Per comprendere questa lunga intervista in viola è necessario fare un piccolo passo indietro, rappresentato da una chat in verde. Kamilia Kard e io siamo solite scriverci su Facebook, un supporto virtuale divenuto, per noi, un mezzo di conoscenza a due vie, sia relativo alla creazione di un rapporto più stretto sia, soprattutto, inerente a un discorso sul suo lavoro. Già dalle prime battute che ci siamo scambiate mesi fa, Kamilia ha cambiato la grafica della nostra finestra di dialogo da blu a verde. Da quel momento, tutte le mie risposte sono state connotate dalla presenza di questo colore. Perché racconto questo breve aneddoto? Perché credo che tale piccolo gesto sia significativo rispetto alla sua ricerca visiva, caratterizzata da una freschezza e leggerezza nell’uso del mezzo del digitale, amalgamato ad atteggiamenti intimistici e ad azioni di détournement estetici. Oggetti e contenuti spesso vengono trasformati in qualcosa di nuovo, grazie a delle minime aggiunte o a dei cambiamenti effettuati da lei.
Kamilia Kard è un’artista italo-ungherese, la cui pratica artistica nasce da un ambito pittorico, successivamente evolutasi in quello del digitale. Queste due anime sono facilmente identificabili nei suoi lavori, sia per i riferimenti storico-artistici esistenti, sia per la forte estetica denotata da colori cangianti tipici degli schermi e dalla presenza di effetti glitterati che conferiscono un appeal sensuale. I temi sono frequentemente biografici e intimistici. A volte, sfociano sull’analisi di tematiche femminili e vengono definiti, dal punto di vista cromatico, da un gusto pop e tendente al kitsch. E’ importante sottolineare che il digitale va inteso, in questo caso, come un grande calderone contenente gif, meme, internet, emoji, stampe. Sono tutti elementi appartenenti al mondo contemporaneo, che hanno subito un processo di normalizzazione e che sono stati traslati, in maniera sapiente, nella sfera artistica. Nel caso di Kamilia Kard lo strumento non prevale mai sul contenuto.
Abbiamo parlato di tutti questi argomenti nella seguente intervista. Kamilia Kard ha risposto alle mie domande utilizzando il colore viola e ho pensato che fosse giusto mantenere anche pubblicamente la forte estetica dei nostri dialoghi.
Giada Pellicari: Cominciamo dal progetto Woman as a temple, esplicitato in una serie di lavori e anche in un libro d’artista. Vuoi raccontarci com’è nata questa ricerca e qual è il suo scopo?
Kamilia Kard: Il corpo della donna – soprattutto della donna un po’ carnosa – mi ha sempre affascinato. Lo vedo come una sorta di tempio, casa accogliente pronto a coccolarti e confortarti: dalle veneri paleolitiche ai dipinti rubensiani, fino alle foto della modella e fashion blogger Simone Mariposa. Con la serie Woman as a temple ho istintivamente dato ascolto a questa mia “ossessione” creando in 3D mezzi busti di donne dalle forme morbide e voluttuose. Stavo lavorando a My Love Is So Religious – The Three Graces, un quadro in cui compaiono diverse figure di questo tipo, quando mi sono resa conto che questa ricerca poteva meritare una sua autonomia. Mi interessava in particolare lavorare con un’illuminazione architettonica dei corpi e sperimentare con la resa di alcuni materiali artificiali quando applicati al corpo umano, con una libertà che non potevo consentirmi all’interno di quel lavoro. Poi sono partite alcune conversazioni relative alla possibilità di realizzare un progetto editoriale – il libro d’artista pubblicato dall’editore cileno Editorial Vortex – e di partecipare alla mostra Refresh01 – #layers, curata da Fabio Paris per il Link Art Center. Occasioni che hanno dato la spinta propulsiva al progetto, che peraltro non considero ancora chiuso. Sul lungo termine, credo che l’output ideale di questi modelli dovrebbe essere monumentale e scultoreo, attraverso l’utilizzo della stampa 3D.
G.P: Esiste una relazione tra il progetto Woman as a temple e la serie Total Babes? Vuoi spiegarla?
K.K: La relazione esiste. Entrambe le serie nascono da un tentativo di rappresentarmi. Total Babes, che viene prima, è una serie molto più descrittiva e ironica. Nasce da uno scambio di battute con l’artista canadese Lorna Mills, che mi aveva definito una “total babe” in una chat, poi evoluto in un gioco privato in cui le inviavo uno di questi autoritratti chiedendole quanto si conformasse alla sua idea di total babe. Sono piccoli collage che mescolano disegno e fotografia, nati per uno scopo privato senza ansie di risoluzione. Li ho trovati simpatici e ho deciso di condividerli, usandoli a volte come foto di profilo, ma non sono mai usciti, per ora, dal contesto della comunicazione social. Woman as a temple è un lavoro più strutturato e asettico, in cui i corpi delle donne o, più appropriatamente, i busti assumono quasi delle caratteristiche astratte. Mentre in Total Babes caratterizzo la parte di disegno connotandola con la mia immagine del volto, in Woman as a temple annullo la dimensione referenziale, il corpo rappresentato non è più riconoscibile come unico ma assume molti aspetti, tutti abbastanza corpulenti, artificiali e architettonici. Si tratta di un’oggettificazione del corpo, il quale diventa simbolo di più elementi, sia intimi che sociali nel momento in cui la contestazione fiera del modello di bellezza femminile imposto dalla moda e dai media si interseca con il mio modo personale di viverlo su me stessa
G.P: Qual è il ruolo del kitsch nei tuoi lavori? Da cosa deriva l’uso di colori iper-saturi e dei glitter?
K.K: Il kitsch è un elemento importante nell’immaginario pop che molto spesso uso nel mio lavoro. Cultura pop ed estetica kitsch sono strettamente legate. A volte, ma non sempre, può essere una connotazione estetica implicita in alcuni strumenti di cui faccio uso, come gli effetti glitter o la simulazione dei materiali nella modellazione 3D. Ma detto questo, non considero il kitsch una questione decisiva per la comprensione del mio lavoro. Il glitter è la mia polvere di diamante, una sorta di stardust digitale. In lavori come Fuck, she got my unicorn (2015) e Betrayal (2016) l’effetto scintillante è fondamentale, e sottolinea l’oggettificazione del corpo femminile. Molto spesso nella pubblicità, moda o product design il glitter sotto forma di brillantini, paillettes o strasses serve a richiamare l’attenzione del pubblico. L’occhio è inevitabilmente attratto da tutto ciò che luccica. In Fuck she got my unicorn, la dama di Raffaello è ritratta con il liocorno, simbolo di candore e verginità. Nel Rinascimento, ritrarre una donna con un unicorno “attestava” la virtù della ragazza, che molto presto sarebbe andata in sposa al destinatario del ritratto; qui, l’aggiunta dell’effetto glitter – che si concentra sulla pelle della donna – interviene a sottolineare la sua natura di oggetto prezioso e impotente merce di scambio. In Betrayal il rapporto di manipolazione infantile e di patologica esclusività a cui è sottoposta la bambina o il bambino viene fatto percepire attraverso l’utilizzo di giocattoli dai colori pastello saturi e immagini glitter. Per me, questo lavoro è un dispositivo che non si limita a raccontare l’abuso, ma lo riproduce a spese dello spettatore: sedotto dall’aspetto rassicurante e divertente dei pancake di peluche e dalla luce colorata che emettono, quest’ultimo si avvicina divertito, per poi essere colpito allo stomaco da un’immagine cruda e forte: come accade spesso ai bambini, che inizialmente percepiscono alcune attenzioni “particolari” come un “gioco esclusivo”, per poi trovarsi ad affrontare, presto o tardi, la realtà dell’abuso in tutta la sua durezza. Dopo aver esposto questo lavoro, ho tenuto monitorati i commenti e la documentazione del pubblico sui social: è stato interessante notare come il lavoro venga spesso equivocato come una celebrazione del sesso femminile, in una sorta di reazione di difesa dal lavoro, che viene ricondotto a canoni di arte femminista più rassicuranti.
G.P: Qual è il filo conduttore della tua ricerca?
K.K: L’arte, per me, è una pratica che traduce in forma attitudini, sentimenti, pensieri. Cerco di dare molta importanza alla forma, e non mi piace limitare troppo, come si tende a fare oggi, l’orizzonte coperto dai miei contenuti. L’intuito e l’istinto tendono a prevalere sulla decisione cosciente di affrontare un tema specifico, come potrebbe fare un saggista. In questo senso, potrei definire la mia ricerca artistica come intimista, ma non in senso banalmente romantico. Cerco di tradurre emozioni, sentimenti, immaginazioni e altre sensazioni personali, usando i linguaggi che possiedo senza pormi limiti di mezzo. Mi piace creare immaginari, sia inventati ex novo che contaminati da opere del passato. Il mio interesse per un tipo di immagini classiche e “tradizionali”, che attingo dall’immenso archivio della rete, nasce quasi sempre da storie, memorie e fantasie personali. Ad esempio, nella mia predilezione per i pittori accademici russi e ungheresi dell’Ottocento c’è molto della mia infanzia, in un sovrapporsi continuo di vita vissuta, letteratura e sogni ad occhi aperti, o chiusi.
G.P: Mi pare che sia evidente una caratteristica femminile e girly del tuo lavoro. Per certi versi, a volte, sembra che tu ti voglia focalizzare sulla condizione femminile analizzata anche nell’ambito digitale. Vuoi parlarne?
K.K: Si, c’è sicuramente una caratteristica molto femminile, ma è del tutto spontanea. Sono le tematiche che mi interessano e che mi viene naturale affrontare. Ho cominciato a interrogarmi sul ruolo della donna come icona nella serie di lavori Feodorovna Portraits dove i celebri ritratti dell’ultima zarina di Russia vengono privati della figura umana. Rimangono solo i vestiti che acquistano spessore e diventano oggetti astratti e indipendenti. L’abito è sempre un’armatura e una maschera, che traduce una personalità e il suo ruolo pubblico anche nella sua assenza.
G.P: Qual è la relazione tra i Digital Paintings realizzati nel 2012-2013 e i lavori più recenti?
K.K: I Digital Paintings sono un’eredità della mia formazione pittorica. Ho studiato e praticato la pittura per anni; mi piace dipingere e usare nuovi modi per farlo. Un esempio è la serie di immagini Princess in Prince (2013), nata in risposta ad After Prince (afterprince.tumblr.com), un progetto curatoriale online che invitava gli artisti a remixare le opere di Richard Prince. Nel 2011 Prince è stato coinvolto in una lunga causa di copyright dal fotografo francese Patrick Cariou, di cui aveva riutilizzato alcune immagini; per anni, questo processo ha fortemente stimolato il dibattito sull’appropriazione delle immagini nell’era digitale. Princess in Prince combina la cultura americana della pubblicità con l’atmosfera decadente e luminosa della cultura russa zarista. Questa combinazione può sembrare strana, eppure i due livelli abbinati insieme creano un connubio davvero naturale. Anche se i soggetti di sesso femminile sono presenti in entrambe le parti, i quadri russi e le opere di Prince sono rappresentati in un modo completamente diverso e riflettono una percezione totalmente differente del ruolo della donna nella società, c’è qualcosa di sorprendentemente simile nell’atteggiamento di queste donne, icone ed emblemi della società in cui vivono. Il progetto solleva quesiti di gender, rappresentazione, e appropriazione nell’arte, nella pubblicità e nella società in generale.
G.P: My love is so religious è un progetto che stai portando avanti da alcuni anni. Recentemente, è stato esposto alla sezione della Quadriennale di Roma curata da Domenico Quaranta, intitolata Cyphoria. In questo caso, hai accostato quel lavoro a Betrayal, dei cupcake-vagina molto colorati e realizzati in peluche. Perché la scelta di questo allestimento? Cosa intendevi comunicare?
K.K: My love is so religious e Betrayal sono due lavori autonomi, che affrontano con linguaggi differenti due declinazioni molto diverse della sfera emotiva. Betrayal, come abbiamo già visto, si concentra su una concezione patologica dell’amore, e sugli aspetti manipolatori della seduzione. My love is so religious affronta l’amore di coppia come si manifesta nella sfera pubblica e nella sua relazione col gossip: leggilo come una sorta di sacra conversazione moderna e mondana. Detto questo, ho trovato che le due opere dialogassero molto bene insieme per scala cromatica, carattere emotivo e titolo. È stato interessante per me notare che molte persone tendevano a invertire i titoli delle due opere: con questa semplice inversione, Betrayal diventa una rassicurante rappresentazione per metonimia del corpo femminile (“le tre grazie”), mentre l’applicazione dell’idea di tradimento a My love is so religious sembra giustificare la proliferazione di corpi femminili attorno alla figura maschile centrale del Marte addormentato.
G.P: Mi sono resa conto che in quest’intervista non abbiamo mai parlato di digitale, forse perché entrambe riteniamo la cosa ormai ampiamente assodata. Vuoi dirmi qual è il ruolo del digitale nei tuoi lavori?
K.K: Da un punto di vista linguistico, è un mezzo che si affianca agli altri senza sostituirli mai completamente. Da un punto di vista sia linguistico che di contenuto, è un ambiente in cui trascorro molto tempo e in cui mi trovo a mio agio, che condiziona inevitabilmente la mia iconografia, ma anche il mio modo di vivere le relazioni e la vita in generale, di pensare, di vedere. All’inizio del Novecento, Matisse e Paul Klee sono andati in nord Africa e la semplice frequentazione di un altro ambiente, un’altra cultura, un altro mondo di colori e di odori ha cambiato drasticamente la loro tavolozza e il loro modo di intendere la pittura. Essere esposta per buona parte della mia vita a interfacce, chat, gif, memi, effetti glitter, ha inevitabilmente un impatto su quello che sono e su quello che faccio. Detto questo, non è su quella cosa astratta che chiamiamo “il digitale” che mi concentro quando lavoro.
Giada Pellicari
Info: http://kamiliakard.org