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Intersezioni – Ragusa Foto Festival – VIII Edizione

Sto invecchiando e, come il bianco sui capelli, aumentano ogni giorno i pregiudizi. Uno inveterato è quello che mi oppone ai festival, alle rassegne generaliste che per dovere di cronaca sono chiamato a frequentare: esibizioni sperticate di retorica autocelebrativa, che parla cioè di sé stessa e a sé stessa, con la consueta vagonata di profughi, familiari, bimbi soldato, casalinghe truccatissime e rifatte a proiettare le medesime ambizioni alla visibilità, umane quanto sterili, in un cosmo mitologico improbabile e volgare. 

Le rappresentazioni che estetizzano il banale, la sofferenza o l’orrore non sono esse stesse parte della banalità, della sofferenza o dell’orrore? Nessuno mi toglierà mai dalla testa che, senza il tirocinio dei giochi di guerra, mancherebbero i piloti di droni militari. Intendo (anche) dire che la presentazione accattivante di tanti contenitori contemporanei, di solito splendenti più degli stessi contenuti, ha una responsabilità, e non di poco conto, nella fruizione circense dei suddetti eventi d’arte. 

Perciò ho ammirato il coraggio con cui l’ottava edizione del Ragusa Foto Festival (Ragusa, 26 luglio-25 agosto 2019) ha riflettuto sulle Intersezioni tra fotografia e famiglia affidandosi a un efficace allestimento minimale, senza curarsi affatto del degrado in cui versa una delle sedi espositive, Palazzo Cosentini, monumento nazionale tutelato dall’Unesco, i cui ambienti, feriti da un restauro impossibile, pieni di umidità e abbruttiti dalla scriteriata inclusione di sculture e reperti nelle nicchie alle pareti, garantiscono alle icone un aggancio vigoroso alla crudezza del reale. 

C’è anzi da credere che i curatori Mario Cresci, Aldo Bonomi, Alfredo Corrao, Rosario Antoci, Stefania Paxhia e Steve Bisson, complice il sottile odor di muffa, abbiano individuato nei due piani del palazzo l’inferno e il purgatorio: gli spazi categoriali più appropriati per visualizzare, attraverso sguardi obliqui, la crisi evolutiva della famiglia tradizionale, concentrandosi sul mutamento del ruolo della donna, sull’invecchiamento della popolazione, sull’affermarsi di gruppi monogenitoriali, sull’avvento di nuclei multirazziali e multiconfessionali e sull’individuazione di nuovi modelli familiari (convivenze, coppie di fatto, coppie omosessuali). 

Il quadro che ne risulta, prescindendo dalle inevitabili differenze di qualità e di stile, è uno spaccato antropologico in cui si passa dalla disamina aggiornata del Lessico familiare, collettiva realizzata con la collaborazione di Urbanautica Istitute, la fondazione di Steve Bisson, coi lavori di 18 autori (Angelo Anzalone, Claudia Corrent, Alessandra Dragoni, Nicola Di Giorgio, Loulou d’Aki, Paola Fiorini, Raquel Bravo Iglesias, Mascha Joustra, Koki Konowiecki, Laura Lafon, Paolo Mazzo, Lorena Morin, Misha Pipercic, Sina Niemeyer, John David Richardson, Enrico Sisti, Merve Terzi, Emily Wiethorn, Fulvia Bernacca) selezionati mediante un bando internazionale per esplorare le diverse definizioni di famiglia, allo Spaesamento digitale, altra collettiva incentrata sui nuovi paradigmi comunicativi generati dalla rivoluzione informatica con lavori di Andrea Buzzichelli, Stefano Parrini, Giovanni Presutti, Eric Souther, a una piccola sezione con libri d’artista liberamente consultabili dal pubblico, sino alle mostre personali della brasiliana Julia Kater, che ha rielaborato liricamente con la sua tecnica specifica, tutta ritagli e sovraesposizioni, la dimensione affettiva delle riunioni familiari; di Lisa De Boeck e Marilene Coolens, mamma e figlia che da anni si fotografano (e si rispecchiano) a vicenda; di Daniel Coburn, il cui The Hereditary State racconta il sogno americano attraverso il suo album personale; di Yvonne De Rosa, con le sue Hidden Identities appartenenti a bambini e famiglie disagiati tra Bosnia Erzegovina e Romania a tal punto fuori dalla società civile da esser privi di documenti. Infine, straordinari per potenza e intensità espressiva, gli scatti di David Chancellor che, contrariamente al solito, non immortalano animali e cacciatori, solo la sua famiglia, la sua casa, il paesaggio circostante. L’immagine di un bimbo ai piedi di un gigantesco albero abbattuto per metà, con la parte superiore che si piega sul tronco formando un ponte precario e impraticabile e inquadrando il bimbo, che a sua volta osserva l’albero dal basso, oltre a rappresentare una tranciante metafora del confronto tra generazioni, è una delle meditazioni più toccanti in cui mi sia imbattuto sul rapporto uomo ambiente – in un’altra foto il figlio di Chancellor è aggrappato nudo e di spalle a un’agave spinosa, come un frutto – e sul futuro che ci attende.

E il paradiso? Per ritrovarlo i visitatori dovranno arrampicarsi lungo le strade di Ibla, il centro storico di Ragusa, tra strettoie soffocanti e scorci mozzafiato, sino a Palazzo La Rocca, altro splendido edificio barocco, ma in condizioni conservative decisamente migliori del primo; dovranno, in altre parole, ripercorrere simbolicamente, in formato ridotto, il cammino che i romantici dell’Ottocento compivano, più con la fantasia che attraverso i viaggi, prerogativa di pochi, per raggiungere le terre vergini, i paradisi originari in cui, lasciatisi alle spalle la società del tempo, non satura di consumismo come la nostra ma già allora percepita come un’oscura prigione, si credeva possibile istituire un costume di vita improntato a un rapporto spontaneo, non di semplice sfruttamento, con la natura circostante.   

È il viaggio compiuto dal grande Sam Harris, autore di The Middle of Somewhere, la mostra principale ospitata nel palazzo, che riporta dal sud ovest dell’Australia il ricordo di un’infanzia incontaminata. Con leggerezza rara, Harris concentra il suo obiettivo sui giochi delle figlie, in un luogo dove lui e i familiari sono liberi di sperimentare la meraviglia dei dintorni, esplicata attraverso il contrasto tra lo sfumato dei volti, preziosi e indefinibili, e il colore saturo e brillante degli sfondi. E ciò, si badi, senza rinunciare a priori alla tradizione – in primo luogo visiva – della cultura di appartenenza, che è possibile inscenare senza sospetti di retorica grazie alla forza primigenia dell’ambiente (penso all’immagine di una delle figlie tra i fiori, una sorta di doppio rovesciato dell’Ofelia di Millais, non morta ma solo addormentata). 

Accanto a questa mostra, con Handle Like Higgs di Chancellor vera regina della rassegna, la mostra The Body of Jane di Emilia Pizzonia, premio miglior portfolio dell’edizione 2018 del Foto Festival, che prova a ripercorrere anche attraverso interviste e spezzoni di giornale la storia dell’aborto in Italia dalla sua legalizzazione sino a oggi, e le foto dei tre vincitori di Scuole d’Italia, selezionati attraverso una call che visto la partecipazione di tanti studenti di scuola superiore di tutta Italia sul tema di quest’anno e, per concludere, in una saletta attigua, la proiezione a ciclo continuo di Istanti di cose in gioco, un documentario realizzato da Sonja Riva e Gioconda Donato per la Televisione Nazionale Svizzera sull’immensa produzione fotografica di Ferdinando Scianna.

Scianna è stato anche uno dei protagonisti delle intense tre giornate inaugurali, con tanto di tavole rotonde sulla famiglia che cambia, su esperienza e potenzialità del libro fotografico e su ciò che serve a un giovane talento per emergere nel bailamme della fotografia contemporanea.

Sarà anche vero, come ha scritto Bufalino, che “i pregiudizi han più sugo, talvolta, dei giudizi”: questa rassegna sembra proprio fatta apposta a smentirli interamente.

Intersezioni

Ragusa Foto Festival, VIII Edizione

Ragusa, Palazzo Cosentini e Palazzo La Rocca

26 luglio-25 agosto 2019

Ingresso libero

Info e contatti:
www.ragusafotofestival.com
email: info@ragusafotofestival.com 
cell. +39 320 2176543

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