Hello and forgive me if I speak english. Queste le prime parole di Anish Kapoor a Roma. Tutto ci si aspetterebbe da uno dei maggiori artisti della scena contemporanea, ma non questa semplicità nel ringraziare il MACRO e una città che ha lasciato per dieci lunghi anni nei quali ha trasformato la sua carriera in straordinaria.
Per la prima volta presenta 24 opere inedite immergendosi in una materia macerata, una sorta di carne sanguinosa che lui stesso manipola fino a stimolare le più profonde viscere dell‘osservatore, come se fosse alla ricerca delle sue radici pre-culturali, del suo essere artista, frutto di un impegno continuo attraverso un processo incondizionato.
Ho iniziato a lavorare pensando a come poter dare espressione alle mie opere e ho lavorato 8 anni, all’inizio dei quali ho iniziato a sentire un senso di difficoltà, era troppo di facile per me, non sapevo come fare per renderle visibili e vivibili; poi ad un certo punto mi sono reso conto che non avevo scelta, era lì quest’arte, e allora ho cominciato a lavorare su come potevo dare voce a tutto questo, e a come tutto questo potesse collegarsi a questa incertezza, come potesse relazionarsi con tutto il resto della mia vita, con il mio mondo complicato, allora ho pensato che questo è un rischio che un artista deve correre. Osservando Unborn, Hung, Flayed, Muscular, o Mirror (Black to red), emerge uno spazio tra l’oggetto e l’osservatore, un luogo tra reale e non reale che diviene incertezza di un viaggio intimo tra artista e destinatario, capace di catapultarlo, benchè in un museo, all’interno della propria anima, declassando così il significato dell’opera a favore del processo creativo e quindi della sensazione trasmessa al pubblico, infatti tramite esso, ha la possibilità di testare la riflessione nata in un tempo precedente. Oltrepassando questo universo astratto si ha l‘impressione che i setti murari sgorghino sangue e al contatto di un’atmosfera solida il rosso scuro si trasformi in silicone come a voler creare architetture organiche osservabili da una dimensione distorta.
È palese la sua lunga relazione con la pittura e l’appena sbocciata carnalità, tanto da mostrare una nuova personalità artistica però fedele ai rapporti tra interno ed esterno, dentro e fuori, concavo e convesso, tanto a lui cari, che consacrano il filo logico della sua opera. Forse, una capacità generata dal background che lui stesso definisce contraddittoriamente «confuso», come chi dice che non sia proprio facile discutere con lui, eppure appare placido e ironico agli occhi di chi lo ammira, un piccolo faro all’interno di un’unica grande installazione dove lo spettatore entra morto e riesce vivo.
Paride D’alessandro