Forse parlo con la cosiddetta cognizione di causa, e il tono non potrà che essere corrosivo. Perché proporre un racconto su opere d’arte contemporanea, sulla loro strabiliante “innovazione”, sullo stupore (se ancora davvero stupiscono) che suscitano ai fruitori, mi pare che le riviste siano piene: colonne chilometriche di questo e di quell’altro; cioè di questo che è più nuovo del nuovo, e di quell’altro che è più bello del bello.
Dei rapporti interazionali che le opere hanno con il pubblico, invece, siamo ancora all’abbiccì: tutto si stabilisce sempre su una vecchia idea di arte (da Ouagadougou in Africa ad Älmhult in Svezia), su un vecchio calcolo e principalmente sulla preziosa presenza dell’evento: insomma, se l’evento c’è, e i numeri delle masse sono utili alle casse, l’arte ha successo (spero sia possibile contraddire tale tesi).
Ricordo una frase di un filosofo americano, George Dickie, risalente agli anni settanta, tratta dal testo “Art and the Aesthetic“, che ha il ritmo e la felicità di un mattone di diritto penale: la tipica classificazione sull’arte, scandita da enunciati logici. Una definizione che merita di essere citata, tra le tante, è quella sul pubblico, che secondo Dickie è: «[…] un insieme di persone i cui membri sono in qualche misura preparati a comprendere un oggetto che venga loro presentato».
È questa l’interazione di cui parlo. Più che osservare le opere di Fabre, la maggior parte conosciute essendo di qualche anno fa (il linguaggio è sempre quello: insetti, tartarughe, mitologia, ecc.), ho posto l’attenzione al pubblico locale, a mo’ di esperimento sociale, rilevando che l’arte è sempre ferma sullo stesso punto.
Ecstasy & Oracles, a cura di Joanna De Vos e di Melania Rossi, con la regia di Jan Fabre, inserita (anche questa?) tra i Manifesta 12/Collateral Events e nel cartellone di eventi di Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018, è andata in scena lungo la via Sacra, alla Valle dei Templi, sito archeologico da un paio di anni dedicato a varie attività: dai banchetti-discoteca di Google a scenografia per cantanti locali.
Della intensità estetica dell’artista non riferisco alcun interesse; ripeto: non mancano le riviste che lo raccontano. Del suo sviluppo, però, sì: perché mentre la “mostra” compiva il suo svolgimento (e nasceva l’evento) accadeva questo. Un nucleo piccolo piccolo della città sosteneva che le opere di Fabre sono da inserire tra le pagine della storia dell’arte; in tanti non comprendevano le motivazioni di tale spettacolo; tutti concludevano che è corretto affermare soltanto quello che le autorità in materia e il contesto indicano.
Riproponiamo la tesi di un “amico” di Dickie, Arthur Danto, qui abbondantemente travisata. Il repentino cambio di prospettiva, quel bagliore improvviso che ci convince riguardo ciò che è o ciò che non è arte, non sta nell’opera, la quale è inerme e non potrà mai aver vita, bensì sul modo di vedere, che è quasi una riproposizione, da adulti, di quell’auto-condizionamento esperito da bambini: ovvero, se immagini con paura che nel buio ci sia un mostro, esso apparirà davvero. Questo modo di vedere permette all’opera d’arte di rivestirsi di una nuova identità, di diventare reale (reale nel suo mondo, certo), di giudicarla addirittura bella o brutta. Tuttavia, se nel modo di vedere manca l’essere preparati a comprendere, riproponendo con interrogazione Dickie, l’arte decade, no?
Ebbene, a parte le citazioni dei filosofi americani, delle quali mi dissocio con vigore (anche citarne uno solo, di americano, è troppo, lo so!), a parte gli eventi appariscenti e le installazioni di opere di contemporanea in luoghi sacri, insomma a parte tutto, la preparazione carente nel modo di vedere nell’anima del pubblico rimane ancora, nel 2018, il momento più importante: perché pericoloso. Magari assistendo nei prossimi giorni a Brunori Sas alla Valle cambierò opinione (ne dubito); e chiederò all’oracolo: «Un biglietto, un biglietto, per favore!».
(La foto è di Carmelo Capraro)