Le tue opere, ha scritto Penelope Filacchione in margine a Morfogenesi, la tua penultima mostra, “sembrano svilupparsi da sole, quasi senza l’intervento dell’artista che si rende parte del processo dando l’avvio ad esso con poche azioni misurate e poi ne guida con cautela lo sviluppo”. Immagino tu concordi a pieno con tale interpretazione.
Assolutamente sì. Nel procedimento che utilizzo, l’artista ha il solo compito di seguire ogni cosa nel suo manifestarsi e nel suo fluire, stando molto attento a non alterare in modo razionale ciò che accade.
Ma come fai a capire, in tale contesto di perpetuo divenire, quando un lavoro è finito?
Mi rendo conto che la domanda sorge spontanea: in un procedimento che vuole escludere la razionalità, come si fa a “decidere” quando fermarsi? La sovrapposizione dei diversi strati di pigmento implica, ad ogni passaggio, la fatidica domanda: è giunta l’ora? Ogni sovrapposizione “cancella” o altera quello che qualche minuto prima mi aveva emozionato e poteva essere, in potenza, un risultato convincente. Confesso che non è sempre facile passare allo “strato” successivo, ma anche questo fa parte del procedimento e devo accettarlo. È l’opera stessa a dirmi quando fermarmi: l’equilibrio compositivo è l’elemento che segna l’ultimo strato.
Nella tua pittura, cito ancora la Filacchione, “infiniti strati di carta, pigmenti, acqua, colla, posti sulla tela con azioni lungamente meditate creano delicati passaggi di piani, sfumature, forme astratte”. Mi parli della fisicità nel tuo lavoro?
Ci tengo anzitutto a dirti che si tratta di un lavoro dove ti sporchi tanto le mani, e non solo! Utilizzando pigmenti in polvere in grande quantità, devo stare attentissimo a non inalarli; perciò indosso una maschera, con dei filtri specifici. È un procedimento molto lento e minuzioso, e per minuzioso intendo che procede per step molto piccoli. Le tele vengono maltrattate e le superfici continuamente spaccate o strappate. Si entra in un rapporto molto stretto con l’opera che, letteralmente, prende forma tra le mie mani senza che io abbia la possibilità di decidere quale sarà il risultato finale: una “morfogenesi” automatica “accudita” dall’artista.
L’Informale, cui la tua pittura si ispira, si è sviluppato in un mondo di macerie, devastato dalla guerra. Un mondo, a ben vedere, non troppo diverso da quello in cui viviamo.
La guerra è un evento terribile che troppo facilmente sta diventando consuetudine. La cosa che più mi spaventa è la disumanizzazione delle persone. Un mondo senza empatia e umanità è un mondo finito. Per come la vedo io, le persone sono troppo “distratte”, e questa distrazione le sta allontanando da loro stesse, inducendole a perdere familiarità coi propri sentimenti. Ed è qui che l’arte acquisisce un valore educativo. L’approccio all’opera che immagino va a stimolare proprio questo aspetto: invita chi la fruisce a compiere un viaggio nel proprio inconscio, ritrovandosi a stretto contatto con le proprie emozioni. In quel luogo non esiste distrazione: ci sei solo tu e tutto quello che, di solito, non racconti neppure a te stesso.
Ritieni gli artisti in grado di incidere, positivamente, sul reale?
Stiamo procedendo a grandi passi verso un mondo dominato dall’Intelligenza Artificiale nel quale le persone sono destinate a perdere sempre di più le loro facoltà empatiche e le loro abilità manuali: la tecnica non è più al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio della tecnica. L’arte, costringendoti a confrontarti con la materia e il sentimento, rappresenta un’ancora di salvezza – una delle ultime rimaste – per le prossime generazioni.
In che senso l’opera d’arte, come hai dichiarato in un’intervista a Elisa Giammarino e Veronica Di Furia, è per te “un posto sicuro”?
La mia ricerca è anzitutto un percorso personale nella tortuosa strada verso la conoscenza di me stesso. Più in generale vedo il mio lavoro come una missione il cui obiettivo è regalare, a chi vorrà fare un percorso simile al mio, la chiave per un approccio all’arte “diverso”, dove è il fruitore stesso, tramite l’opera, a generare significato. Un approccio proiettivo e allo stesso tempo introspettivo tramite il quale è davvero possibile indagare il proprio inconscio. Come in un sogno ad occhi aperti, nelle mie opere il fruitore è sospeso in una bolla di intimità dove non esiste giudizio e tutto fluisce liberamente. Un posto sicuro.
In questo tuo “percorso” dalla fotografia sei passato alla pittura. Il passaggio successivo sarà il video, come lascia intuire il lavoro realizzato a quattro mani per La pelle del tempo con Andrea Maioli di Kanaka Studio?
La videoarte è un mondo che ho indagato solo nel periodo accademico ma su cui ho molto spesso riflettuto. Il potenziale del video è enorme; tuttavia, non saprei proprio come utilizzarlo per produrre un’opera “istintiva”. Volente o nolente ci si ritrova a fare i conti con riprese, montaggio luci e tante altre azioni che non è davvero possibile svincolare dalla razionalità. Però… Mai dire mai!
Mi avvio alla conclusione. Qual è il tuo atteggiamento verso lo spirituale, il trascendente?
La spiritualità è il perno attorno al quale tutto ruota ed acquisisce valore. Il processo artistico stesso è per me un avvento spirituale, in grado di elevarmi e di mettermi in contatto con quella parte di me che più è vicina al divino.
Cosa ti aspetti dal futuro?
Di continuare i miei progetti, rendendoli sempre più grandi ed importanti. Vorrei esporre all’estero per far conoscere e divulgare il più possibile la mia visione dell’arte. Sono aperto a tutte le infinite possibilità che il futuro mi riserva.