Chissà perché, ma i popoli mesoamericani erano ossessionati dal tempo. O meglio, dal tempo che scorre, lento e veloce. Da quel tempo che pochi frammenti lascia dietro di sé. Sì, ne erano ossessionati.
Essi elaborarono un sistema, difficile da comprendere, con l’obiettivo di controllarlo. Arrivarono alla conclusione che ogni ciclo dell’universo durava 52 anni, in virtù di alcuni calcoli che non sto qui a dire. E per evitare che alla fine del ciclo tutto venisse perduto, erano soliti sacrificare dei prigionieri.
Perché? Secondo le autorità religiose azteche, gli uomini serbavano in cuore una porzione di luce solare. La luce solare è preziosa, poiché in grado di fornire vita all’universo. Ma non infinita. E così, allo scadere dei 52 anni, era necessario rinvigorire la “brace solare”.
Dunque, si chiesero gli aztechi seduti sui troni più alti, cosa scegliere tra l’ecatombe di questi poveracci e la fine dell’esistenza? Dato che storicamente gli uomini non sono mai stati tutti uguali (nemmeno nel mesoamerica), la riposta si scrive da sola.
Il dialogo con il tempo, con il tempo antico, così antico che non è più possibile leggerlo nemmeno attraverso le fonti, da parte di Juan Esperanza (Città del Messico, 1959) è sempre aperto.
Nell’ultima mostra, tenuta al Museo Regionale Interdisciplinare di Caltanissetta, a cura di Rita Ferlisi e Giovanni Crisostomo Nucera, l’artista messicano ha infatti coerentemente raccontato quanto presentato alla Valle dei Templi nella scorsa primavera.
L’intuizione di Esperanza, cioè fare della pancia del nostro pianeta il contenitore che ha trattenuto in sé i saperi dei popoli, si inserisce in una riflessione sull’archeologia come metodo di conoscenza, che sia mesoamericana o ellenica, la quale procede per analogie tanto distanti nel tempo e nelle forme, quanto vicine nei concetti.
Le mostra, articolata sopratutto in una sala circolare, presenta le sculture antropomorfe in terracotta in posa solenne, che si osservano a vicenda, le cui forme cedono a volte il passo al carboncino il quale, a sua volta, si disperde nella sabbia.
In questa mostra, alla staticità plastica, la nota di dinamismo è stata fornita dalla performance “Tonantzin”, dea azteca della Terra, messa in scena dall’attrice Ilaria Bordenca.
Le Mie Muse – Juan Esperanza
Fino al 20 novembre 2018
Museo Regionale Interdisciplinare di Caltanissetta
Strada Statale 122bis, 93100 Caltanissetta CL