Lo scorso 21 settembre, presso la Barbican Art Gallery, a cura di Dieter Buchhart ed Eleanor Nairne, é stata inaugurata la prima grande esposizione dedicata a Jean Michel Basquiat in Gran Bretagna. Un ritardo incredibile al quale si é cercato di rimediare con una mostra sensazionale, spettacole, forse anche a troppo a leggere le principali testate britanniche, che ripercorre la travolgente ascesa dell’artista nella sua molteplice veste di writer, poeta, pittore, performer, musicista; ricostruendo cioé un’esperienza nella quale fare il distinguo tra arte e vita é particamente impossibile.
Boom for real, questo il titolo della mostra, ispirato da una delle scritte che spesso torna nelle opere di Basquiat a partire da Jimmy Best del 1981, con piú di cento opere é letteralmente un’ esplosione di quadri, disegni, versi, tag, immagini fotografiche, video-interviste, film, musica, documenti, che effettivamente potrebbero sopraffare l’attenzione dell’osservatore, addiritura rischiando di unidirezionarne la lettura, restituendo una versione quasi mitologica dell’artista nato a Brooklyn nel 1960. Una deflagrazione iconografica che tuttavia restituisce l’energia e l’eccitazione della scena artistica newyorkese tra la fine degli anni Settanta e la prima metá degli anni Ottanta, tra controcultura e fame di celebrità. Alla rapida e bruciante carriera di Basquiat fa, infatti, da panorama una cittá che, nonostante le minacce di una grave crisi bancaria e le problematiche legate ad un alto tasso di disoccupazione e deliquenza, continua ad essere un entusiasmante e vibrante centro creativo. L’artista vivrá, infatti, la New York del Lower Est side, della scena underground, del graffitismo, del post-punk, della new wave e dell’hip hop, quella di una nuova generazione di artisti, di idee e opere che avrebbero influenzato il mondo intero: da Keith Haring, a Brien Eno, a Madonna, a Robert Mapplethorpe, senza dimenticare l’onnipresente Andy Warhol che rappresentó un vero e proprio punto di riferimento per un intera generazione.
La mostra, che si apre subito con un grande schermo sul quale trasmette Basquiat balla sorridente nel suo studio sulle note bepop di Duke Hellington, si sviluppa perció su due livelli: il primo legato all’ambiente culturale appena citato; il secondo concentrato sull’artista, sul suo lavoro, soprattutto pittorico, e sui suoi riferimenti culturali. Al piano superiore si é cosí immersi nella New York di inizio anni Ottanta, tra grafitti, clubs, sperimentazioni musicali e inedite possibilitá di comunicazione e intrattenimento. Immancabile, in questo senso, il lavoro di SAMO©, progetto nato dall’incontro tra Basquiat e Al Diaz presso l’alternativa City As Scholl, dove SAMO© prese forma quale ipotetico personaggio di uno spettacolo teatrale. Assieme a Keith Haring, Futura 2000, Kenny Sharf, tra gli altri, SAMO©, che sta per “same old shit”, riferendosi alla marijuana che Basquiat era uso consumare, si distingueva per un inedito uso della parola, si potrebbe dire per il desiderio di introdurre la poesia nella graffiti art, o comunque legato soprattutto alla curiositá che Basquiat aveva per le parole stesse, per il suono che esse sono capaci di produrre, come confermano i preziosi notebook esposti al piano terra. Tuttavia il lavoro del duo in quegli anni si distingueva soprattutto per la forma di protesta, contraddistica da una vena profondamente sarcastica, nei confronti dello star system e della cultura ufficiale. Un esperienza che qui viene documenta dal reportage realizzato da Henry Flint a partire da il 1979. Nello stesso contesto s’inserisce la frequentazione di Canal Zone, spazio aperto alla sperimentazione musicale e alla street art, fondato dall’artista britannico Stan Peskett, con il quale Basquiat avvió la produzione delle sue celebri cartoline, le stesse che provó a vendere a Warhol, svillupando una tecnica di riproduzione che, realizzata la ‘matrice’ attraverso disegni e collage, ricorreva alle fotocopiatrici Xerox. E ancora il Mudd Club, fondato dallo stesso artista, dove era possibile incontrare Brian Eno, piuttosto che una giovannissima e ancora sconosciuta Madonna, Klaus Noam e ancora René Ricar tra i primi, come testimonia un famoso articolo pubblicato nel 1981 su Artforum, a porre l’attenzione sulla scena artistica di quegli anni evidenziandone l’immediatezza e il carattere profondamente vernacolare. Sono questi i luoghi che Basquiat viveva intensamente e dove, spesso, prendevamo corpo le sue collaborazioni come quelle con Keith Haring testimoniata in mostra da Symphony n.1; oppure con i musicisti Rammelizze e Toxic ai quali dedica nel 1983 Hollywood Africans. Con Rammelizee, inoltre, Basquiat produsse nello stesso anno l’album Beat pop con la casa di produzione Tarttown, da lui stesso fondata sempre da Basquiat, curandone anche la grafica. In tema di collaborazioni non poteva certo mancare quella con Andy Warhol che assume quasi i toni della leggenda testimoniata, tra l’altro, da opere quali Dos Cabezas del 1982 e Arm and Hammer II del 1984, ancora dagli scatti e dai ritratti di Basquiat realizzati da Warhol.
A chiudere questa prima parte della mostra una selezione d’ autoritratti – tra cui Famous del 1982 e Self-portrait, dell’anno dopo, in cui Basquiat si vede come una monolitica sagoma nera – che testimoniano per certi aspetti l’ossessione dell’artista per la costruzione di una identitá forte, da oppore ai pregiudizi razziali e alle critiche al successo di un artista nero senza istruzione ufficiale. Del resto come scriveva René Ricardo, per sopravvivere, “one must became the iconic represention of oneself in this town”.
Un percorso questo che arricchito da due raritá: la prima dedicata a “New York/New Wave”, mostra allestita da Diego Cortez, amico di Basquiat e coofondatore del Mudd Blub, nel febbraio del 1981 presso il P.S.1 di Long Island City; la seconda il film Downtown 81. “New York/New Wave” rappresentó un progetto ambizioso raccogliendo piú di 1600 opere di oltre 100 tra artisti, musicisti e scrittori piu o meno celebri, tra i quali spiccavano Andy Warhol, David Byrne, Nan Goldin, Robert Mappletorpe e William Burroughs. Tra questi notevole interesse suscitó, sia tra i giovani colleghi che tra i collezionisti, l’opera del giovane Basquiat, una quindicina di tra tele, collage, opere su carta, qui raccolte per la prima volta da allora seguendo l’originale idea di ‘disordinato’ allestimento. Opere in cui l’artista, praticamente esordiente, ritraeva lo skyline di Mahattan manifestando immediatamente una proprensione a usare qualsiasi materiale a disposizione, ma soprattutto manifestando il maturare di un linguaggio visivo, rude, immediato, a tratti infantile, popolare, selvaggio, vernacolare suggeriva Ricard, capace di muoversi e interpretare con immediatezza gli interstizi esistenziali della cittá, di assorbire e rielaborare qualsiasi stimolo proveniente dalla cronaca urbana. Downtown 81, invece, scritto da Glenn O’Brienn, altro frequentatore del Mudd Clubb nonché presentatore dello show “TV Party”, diretto da Edo Bertoglio, é un film dedicato alla cittá di Manhattan e alla sua alternativa scena culturare, tra post-punk, hip-hop e dance music. Il fim, concluso per motivi economici solo nel 2000, racconta la giornata di uno squattrinato musicista per le vie della cittá, interpretato da Basquiat, allora dicianovenne, tra la ricerca di lavoro, di una casa e di Beatrice, una misteriosa donna che appare all’improvviso sul cammino del protagonista. Curiosa testimonianza della New York di quegli anni, che in Basquiat sembra quasi trovare una sorta di personifucazione.
Come, giá accenato, il piano terra si concentra, invece, sulla produzione pittorica di Basquiat, attraverso l’esposizione di opere di grande dimensione, raggruppate per temi che, nella volontá dei curatori, offrono la molteplicitá degli interessi dell’artista. Non poteva, quindi, di certo mancare uno spazio dedicato alla musica, in particolare al bebop, passione per la quale spesso la critica ha apprezzato il lavoro di Basquiat per il suo essere in qualche modo jazz, quindi per l’immediatezza del gesto e per la capacitá istintiva di improvvisare le forme, i colori, le immagini quasi che fossero squilli di tromba o di sax, riordinando il caos visivo della cittá in immagini. Un’interesse per la musica jazz quello di Basquiat che, comunque, comprendeva la sua personale riflessione sul razzismo, sulla cultura afro negli U.S.A., sul trattamento che subivano anche grandi musicisti come Miles Davis a Charlie Parker ad Armstrong. A questi, del resto, dedica opere quali King Zulu del 1986, riprendendo un nomignolo affibiato ad Armstrong, oppure Plastic Sax del 1984 dedicato a Parker, tra i suoi musicisti preferiti.
Ugualmente ricca é la sezione dedicata alla storia dell’arte alla quale Basquiat venne educato fin da bambino dalla madre che lo accompagnava a visitare musei. Un’interesse che lo portó a spostarsi con una certa confidenza dall’arte africana, a quella europea fino alle espressioni piú folk dell’arte americana. In questo senso non mancano i riferimenti a Cy Towbly, del quale nel 1979 visitó la mostra allestita al Whitney Museum, a Leonardo da Vinci, a Tiziano, ancora a Manet, a Matisse, Duchamp, Sam Doyle, Bill Taylor, Picasso e Rauschenberg come testimoniano opere quali Matisse Matisse Matisse e Young Picasso, Old Picasso entrambi del 1984.
Come, poi, suggeriscono i libri in mostra, provenienti dalla collezione di Basquiat, la curiositá dell’artista si allargava ad altre discipline dalla scienza, all’anatomia, alla storia antica sino alla mitologia cercando in queste ulteriori spunti per difendere il suo essere di colore, ulteriori strumenti per la sua personale lotta contro il razzismo. Fatti, storie, immagini che si andavano mescolando, tra droga, alcol, televisione, musica, in un mirabolante mix di culture in cui il mito incrociava i cartoni animati, la storia antica quella della metropoli moderna tra emigrazione e emarginazione, cosi come la scienza con l’arte.“ I get – diceva lo stesso Basquiat – my facts from the books, stuff on atomizers, the blues, ethyl alcohol, geese in Egyptian glyphs”. In questo senso si muovono Five Fish Species del 1983, Ishtar dello stesso anno, nonché Moses on the Egyptians del 1982.
La mostra chiude con una serie di notebooks in cui Basquiat si confrontava piú chiaramente con la scrittura, con la poesia indagandone soprattutto le qualitá sonore: nonché con una serie di video -interviste che al di lá dei contenuti evidenziano il rapporto che l’artista aveva con la televisione, con la possibilitá, meglio l’ossessivo desiderio, di affermare la sua identitá, il proprio ego fra tutti.
Ambiguamente, aumentando l’aurea di miticitá, la mostra non fa riferimento alla tragica morte dell’artista, avvenuta nel 1988 per overdose, evitando cosí di affronatre le contraddizioni di un personaggio, ancor piú di un epoca, in cui il desiderio di celebritá era capace di bruciare tutto in un attimo. L’unico riferimento é a firma di Glenn O’Brien che con incredibile semplicitá sintetizza il lavoro di Basquiat con un epitaffio: “He ate up every image, every word, every bit of data that appeared in front of him, and he processed it all into a bebop Cubist Pop Art cartoon gospel that synthesized the whole overload we lived under into something that made astonishing new sense.”
Basquiat – Boom for Real
Fino al 28 gennaio 2018
Barbican Art Gallery
Silk Street, London, EC2Y 8DS