Il Primitivismo nella scultura del Novecento.
Per Picasso la scultura occidentale era paralizzata dalla paura di essere inghiottita dallo spazio reale degli oggetti. Il contatto con l’arte africana gli permise di capire che il vuoto poteva essere trasformato in un segno differenziale, al pari di tutti gli altri. Picasso comprese che non bisognava più avere paura dello spazio, del vuoto, di una non-sostanza, semplicemente perché capì che poteva essere trattato come una materia.
La mostra in corso alle Terme di Diocleziano a cura di Francesco Paolo Campione e Maria Grazia Messina, intitolata Je Suis L’Autre – Giacometti, Picasso e gli altri, ha per oggetto il Primitivismo nella scultura del Novecento.
L’immenso spazio delle aule delle terme riesce a generare una prima forte risonanza. È come se questa grande architettura, gli spazi dove sono allestite le opere, evocasse esattamente quel vuoto, ma in fondo anche quel mito che tanto produsse nel pensiero dei romantici. Richiamati questi ultimi, non a caso, in un verso del poeta Gérard de Nerval: Je suis l’autre (Io sono l’altro), che dà titolo all’intero progetto.
L’Altro. Ovvero il tema eterno dell’identità che si riversa potentissimo nelle questioni migratorie odierne.
Questa non è una mostra storica, con un intento celebrativo. La storia del nostro novecento è solo uno dei canali di indagine, degli strumenti a nostra disposizione. L’esposizione piuttosto ha un suo andamento interno, continuo, come un flusso che si dipana in più direzioni disciplinari, fin nei dettagli. Lo spazio, il vuoto, la materia, l’alterità sono alcune delle categorie interpellate, e vengono attivate proprio dalla immensa geometria cubica del sito archeologico, che accompagna come una vibrazione quel complesso di riflessioni, risultati estetici e metodologici, che con questa appassionante rassegna di sculture i due curatori propongono.
Lo fa senza mai sovrapporsi o spegnere il segnale, quel ritmo idealmente sotteso, che forse si compie, ma non è detto, in quell’unica opera di Giacometti presente nell’ultima sala. Una figura con due braccia flesse, e le mani nell’atto di soreggere una sfera immaginaria, uno spazio vuoto appunto, in eterno. Una non-sostanza come dicevamo, intensamente materiale e formata, che nel momento che non esiste, che non è visibile, sembra avere peso, densità. E non a caso l’opera si chiama L’Objet invisible (Main tenant le vide), del 1934. In questa figura enigmatica, allo stesso tempo inquietante, fonte di fascino e paura, a conclusione del suo periodo surrealista, l’artista rivede la madre, come gli era apparsa in alcuni momenti della sua infanzia. Giacometti dirà: la scultura per me non è altro che la delimitazione in materia dello spazio.
Ma andiamo per ordine. All’ingresso di Je suis l’autre viene creata una sorta di anticamera con una quantità di riproduzioni fotografiche in formato parietale. Sono i protagonisti del tempo, artisti, intellettuali, muse ispiratrici: George Braque nel suo studio, Sophie Tauber che danza al Cabaret Voltaire, Max Ernst attorniato dalla sua collezione di bambole Tithu, e quindi Kiki de Montparnasse nel celebre scatto Noir et Blanche di Man Ray.
Una mitografia di un recente passato, che ci viene dato come iniziale filo narrativo ma solo per varcare soglie. Prima di poter giungere all’incontro, all’emersione finale dell’Altro. Evocato fin dagli esordi, e vederlo per la prima volta accanto a noi. Presenti nello stesso modo, sulla stessa linea del tempo, insieme, ma disarticolati in ogni possibile congiuntura spaziale.
Nell’esposizione – all’incirca ottanta opere -, i grandi maestri del novecento vengono affiancati ad importanti manufatti di arte etnica e popolare, databili fra il XV e il XX secolo; in parte provenienti dal Museo delle Culture di Lugano; che inaugurerà a breve con una seconda edizione del progetto, nella sede rinnovata dell’istituzione. Il percorso avviene attraverso cinque grandi categorie tematiche, che hanno un carattere sostanzialmente antropologico: L’infanzia dell’essere; La visione il sogno; Il mondo magico; Amore e morte; Il visibile e l’invisibile.
Grandi isole compositive dislocate nelle sale, grazie a teche a forma di parallelepipedi di misure diverse, alternate a bassi paraventi e divisori, in gesso o simile, che aprono e chiudono ipotetici passaggi.
Questo sistema di teche serve a contenere le opere, ovviamente. Ma lo fa come fossimo in un presumibile museo delle scienze, e noi come medici o analisti intenti a indagare corpi. I corpi dell’arte, gli idoli, i feticci letteralmente. Un’anatomia dell’arte, tutta rivoltata nell’Altro assoluto, che annulla i suoi riferimenti, le sue precedenze, le sue morfologie e la stabilità delle sue categorie. E soprattutto, oggi, le pretese egemoniche di ordine, di controllo, di supremazia di una cultura su un’altra, di un genere sull’altro.
Gli idoli del tempo, i corpi di tutta l’arte si riversano incessantemente gli uni negli altri. In una parata che avviene in uno spazio sferico, globoidale e ruota inesauribile fino all’indistinguibilità della storia, del tempo. Come quei pilastri di sostegno ai balconi di un maso di montagna, presenti nel percorso, scolpiti nel legno con il motivo della “vite senza fine”, che come le colonne di Constantin Brancusi si protendono verso una volta potenzialmente mai raggiungibile.
Gli affiancamenti fra opere d’arte del novecento e opere scultoree di matrice etnica non sono azzardi insensati, ma sono ponderati attraverso allusioni, possibili derivazioni di motivi decorativi, similitudini materiche, formali, il tutto condotto sul filo, questo sì, di una raffinata e sapiente capacità curatoriale; che non pretende l’esaustività, né di essere in alcun modo soverchiante rispetto alla libera fruizione dell’intero progetto da parte del visitatore, che avviene forse grazie alla forza ispiratrice del proprio istinto così sollecitato dal “primitivo”.
Per questo nello stesso momento convivono una danzatrice di Marino Marini, che sembra seguire nel suo profilo puntato la sezione di un antico pilastro di legno proveniente dall’isola di Mono. Un pilastro sovrastato da una testa umana dalle forme semplificate, sintetiche, prefigurazione di quella stessa astrazione che sembra ripetersi, poco oltre, nella maschera in legno di Man Ray, l’Indicateur del 1952.
E ancora, convivono sullo stesso “tavolo operatorio”, un gesso di Jacques Lipchitz, quindi una piccola statua in pietra della Melanesia, Oceania, risalente al XIX secolo; una scultura in pietra di Etnia Tolai, raffigurante uno spirito audiutore; e infine: Cherche – Aubaine, di Jean Dubuffet del 1973, appartenente alla serie di lui più famosa denominata l’Hourloupe, iniziata nel 1962, quando ormai l’artista aveva ricevuto alcune retrospettive da importanti istituzioni. Hourloupe, parola intraducibile, ma che condensa bene lo spirito di un’epoca perché si riferiva all’urlo, al verso del lupo, alla ricerca delle forze originali dell’arte, libere e non costrette dai condizionamenti della cultura, della tradizione, dei modelli, e di tutto quello che ci vincola alle apparenze esteriori del reale.
La contemporaneità di tutta l’arte, e del modo in cui gli oggetti scultorei vengono presentati, fa diventare l’opera un luogo metastorico. E solo in questo luogo ci è permesso di arrivare a vedere la creatività come fatto assoluto. Siamo di fronte alla matrice di una relazione, di tante relazioni.
In questo senso tutto si carica indistintamente di quel mistero che interroga l’uomo, il manufatto frapposto dinnanzi ai quesiti dell’esistenza, come mediazione, fuga. Oppure, come dice ancora Picasso, in una conversazione degli anni ’40 con l’allora ministro André Malraux, che queste opere vanno intese come: armi. Sono armi per difenderci, provare a governare ciò che sfugge alla razionalità, espellere i nostri incubi, le forze incontrollabili dei nostri desideri, così come i primitivi lottavano contro le forze avverse della natura.
In questa ottica quello che vediamo, ciò che è a noi visibile, ora, nel manufatto artistico, nell’opera umana, diventa solo una curvatura incidentale dell’universo, una delle tante possibili curve tempo. E proprio il tempo terrestre può essere astratto e allineato attraverso la forma, decifrato, sperimentato come frattura, frattura di epoche, come successione narrativa. Oppure anche solo rivelato come contemporaneità di tutte le fratture possibili, compresenza di tutti i tempi geografici, storici e fisici dell’umano. E sempre risolti dall’incontestabile fatto dell’arte, come fenomeno di ancoramento all’esistenza. Un lavoro calato nell’attualità di un tempo, questo, chiamato appunto della post-storia.
I reliquari Kota, ispirarono Les Demoiselles d’Avignon.
La mostra è visibile fino al 20 gennaio 2019.