I memorabili avatar grazie ai quali Mariko Mori si è guadagnata la fama negli ultimi anni di ricerca sui mutanti – il cyberfighetto, la ragazzina ingenua da cartone giapponese, la geisha extraterrestre, la sirenetta digitale, l’imperatrice in 3D – occupano sì un grande spazio nell’economia generale dell’intera sua opera, ma in realtà hanno rappresentato un aspetto di breve durata all’interno del suo programma concettuale. I celebri travestimenti di Mori hanno ceduto il passo dopo un mezzo decennio o giù di lì, dopodiché l’artista li ha eclissati dalla sua produzione per volgere la ricerca sulle stravaganti ibridazioni ultraterrene verso sculture e strutture perfettamente compiute. La recente mostra presso lo Sean Kelly Gallery testimoniava il suo attuale interesse per materiali e forme tecno-spirituali, impiegati come mezzo per tradurre in oggettualità estremamente raffinata una sbalorditiva gamma di concetti astratti, filosofici, scientifici e trascendentali.
La mostra Invisible Dimension ambiva a nient’altro che a dare forma “al flusso di energia dell’universo”, ha detto l’artista in una recente intervista. “Non si tratta solo di astrofisica, ma anche di idee metafisiche di dimensioni invisibili, come gli spiriti e le anime”. Come molta della retorica con cui Mori accompagna il suo lavoro, l’ambizione è ammirevolmente contemplativa e disinvoltamente vaga, ed è tutt’uno con un’espressione di meraviglia sui misteri dell’esistenza, condita con una buona dose di amabile positività rispetto alla natura onnicomprensiva del tutto. Le sue descrizioni evocano non solo la possibilità di profonde corrispondenze tra il naturale e lo spirituale, ma anche il legame di quei mondi con folli e complesse idee scientifiche – inclusa la cosiddetta teoria “ecpirotica” dell’universo, secondo la quale il cosmo esiste come prodotto di un processo senza fine di creazione, distruzione e ricreazione –, che Mori adotta perché in analogia dal punto di vista astrofisico con l’idea ciclica di morte e rinascita tipica del Buddismo e di altre correnti spirituali.
A seconda di quanto si sia ricettivi rispetto alle teorie su un’unità trascendentale, l’impegnativo retroscena della mostra poteva essere giudicato ambizioso o idealistico, o come una forma di TMI concettuale (Too Much Information, troppe informazioni), cioè uno standard impossibile da raggiungere per l’arte (qualsiasi arte). In ogni caso, le sette sculture erano già persuasive di per sé. Con una sola eccezione, erano allestite a coppie per enfatizzare, secondo l’artista, le possibilità generative dell’interazione tra due corpi, siano essi organismi o universi. In uno dei tre spazi, per esempio, Plasma Stone I e II (2017/18) erano proposti insieme: il primo è un cuneo alto 6 piedi, graziosamente coperto da un rivestimento acrilico fatto di strati di film dicroico, ideato per accentuare particolari lunghezze d’onda luminose; il secondo consiste in una coppia di forme più piccole, anch’esse caleidoscopiche, che si appoggiano l’un l’altra con riconoscimento affettuoso. Entrambe le sculture soddisfacevano il modello di oggetto minimalista alla maniera del California Light and Space, anche se poi, senza che il visitatore se ne rendesse conto, erano lì a rappresentare “il principio dell’universo”. Nel frattempo un paio di acrilici più piccoli su piedistallo, Spirifer I (2017) e Spirifer II (2017/18), arabeschi cromatici fluttuanti, proponevano la sdolcinata arte da hall di albergo, anche se aspiravano ad essere le vivaci incarnazioni dell’”invisibile fuoco dello spirito”.
I veri pezzi da novanta della mostra erano appaiati nell’ampio spazio centrale. C’era Orbicle I (2017/18), una sfera schiacciata e aperta, fatta di fasce di alluminio bianche: parente piccola della serie Cyclic del 2014, che Mori aveva proposto nella sua ultima mostra alla galleria Kelly, anche Orbicle I è basata sul design del Nastro di Mobius, percorre un’involuzione di sostanza e spazio e suggerisce un guscio d’uovo smontato e poi riassemblato da peculiari forze dinamiche; e c’era una sorta di preview su scala piccola di Cycloid V (2017/18) e di Ekpyrotic String VI (2016/17), una coppia di enormi forme che girano ad anello e che si avvolgevano come scivoli di un parco giochi intorno a due delle colonne della galleria. Eleganti e abbaglianti, le forme – di acciaio e, nel secondo caso, di polimeri rinforzati con fibre di vetro – , erano coperte da una cremosa madreperla opalescente, come secreta da un colossale mollusco alieno. Nient’altro che meraviglie tecnologiche, nel senso più stretto del termine, queste opere incarnano da vicino l’obiettivo dell’artista: sono esempi del miracolo che può essere prodotto dall’industria immaginativa meccanico-umana.
© Summer 2018, “Mariko Mori,” by Jeffrey Kastner.
Articolo originale pubblicato su Artforum
Traduzione di Cristina Rosati