Sono passate solo poche ore dall’arrivo della triste notizia. Giusto il tempo per asciugare le prime lacrime.
Angelo Tirreno se ne sta seduto in disparte, a testa bassa, davanti a un foglio bianco che riflette le immagini di una giornata funesta …
I miei umori erano ancora in viaggio, quella mattina del 19 luglio 2014, sul Freccia Rossa che daMilano mi portava a Roma per la chiusura di una mostra, quando il cellulare ha preso a squillare. Dall’altro capo, Lucia Gangheri mi dice: «Ciccio Capasso se n’è andato per sempre». Il silenzio è piombato come una cappa pesante sul formicolio della stazione ferroviaria. E l’inquietudine delle intricate strade cittadine è passata discordante dagli sguardi bagnati del sudore metropolitano. Così quando arriva la sera e tutti si ritrovano sulla rete Web, il regno di famiglia degli amici di Ciccio, di fronte alle magie dei suoi contributi e delle sue modeste registrazioni, le interviste, la “musica che suona” non riesce a fermare il flusso continuo dei ricordi.
Una vita spesa per il “teatro e nel teatro della musica”, un cammino irto di difficoltà che solo una grande tempra interpretativa ed una non comune forza di volontà hanno potuto sopportarne il peso e le iniziali umiliazioni. Ma la consapevolezza dei propri mezzi, la caparbietà ed una nobile forza d’animo hanno irrigato i solchi scavati con le unghie, permettendone la ricca messe.
L’attività artistica di Ciccio Capasso inizia nel 1973 con Leo de Berardinis e Perla Peragallo, artistitra i più apprezzabili del teatro sperimentale in Italia.
Con Leo e Perla, Ciccio Capasso lavora al Teatro Regio di Parma, al Carignano di Torino, al San Ferdinando di Napoli, al Verdi di Salerno, al Morlacchi di Perugia, al Giacosa di Ivrea, al Comunale di Città di Castello ed ancora in moltissimi teatri d’Italia ed in Europa.
Dopo qualche anno, sempre con Leo e Perla, a Parigi la Compagnia riscuote un enorme successo di critica e di pubblico, fino ad essere invitata per la seconda volta a rappresentare l’Italia al Teatro Mondiale delle Nazioni [1976-77].
Nel 1980 si dedica esclusivamente alla Canzone Classica Napoletana d’autore, di cui è un attento cultore e ricercatore oltre che un “elegante traduttore”.
Ciccio Capasso è anche compositore di versi e musica, servendosi del dialetto, per corrispondere ad una sorvegliata musicalità.
Nell’ottobre 1995 partecipa alla rassegna Parma Poesia, presentando la poesia in canzone di Salvatore Di Giacomo, riscuotendo così grande successo soprattutto da parte del pubblico. Nel febbraio 1996, al mitico locale romano Folk Studio, Ciccio Capasso presenta un repertorio sulla canzone napoletana dal ‘700 ai primi del ‘900. Nel 2003 a Recanati per i “Notturni Leopardiani”, che anticipano di gran lunga l’intuizione filmica di Mario Martone, tiene uno spettacolo sul Colle dell’Infinito (dal titolo: da Napoli a Recanati, l’Amore, il Viaggio, la Natura).
Adorato dai giovani e soprattutto dai bambini Ciccio era capace, anche nei suoi ultimi spettacoli, di stremare i suoi musicisti ed il pubblico prima di stancarsi lui. La musica combatteva gli acciacchi dell’età e gli dava energie incredibili. «Quando canto mi sento in paradiso» diceva, aderendo così perfettamente ad una tradizione che vuole la musica come generatrice di energia positiva, capace di esorcizzare mali e malanni, spiriti maligni e morsi di ragno. Con la morte di Ciccio si chiude anche un’epoca, quella della rinascita della canzone classica partenopea, iniziata nei primi anni ottanta e che ha contagiato enormi fette di pubblico in tutta Italia, come provano le centinaia di migliaia di persone che ogni estate affollano “Le notti delle rassegne partenopee”. Ci piace pensare che se ne sia andato cantando, magari sommessamente, per entrare ancora una volta in quel paradiso che stavolta non dovrà più lasciare. Rimarrà, indelebile, il ricordo di un personaggio a tutti noto, nel paese di Scisciano e dintorni, per la sua affabilità, semplicità, schiettezza.
Come spiegare a un artista della Napoli del 2014 chi era, anzi chi è, Ciccio Capasso? Forse con quello spezzone di «Sudd», lo spettacolo del maggio 1974 che esordì al Teatro Spazio Zero di Roma con Leo e Perla e Sebastiano Devastato, riprendendo le voci e le urla dello show, potremmo essere in gara sulla fila dei ricordi? Ciccio, così come Pasolini, è sempre stato collegato col mondo giovanile, lo ha vissuto, frequentato, descritto, raccontato e ricordato tramite le sue “vecchie interpretazioni”, portando con sé la sensibilità del suo essere “diverso”, quando diverso voleva dire essere dichiaratamente omosessuale. Se oggi è più facile scendere in piazza con un boa di struzzo per rivendicare dei diritti, lo dobbiamo anche a Ciccio. Ciccio icona dei “diversi”, della nuova popolazione gender? Non era “diverso” solo per questo. Non si può dare del “lirico” una lettura psicanalitica, basata solo sulla sua omosessualità. È indubbio però che la sua diversità abbia condizionato e caratterizzato la sua poetica e la sua “scrittura di minoranza”. Infatti, in tutta la sua opera interpretativa è evidente il tono autobiografico. L’autore espone temi che lo riguardano: il rapporto con la madre, con il padre, il tema del conflitto familiare, e poi lui, il suo sentire, la sua delicatezza. Una voce diversa, un’identità a volte scomoda. La canzone d’autore o l’interpretazione della lirica classica napoletana, dovrebbe sempre essere un’esperienza autentica, in cui la parola prima di diventare verso dovrebbe essere quella cosa onesta, che direttamente arriva al cuore di una verità e sempre si mostra schietta nel suo rapporto con il volto sincero delle cose.
Sono davvero pochi oggi i cantanti che scelgono la via dell’essenza, che decidono di fare coraggiosamente della poesia una cosa vera che scava nel cuore della vita che accade tutti i giorni.
Pablo Neruda giustamente scriveva che un poeta deve occuparsi della vita e dell’amore. CiccioCapasso ci regala un’interpretazione spontanea, malinconica e nuda che affonda il suo dire nelle pieghe e nelle ferite dell’esistenza. La canzone di Ciccio Capasso è diretta, di facile comprensione e soprattutto è coraggiosa e assertiva: ed è questo l’aspetto che la rende vincente. Attraverso l’interpretazione della canzone napoletana classica dell’800, è notevole il suo impegno civile per un nuovo umanesimo attraverso un cambiamento fondato sui valori di fratellanza, pace, e cooperazione tra i popoli. Ascoltando le note e i versi del suo “bel canto”, ci accorgiamo che la suavoce è un seme destinato a diventare germoglio, è un invito a restare umani, ma soprattutto un trasparente monito a togliere la maschera e a mostrare il nostro volto.
Compito della canzone popolare è rifare l’uomo in questi tempi difficili, in cui una crisi morale sta uccidendo ogni cosa di un creato che sembra non avere più difese. Ciccio Capasso, come tutti icantanti e interpreti veri, è un mistico della parola lirica senza attorialità, che non ha paura degli approdi difficili e nel mare della vita sfida a viso aperto la tempesta del caos navigando a tempo pieno senza temere la “risacca esistenziale che agita sul fondo”. Qui la liricità classica napoletanadiventa la rotta etica da seguire, anche se le carte dell’esistenza sono tutte da decifrare.
Ciccio Capasso è un cantante e interprete del vero e della parola nuda che si schianta con forza affermativa nel grumo immanente della vita. Un cantare che incontra le ragioni del sentire rappresentate nella loro autentica cifra. Se volete emozionarvi e respirare aria nuova ascoltate e partecipate a queste “canorizzazioni” che parlano di vita, di amore, di morte. Qui c’è la grammatica umana del divenire napoletano, ma anche la voce di un mondo con le sue quotidiane contraddizioni.Senza maschere, senza finzioni, in queste “liriche interpretate”la realtà è servita con il suo carico immenso di disincanto e meraviglia. L’interprete nel suo libero andare scava nel cuore trincee di verità: impegno civile e voce interiore si contaminano e la sua poesia diventa necessariamente “la voce di chi non ha voce”. Ciccio è magnificamente assertivo, quando invita a vivere nel vero ogni attimo e soprattutto a non rinunciare alla melodia della Bellezza fino a quando sopra di noi avremo un cielo come quello di Napoli da ammirare.
Dall’amore alla morte passando per il mare è un disco aperto che ci regala “attimi che sanno di assoluto”.
Soprattutto ci troviamo di fronte a un cantante che ha ancora voglia di agitarsi e di gridare, di essere vivo e nudo al cospetto del tutto che si spegne. La vera casa della canzone, per Ciccio Capasso, è prima di tutto una comunità di uomini liberi che si accettano fra loro e sanno accogliere chi desidera entrare. Non sappiamo cosa sia la canzone, la traduzione di “voci nelle voci”, ma di certo i poeti dovrebbero essere uomini, soltanto uomini e niente altro più che semplice grammatica del cuore,per una lingua colma d’amore che conduce tutti noi verso il mare, metafora perfetta della vita.
Cicco Capasso è sicuramente uno di questi interpreti. La sua “traduzione” di Mercadante, Di Lasso, Vinci, F.P. Tosti, Di Giacomo, Viviani, Bovio, Nicolardi, Russo, E.A. Mario, Murolo, Gambardella, Staffelli, Cannio, Denza, G.B. De Curtis, Galdieri, Falvo, Totò sa dare un posto alle parole e alla musica, prima che tutto smetta di essere. Poesia onesta che arrischia le strade del cuore. Dopocontributi come: Assonanze e Passioni (La grande canzone napoletana, C.D, 1997), Era de Maggio (La grande canzone napoletana, CD 2004) sono davvero rari i cantori che hanno il coraggio disinteressato di affrontare le ferite insanabili e “la sottile fragile / trama dell’esistenza”con le parole incendiarie delsentimento.
Allibita e impressionata per ben altri motivi, Napoli del 2014 si scopre afona, priva della sua voce e delle sue performance. Si narra che fu Eduardo De Filippo a definire con un pensiero sperimentale la Napoli di un tempo, e forse fu così una volta e per sempre, cogliendo in pieno il soul di quei fonemi primitivi, in cui le risonanze e i riverberi rurali si mescolavano con lo sviluppo urbano, lacittà e la sua gente. Ciccio Capasso è stato un’altra delle voci, e dico un’altra alla lettera, fino a scavare nella memoria dell’ulteriore, della “ricchezza e della risorsa Napoli”. Nell’era dell’integrazione e della crisi globale, i contrappunti carichi di suggestioni contadine e di fioriture popolari di Capasso, che aggiunge a Sergio Bruni una cadenza più sperimentale, parranno a qualcuno anche «troppo» ordinari, addirittura «grossolani»: sono radici new global, sono “l’etica protestante” di un’arte mediterranea e grecizzante, genuina e forse persino partigiana. La storia di Ciccio Capasso, cantante e soprattutto interprete minore (e qui uso il minore nel senso in cuiDeleuze e Guattari lo dedicavano a Franz Kafka), sfugge alle logiche dell’industria discografica, è basata innanzitutto sull’identificazione tra quell’ugola (che negli ultimi tempi fu offesa dalla malattia) e la sua vita terrena, porose entrambe (ci suggeriscono Benjamin e Bloch), capaci dicolare e produrre “in proprie” commozioni, eventi, saperi esteriormente distanti.
Sto guardando i pochi contributi di Ciccio che scorrono sulla play list del Web per sfuggire alle lacrime, Lucia, Costantino e Luca che lo conoscevano molto meglio di me sono fermi dinanzi alla sua discografia, ma il campano di Scisciano è lì con noi che ci ricorda le giornate trascorse insieme, i momenti di gioia condivisi con Leo e Perla negli anni del quaderno di Sudd, l’esperienza del Teatro come errore al Teatro dell’Ignoranza a Marigliano insieme ai flash degli spettacoli come Amleto, Sir and Lady Macbeth, Film a Charlie Parker, O’ Zappatore, King Lacreme Lear Napulitane, Chianto ‘e risate e Risate ‘e Chianto,Rusp Spers. Lui, il cantautore che in Sudd aveva imparato a suonare la chitarra attraverso la grammatica delle mariglie, era malato da tempo e gli amici della sua cerchia sapevano bene che il tocco dell’ultima campana stava per arrivare. Ed è arrivata, dall’Ospedale di Nola. Inesorabile. Tanto che ora anche l’incanto chiuso nella sua interpretazione di «NA SERA ‘E MAGGIO», la misteriosa vocalità de «l’ultimo, appassionato canto di Napoli prima del baratro buio della guerra», è rotto miseramente. Non resta che riascoltare la voce di Ciccio, sentita tanto tempo prima dai fili di una cornetta, e lasciarsi andare, con la barba ancora umida, nello sfogo che passa lungo una penna solitaria. «E adesso che farò, non so che dire, che ho freddo come quando stavo solo … ».
Così Ciccio iniziava a suonare per me di notte, in quegli anni in cui ci facevamo compagnia nel suo forno di Scisciano, mentre si attendeva quella fatta di pane che profumava come la sua voce, raccontando le sue e le nostre esperienze quotidiane. Un uomo semplice, umile e altruista, un lavoratore rispettoso e un dissidente poco rumoroso, amante sincero della nostra Città senza confine(così come avevamo chiamato Napoli all’indomani del 1984). È andato via in silenzio e senza voce, quella voce che lo aveva reso protagonista di tante interpretazioni di canzoni famose della “Napuleè”, come se non volesse disturbare i suoi amici di sempre, quel popolo che lo ha continuamentesostenuto, quella gente che ha sempre creduto in lui, un “ragazzo di vita”, un guerriero «a voce soffocante e spasmodica ». Chi oserà più “ricantare e reinterpretare le sue parole e le sueinterpretazioni”, chi saprà più tradurre quella passione avvinta con quell’espressione che solo chi“sente dal cuore” può cantare? Chi potrà mai ridarci il sorriso che regalava a tutta la gente che lo stava ad ascoltare? Chi lo potrà mai dimenticare?
A stento riesco a tenere le lacrime e a raccontare i migliori anni della mia vita dopo aver conosciuto lui, il compagno di strada delle nostre fantasie sonore, la serietà e “l’etica del diverso” in cui credevo, la differenza che mi ha dato spazio sull’utopia dello svalutare il maschilismo stallone della cultura provinciale. Lui, sicuramente, ha aiutato a formare la mia soggettività e quella di un gruppo di intellettuali-artisti in fermento tentando di perseguire una traccia di liberazione. Chi scrive, a questo “diverso e a questa diversità”, deve tanto. L’unica amarezza che di certo mi trascinerò dietro per tutta la vita è il non essere andato a visitarlo prima di morire, ma forse lui non avrebbe voluto, da indole “dura e commossa” di sempre non avrebbe accettato che il suo compagno di scritture e di performance lo vedesse così, un Francesco Capasso malato, un poeta stanco. Trascorrerò le mie giornate senza tante fantasie sulla musica popolare, ripensando ai suoi consigli, al bagaglio di esperienza che mi ha regalato. Non potrò mai dimenticare il grande sogno che mi raccontò quando morì Leo De Berardinis: avrebbe voluto fare un video dove Perla Peragallo, Sebastiano Devastato,Nunzio Spiezia, Luigi Finizio, Vincenzo Mazza, Maurizio Gambacorta erano seduti attorno al microfono di una masseria come quella dove risiedeva il Teatro di Marigiano, a cantare le loro storie per farci capire i cambiamenti drastici che le nuove generazioni, incuranti del passato, affrontano. Avrebbe solo voluto ma … non ha potuto.
Vorrei continuare a parlarvi di questo “dandy discreto e iperpartenopeo”, ma la mia tristezza è così forte che anche la penna si rifiuta di continuare a scrivere. Voglio soltanto ricordarlo come era, chiudendo con le ultime parole che ha detto all’amico “diverso, ipergender” che lo assisteva durante gli ultimi giorni di ospedalizzazione: « È assurdo, non capisco, sto andando via …». Forse si riferiva a qualche pezzo inedito di King Lacreme Lear Napulite di Leo e Perla? Ma nella mia mente ora c’è il vuoto. Non so proprio dire altro, preferisco ricordarlo così come l’avevo visto in forma il 13 agosto del 2011 sul Lago di Bracciano, mentre tenne un concerto a bordo della motonaveSabazia II, in navigazione notturna sul lago, nell’ambito della manifestazione Note di Notte di Luna.Forse si può ricordare una quartina del 1937 di Raffaele Viviani: “Io quanno sento ‘e di’: tiempecattive …/ Nun dongo a colpa ‘e muorte, ‘a dongo ‘e vive!/ E quanno ‘e fatte tuoje te vannostuorte,/ chille can nun ce traseno so ‘e muorte”.
Riposa in pace, caro Ciccio!