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Jasper Johns – The Broad

All’età di ottantotto anni, Jasper Johns occupa un posto specifico nella cultura americana. Paragonabile a Bob Dylan per pura e inarrestabile inventiva, non smette di presentarsi a noi sotto forma di enigma, e di percorrere la sua strada in modo ora estremamente superficiale ora esasperatamente ermetico. Ogni tentativo di circoscrivere i significati di Johns naufraga immediatamente nella contraddizione: indifferente al favore del pubblico eppure capace di virtuosistica performance e savoir faire artistico, Johns è a un tempo il volto iconico dell’arte americana del dopoguerra e il suo protagonista più indecifrabile ed introverso. Punto di riferimento della storia dell’arte di area omosessuale – con Robert Rauschenberg, suo compagno tra il 1954 e il 1961, Merce Cunningham e John Cage, Johns fece esplodere la bolla del sessismo etero-modernista negli anni Cinquanta, in pieno maccartismo –, ha al contempo mantenuto la severa regola del silenzio (o meglio del segreto) riguardo la sua vita personale, rifiutando ostinatamente di portare la sessualità all’interno della discussione sulla sua arte. Solitario proprietario di una grande tenuta nel Connecticut, incarna la tipica figura di moderno artista borghese la cui traiettoria dalla povertà alla ricchezza si è compiuta da tempo. Ma è l’opposto dell’ultimo Picasso: allergico all’abbandono bacchico e alla spontaneità eiaculatoria, preferisce un impacciato autointerrogarsi ad un edonismo rubicondo.

Di qui la singolare attualità di Jasper Johns: non collocabile nell’arco narrativo dell’arte del ventesimo secolo, la sua carriera sembra trascendere ogni specifica corrente o movimento. Salvatosi dall’eclisse durante il lungo inverno postmoderno, Johns ora rappresenta un chiaro esempio di continuità storico-artistica, una figura-ponte che collega gli anni dell’Espressionismo Astratto al nuovo secolo. Concatenando le principali correnti del Modernismo del dopoguerra – astrazione gestuale, readymade duchampiano, concettualismo identitario, autoritrattistica dell’impassibilità (Souvenir del 1964) –, Johns detiene le chiavi dell’arte di oggi; e oggi assistiamo al suo tardivo riconoscimento. Lo scorso anno Roberta Bernstein ha pubblicato il tanto atteso catalogo ragionato di pittura e scultura dell’artista, seguito dall’importante rassegna Something Resembling Truth, tenutasi presso la Royal Academy of Arts di Londra e per la quale ha collaborato come cocuratrice. La mostra si è poi spostata al Broad di Los Angeles, unica tappa nordamericana. Una più imponente celebrazione è prevista per il 2020, quando due distinte istituzioni, il Whitney Museum of American Art di New York e il Philadelphia Museum of Art, lanceranno simultaneamente una retrospettiva dell’opera di Johns, che si annuncia come l’apoteosi dell’artista.

Tutto ciò fa nascere la solita domanda johnsiana: di cosa parliamo? Come si dovrebbe misurare l’importanza di Johns in quello che è presumibilmente il suo ultimo decennio? Deve essere celebrato come un sostenitore del Modernismo o un “ironista” postmoderno? Come il paladino dell’omosessualità o un epistemologo della privacy? Come la storia connette l’artista alla sua arte, quando lo stesso Johns ha reso questa connessione così difficile da identificare? E quale prospettiva sulla storia – quale storia americana – la sua arte sta ad invocare, se non semplicemente quella della quiete senza tempo di un nuovo fin de siècle? 

Le risposte a queste domande sono destinate a confondere. L’ambivalenza è sempre stata un tratto fondamentale dell’arte di Johns, anche di fronte alla storia stessa. In Flag, 1954–55, una delle prime opere approvate (cioè non distrutte o rinnegate), l’uso di un motivo standard americano è talmente ambiguo – bandiera o semplice oggetto, simbolo di patriottismo o sovversione contro culturale? – che nel 1958 il Museum of Modern Art rifiutò di acquistarla, temendo le rappresaglie dei nazionalisti militanti. La storica dell’arte Anne M. Wagner nel novembre 2006 riferendosi a Flag scrisse che l’uso ambiguo di stelle e strisce nell’opera di Johns è il riflesso della profonda inquietudine nella vita pubblica dell’America del ventesimo secolo: “Cosa è veramente istruttivo di Flag”, affermò, “è la sua fortissima e ineludibile ambivalenza di fronte al tipo di impegno richiesto dagli Stati Uniti”. L’ambivalenza di Johns è cioè politica: interpretato in un modo Flag può funzionare come una parodia della politica democratica, poiché trasforma l’icona della comunità nazionale in un bell’oggetto costoso; in un altro diventa testamento di fede genuina nella democrazia, riprodotto com’è con esatta fedeltà – diremo, con zelo sincero – rispetto al suo prototipo. Eppure la logica di Flag è più un sia/sia che un né/né. Negativo e positivo, democratico e illiberale sono irrisolvibili nell’arte di Johns; ogni sua espressione d’arte cancella l’altra, lasciando l’intera questione della politica – cioè di come essa è resa pubblica attraverso l’arte – nel dubbio.

Something Resembling Truth ha portato all’attenzione dei visitatori la profondità e la complessità del progetto di Johns all’indomani di Flag. Abbracciando un periodo che va dalle prime incursioni della metà degli anni Cinquanta ai dipinti di questo decennio, la rassegna apriva con una sala piena di bandiere, seguita da altri gruppi tematici, come 0 through 9, i dipinti a tratteggio incrociato del 1973, la serie The Seasons della metà degli anni Ottanta e Catenaries del 1997, nonché alcuni lavori più recenti, come Regrets, cominciato nel 2012.

Coloro i quali vogliano sapere chi Johns sia realmente, e che tipo di mente (e di uomo) si celi dietro le opere che portano il suo nome, restano in un’oscurità beckettiana.

A dispetto della grande popolarità della mostra, Johns non è mai stato populista; al contrario, il suo lavoro rimane imperscrutabile dall’inizio alla fine, lascia il visitatore a interrogarsi su sempre nuovi indizi e senza la certezza di conoscerne il senso complessivo. Verso la fine di questa mostra, ci si imbatteva in una forma fantasmatica non ben identificata – il contorno di un’isola? Il profilo di un uomo supino? – disegnata al centro di Green Angel, 1990, tela che altrimenti potrebbe rappresentare il ritratto di una donna, con occhi brucianti e labbra arcuate. L’indecifrabilità di questa figura è bizzarra, eppure tipica; anche dove le fonti delle citazioni di Johns sono documentate con sicurezza (per esempio, il groviglio di rami viene dall’altare di Isenheim, del sedicesimo secolo, o dal duchampiano Female Fig Leaf del 1950), il loro fine semiotico rimane dubbio. Chi si avventura attraverso la foresta dei segni di Johns si imbatte in un circuito chiuso di significanti, in cui immagini-simbolo sono frutto di incontri fortuiti, come nel caso del muro lastricato in pietra che l’artista intravvide da un taxi ad Harlem, poi divenuto motivo di molte opere successive, da Within (1983/2005) a Nines (2006). Quella sorta di sentire comune toccato da Rauschenberg e Warhol è del tutto assente nel corpus di Johns; in discussione qui è piuttosto una storia personale, ed è una storia che si nega all’indagine, accessibile com’è solo nella forma di frammento intellegibile.

L’ermetismo dell’arte di Jasper Johns è stato variamente interpretato: come evidente decostruzione (l’artista cortocircuita le basi del significato simbolico), come messa in scena di una omo-socialità non dichiarata, come sintomo di un certo post strutturalismo. Per i curatori di Something Resembling Truth la prospettiva obliqua di Johns è semplicemente empirica, è ricerca della verità “attraverso i significati stratificati e mutevoli che si palesano nei processi di percezione”, è un’attitudine più cartesiana che derridiana. Implicitamente, comunque, la rassegna al Broad reinscriveva Johns all’interno dei canoni del Modernismo, in un territorio cioè in cui verità e artificio, conoscenza e dubbio, sono sostanzialmente indivisibili, e dove, e non per ultimi, verità e artificio riguardano lo stesso soggetto autoriale. Più o meno al centro della mostra era l’allestimento a tutta parete di Foirades/ Fizzles, 1976, 33 calcografie ad accompagnare 5 testi brevi di Samuel Beckett: l’opera rende Johns artista esemplare dell’innominabile, artista che comunica senza alcuna speranza di essere compreso. Coloro i quali vogliano sapere chi Johns sia realmente, e che tipo di mente (e di uomo) si celi dietro le opere che portano il suo nome, restano in un’oscurità beckettiana.

La definizione di Jasper Johns come ur-modernista ha molto senso. Non negando mai l’eredità di Picasso e di Rimbaud (viene in mente il mantra di quest’ultimo “Io è un altro”), Johns è sempre stato un pittore in seconda persona, perché ogni opera è trattata come il documento di una presenza assente. Nonostante questo il Modernismo diventa diverso nelle mani di Johns, si rivolge cioè all’interno di esso stesso. Proviamo a paragonare Painting Bitten by a Man (1961), piccola tela in pastoso encausto grigio che qualcuno – il pittore? Uno spettatore geloso? – ha visibilmente graffiato, con Painting with Two Balls dell’anno precedente, fragoroso e sinistro, in cui due occhi piccoli e sfrontati guardano in cagnesco l’osservatore. Entrambe partono dalle convenzioni della pittura da cavalletto in maniera plateale e sardonica, l’artista cioè non sembra orientato a negare l’arte della pittura in sé. A dispetto delle sue modeste dimensioni, Painting Bitten by a Man evoca titolo e soggetto di Paesaggio con uomo ucciso da un serpente di Nicolas Poussin, di più grande formato: morte e sofferenza sono momenti chiave della tragicommedia umana, e Johns li richiama con lo stesso pathos. Allo stesso modo, pur con il suo scimmiottare un certo umorismo da boys-club (e/o una certa misoginia dell’Espressionismo Astratto), Painting with Two Balls non è affatto un gioco per pochi: il dipinto punta sì agli artisti del Cedar Tavern di New York, ma si accanisce insistentemente nei confronti di Picasso, le palline del titolo facendo il paio con gli occhi da insetto dei Bagnanti Seduti del 1930 (opera acquistata dal MOMA nel 1950: Johns non può averla ignorata). La pantomima della figurazione scultorea di Johns (palline al posto degli occhi) in Painting with Two Balls è il tentativo fallito di un gesto che non riesce a negare lo status del dipinto in quanto tale, cioè in quanto pittura. E che pittura! Il dosaggio di volgarità ed equilibrio, il gioco esplosivo ma senza picchi di colore contro colore, il costante sfarfallio di profondità e superficie, la studiata assenza di ordine, il freddo movimento della mano, ci riportano indietro, ai primi momenti del Modernismo, agli anni Settanta dell’Ottocento, al Manet del Battello ad Argentenil del 1874 o ai Bagnanti a riposo di Cezanne, del 1876/77.

Qualcosa della combinazione tra ansia e autorevolezza propri dell’Impressionismo sopravvive in Painting with Two Balls, che vanta virilità mentre manca di qualsiasi riferimento fallico. Lo stesso duplice aspetto si ritrova – anzi, è cruciale – in Painting Bitten by a Man, in cui si mette in scena il rito modernista del sacrificio di sé nel tono disperante di Beckett. L’immagine mima l’urlo e il soffocamento (il pittore si strozza con l’encausto), ma i morsi di cui si parla non sono visibili sul piano. Nonostante questo, Painting Bitten by a Man è spensierato e beffardamente comico. Il quadro è dopotutto solo ciò che è: l’umorismo di Johns è come al solito neutrale, ispirato da John Cage come da Manet. Il segno del morso diffonde un silenzio alla Cage, non dice nulla ma contiene e lascia spazio al tutto.

Chi provi a risolvere le contraddizioni di questa arte è destinato a fallire. Ironia e angoscia rispondono al nome di Jasper Johns. Chi apprezza la sua opera deve tenere ben presente la sua ambiguità. Ciò che Wagner definisce “fortissima e ineludibile ambivalenza” del simbolo nazionale è solo una parte di quanto Johns porta con sé; così è anche l’ambivalenza che nasce dalla severa riservatezza riguardo all’amore, al ricordo e all’oblio. Usando un apposito timbro, Johns declina le sollecitazioni non richieste con la cristallina apologia di Regrets, Jasper Johns: la frase è tragedia e commedia in egual misura, e va letta in questo modo.

E ancora, Johns non può essere trovato nella sua arte, nonostante lui stesso la abiti. Oltre il rifiuto, lui è poco oltre la sofferenza. Due fotografie ricorrono nel recente corpus delle opere di Johns, una rappresenta il pittore Lucien Freud, solo, tormentato, che piange seduto sul letto, l’altra, presa da un numero di Life Magazine del 1965, mostra un giovane ufficiale americano del Vietnam che versa lacrime per la morte di un compagno d’armi. Uno cerca di immaginare come queste due immagini possano stare insieme nella mente del pittore, unite dall’ambivalenza di circostanze diverse, come accade per esempio all’interno di Flag; non c’è più un giovane uomo che si rotola nella polvere della politica, ma un vecchio che ascolta gli abissi della sua solitudine. Il nesso è inequivocabilmente johnsiano: mette insieme, e confonde, il privato col pubblico, memoria e storia, arte e guerra, emozione e silenzio. La persistente originalità dell’arte di Johns, il suo precario posizionamento all’interno del canone americano, hanno a che vedere con la sua ambiguità senza fine e senza fondo. Di fronte a una società governata da due narrazioni in contraddizione, che proclamano l’unità nazionale e la sovranità individuale con eguale fervore, Johns esprime uno scetticismo raro a trovarsi. Ultimo modernista, fino alla fine continua a negarsi.

Daniel Marcus, storico dell’arte e scrittore, vive a Columbus, Ohio

Articolo originale  © Artforum, Summer 2018, “Jasper Johns,” by Daniel Marcus.
traduzione di Cristina Rosati

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