continuamente pannelli venivano ricoperti ed io ero spinto a disegnare con la massima rapidità nuove storie e nuove idee sui nuovi pannelli.
Fai ancora questi disegni in metropolitana?
Si li faccio ancora. …e siccome i pannelli si trovano lungo le varie linee della subway, dislocati nelle varie stazioni, ho cominciato a pensare di intervenire sulle mie storie con la tecnica del Cut Up tipica di Burroughs, perché in questo modo le tante persone che vedevano gli stessi brani della stessa narrazione e che ricercavano gli stimoli dai tagli e dalle ricomposizioni avevano rispetto ad essi reazioni diverse e questo mi interessava moltissimo perché c’era una larga partecipazione, ma la cosa era vissuta individualmente.
Come mai ti sei interessato alla tecnica narrativa di uno scrittore, di William Burroughs?
Burroughs mi interessava e poi partecipai ad una sua conferenza e li forse fui particolarmente preso da questa tecnica narrativa. La cosa che mi interessava era che le persone rileggevano in una logica dell’immaginazione, del sogno, una scrittura non lineare.
Ma credo che ci sia una differenza enorme tra il linquaggio verbale e le immagini che tu proponevi e proponi e la traslazione di questa tecnica mi sembra in ogni caso difficile.
Ma non è tutta la tecnica di Burroughs che riprendo è soltanto per ciò che riguarda il Cut Up. lo credo che sia addirittura più semplice usare questa tecnica per le immagini che per le parole, perché la parola appartiene al linguaggio che deve essere mediato dalla comprensione della parola stessa. Per esempio, se al posto della parola Glass, che é una convenzione per indicare il bicchiere, io dò l’immagine semplice del bicchiere la comprensione è più immediata.
Quando è avvenuto l’ingresso nelle gallerie ufficiali?
Non sono stato io a cercare di entrare nelle gallerie, ma sono stati i galleristi a venirmi a cercare. Quando ho fatto la prima mostra in una galleria ufficiale il pensiero dominante era quello di non chiudermi in una sola situazione ma di allargarmi il più possibile.
E accettavi il pubblico delle gallerie ufficiali?
Volevo che il mio lavoro fosse conosciuto da tutti e quindi nessuno doveva essere escluso, perché anche questo pubblico doveva capire un altro tipo di lavoro. Ripeto che continuavo al tempo stesso a lavorare parallelamente nella metropolitana. Perché la cosa più importante è la subway.
Con l’ingresso nelle gallerie il tuo lavoro ha subito modificazioni?
Solamente in positivo. I lavori in metropolitana si andavano perdendo continuamente, e perché il mio lavoro fosse conosciuto ed esistesse a tutti gli effetti era necessario renderlo permanente: fermare nel tempo ciò che andavo realizzando. Importante per continuare a lavorare era avere i soldi. Per esempio, i primi buttons che io regalavo alla gente che incontravo li facevo con i miei soldi. Ora posso permettermi non solo di continuare a disegnare, ma anche di fare migliaia di manifesti e di buttons.
Come ti è venuta l’idea del button con il bambino raggiante? Che cosa signitica?
A New York si incontrano e si conoscono anche migliaia di persone, molte le incontri una volta forse alcune anche due, poi non più. Mi piaceva regalare a chiunque incontrasse i miei disegni un segno, come un mio marchio, perché le persone che poi si incontravano e che erano in possesso del mio button lo riconoscevano e si dicevano: “Anche tu hai incontrato quel ragazzo che disegna nella metropolitana?”. Il mio primo button è stato il baby, l’ho realizzato tre mesi dopo l’inizio del lavoro nella subway. Era la mia firma.
Eppure il tuo lavoro dopo l’ingresso nelle gallerie ha subito delle modificazioni tecniche. Per esempio l’uso del colore o la decorazione di vasi che non appartenevano al lavoro in metropolitana.
Se una modificazione c’è stata é comunque una modificazione sempre all’interno del mio modo di disegnare. Chiaramente i supporti e i materiali sono diversi. Prima di tutto c’é un riusare da parte mia l’inchiostro nero su carta perché sono propri del disegno il bianco su nero o il nero su bianco. L’uso del colore é entrato spontaneamente perché mi sono sempre riferito alla strada e agli elementi delle immagini pubblicitarie. Infatti le combinazioni dei colori sono prima bianco e nero, poi rosso e nero e infine giallo e nero, come puoi osservare in modo immediato pensando alla strada ed ai colori che l’arredano. Ho usato anche colori fosforescenti. Decorare il primo vaso é stata per me un ‘esperienza entusiasmante, é accaduto quasi per caso quando il mio amico Dan Friedan mi chiamò per aiutarlo ad arredare la sua casa. Aveva un grande vaso e ci venne in mente di disegnarlo tutto con i miei segni tipici. Ne é venuta fuori una cosa bella perché mi dava la sensazione di ritornare a qualcosa di antico che aveva a che fare con le antiche decorazioni e le antiche scritture. In effetti sono sempre stato attratto dalla calligrafia cinese e da quegli artisti che si riferivano in qualche modo ad essa: Mark Tobey, Pierre Alechinsky, Jean Dubuffet, Jackson Pollock.
Tra gli artisti dei graffiti a chi ti senti più vicino?
Sicuramente a Jean Michel Basquiat e a Kenny Shart.
Ma i loro lavori sono molto diversi.
Certamente. Ma idealmente ho subito sentito vicino Jean Michel e Kenny è stato il mio primo amico appena sono arrivato a New York. Devo aggiungere che anche Lee Quinones è tra i miei preferiti.
E cosa ne pensi di Rammellzee?
Oh… Rammelizee è un mago! Capisci cosa voglio dire? È complicato parlare di lui perché è difficile andare fino in fondo alle sue teorie. Anche se ogni volta che siamo andati ad una verifica delle sue “strane” cose ci siamo dovuti accorgere che realmente c’è qualcosa di vero e di magico. È vero che senza che ce ne fossimo accorti nelle scritture dei graffiti, proprio nella composizione delle lettere, c’erano i simboli che Rammellzee ha tirato fuori. Per me è molto interessante questa cosa. È veramente un personaggio magico, ha solo diciannove anni…
Intorno ai critici americani qual é la tua idea?
I critici americani prendono spesso a pretesto le opere degli artisti per poi parlare solo di se stessi. E tutto questo senza interesse né per l’artista né per il suo lavoro.
Ti sei definito come uno dei primi bambini dell’era spaziale. Qual è il tuo atteggiamento sul problema degli armamenti nucleari?
lo sono cresciuto con il terrore di un incontrollabile sviluppo delle armi atomiche. Recentemente, nel 1981, si è verificato proprio in Pennsylvania, dove sono nato, il più grave incidente mai accaduto all’interno di una centrale nucleare. Ho vissuto attimo per attimo il panico di tutta la gente, come la mia famiglia con cui mantenevo continui contatti, che per giorni seguiva notizie televisive perché non si poteva prevedere lo sviluppo di questo incidente. Forse ricorderai anche tu che c’è stata una grande manifestazione a Washington contro gli armamenti nucleari. Nell’estate dell’82 ho fatto molti disegni in metropolitana su questo soggetto.
E rispetto al nostro futuro qual è il tuo atteggiamento, ottimista o pessimista?
E difficile essere ottimisti. Ogni momento che si vive è importante perché non sai quello che ti può succedere, e qualsiasi cosa dovesse accadere accadrà lentamente e non avremo la possibilità né di prevederlo né di accorgercene. L’unica possibilità che abbiamo è di comunicare il più possibile e di rapportarci.
E l’uso dei computers?
Se c’è una cosa che mi rende ottimista è proprio pensare che anche nei casi tecnologicamente più avanzati i computers non possono fare a meno dell’uomo, soprattutto se pensiamo a quante persone devono lavorare per la reale manutenzione di uno di essi. Questo significa che è sempre l’uomo a poter dare realmente qualcosa, al di là di fatti strettamente tecnologici. Ecco, allora, perché mai come adesso è importante il contributo di ogni artista sia esso poeta, scrittore, musicista o pittore, perché la creatività è l’unica cosa che può unire la gente e può superare la negatività di un mondo in via di meccanizzazione.
La Collezione Terrae Motus, nel 1993 è stata donata alla Reggia di Caserta, dove è stata allestita già a partire dall’anno seguente, con periodiche rotazioni. Tra le più famose opere esposte, ci sono Fate Presto di Andy Warhol, Painting for Naples di Keith Haring, West-Go Ho (Glut) di Robert Rauschenberg, Terremoto in Palazzo di Joseph Beuys, L’altra figura di Giulio Paolini.
https://reggiadicaserta.cultura.gov.it/collezione-terrae-motus/