È compito della critica ritrovare ciò che è comune anche in ciò che è differente: “imparare a concentrare lo sguardo su ciò che è uno”. Questo per Simmel è il compito del critico-estetologo-filosofo. Quali mezzi ci mette, dunque, a disposizione la tradizione critico-semiologica per risolvere il compito che ci siamo posti, od anche per avvicinarci ad una più chiara autocoscienza di esso, cioè il compito di colmare l’enorme frattura tra la tradizione della forma e del contenuto (dell’arte) dell’oggetto occidentale da un lato e gli ideali delle produzioni contemporanee dall’altro? Il primo orientamento ci viene dato dalla stessa terminologia “ansa del vaso” (brocca o anfora che dir si voglia). Non dobbiamo sottovalutare infatti tutto quello che una parola riesce a trasmetterci. La parola è la preliminare operazione del pensare che è stata compiuta prima di noi e dopo la «creazione dell’ansa del vaso». Così l’esplicitazione «ansa del vaso» è qui il punto in base al quale dobbiamo camminare ed orientarci: chiunque sia storicamente attento al senso del pieno e del vuoto possiede “in sé” quel senso esclusivo e distintivo, che oggi possiamo attribuire all’idioma “ansa del vaso”, da più di qualche migliaio di anni. Fare vassoi, disegnare brocche, redigere piani di costruzione di vasi per l’apicoltore, fermare abozzi su fogli, memorizzare frammenti su taccuini, sono diventati comportamenti tanto abituali e diffusi da averci fatto smarrire il profondo valore di processo cognitivo depositato in ogni strumento svuotato o riempito. Se l’ansa del vaso non può essere considerata un semplice oggetto utile tra gli altri ma emblema di rilevanti mutazioni culturali, esso non deve neppure essere disdegnato in nome di un estetismo conservatore che lo vorrebbe estirpare in quanto oggetto che ha infestato la cucina. Se il successo evolutivo della brocca è da collegare al declino della potenza normativa dell’utensile e dell’idea di oggetto, andranno distinti due piani del problema. Il primo è il piano superiore dell’analisi conoscitiva moderna del valore d’uso, cui va riconosciuto di aver fatto pulizia di molte facili certezze sistematiche. Poi c’è però il piano artistico, meno nobile, almeno dopo l’orinatoio di Marcel Duchamp, dove le norme logiche e formali, insieme all’estetica dell’ansa, sono state trascinate in ambienti nei quali “l’umidità del mingo (d’arte)” corrode tutto (vedi l’opera di Tracey Emin tra il ‘99 e il 2000). Qui persino i concetti estetici e formali si sono dovuti adeguare al senso comune, al relativismo pragmatico, all’empirismo esperienziale del consumo. E qui le opere d’arte sono diventate piattamente vita estetica (dell’horror vacui e dell’horror pleni del vuoto) senza più gerarchie di valore e ancor meno di qualità. Al piano dell’oggetto tutto si legittima giacché tutto vi diventa parimenti “sacro vs profano” nel valore indifferenziato dell’esperienza. È come se lo sguardo del primo Novecento fosse stato elevato da un inguaribile scetticismo che impedisce di risalire ad una distinzione netta tra valore d’uso e valore di scambio, che prima veniva attribuito al piano superiore dalle idee distinte dal flusso dell’immanenza reale. La brocca, con l’orinatoio di Marcel Duchamp, è scesa nel vuoto “del dove tutto si corrode”, dai teoremi filosofici alle funzioni del pensiero riflesso, dalle competenze tecniche alle capacità espressive, nulla è più nobile di qualcos’altro, tutto è di parimenti valore poiché non c’è più una sacralità ulteriore: secondo l’equazione di Robert Musil: tutti “autori” uguale tutti “geni”. Sul piano della brocca e dell’ansa del vaso si concentra, dunque, una delle questioni contemporanee più intricate: la parificazione tra opere e oggetti comuni, tra arte e vita, tra modello dell’utensile e la lotta astratta al mondo “retinico”, tra funzione e realtà!
Se in oggettistica i modelli strutturali dello spazio sono due, i suoi tipi possono schematicamente essere ridotti a quattro. Uno di questi quattro tipi può essere indicato con la nozione di “spazialità psichica” e concerne il ruolo degli elementi non visivi, ma evocativi e simbolici, che contribuiscono a definire un carattere determinato dello spazio pieno e vuoto, esterno ed interno. Questo concetto è un’estensione di quello che S. Freud elabora nel confronto con la “spazialità piena e vuota” di Roma, in un passo del Disagio della civiltà: “Facciamo dunque un’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, una entità in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti” (Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, 1929-30). Freud, accanto alla realtà fisica della Città Eterna, di una realtà fisica fatta di contenuti psichici, configura l’esistenza spaziale. Egli scrive di un luogo incantato in cui non coesistono solamente passato e presente, ma anche vuoto e pieno, sostanza e astrazione, in una sorta di sedimentazione mentale di epoche che è l’analogo di ciò che definisce l’identità di un luogo e quindi della sua architettura. Tale considerazione della spazialità riguarda, dunque, la compresenza negli ambienti di un edificio di vissuti e momenti del passato e del presente, in cui sono ora immersi i visitatori e del futuro che incontreranno; un’accumulazione che crea una straordinaria complessità di sviluppi della significazione. Tali stratificazioni semantiche, che evocano evoluzioni alternative a quelle che si sono prodotte, in un gioco di infiniti sguardi dell’ansa del vaso, possono essere riportati anche ad una microstoria dei liquidi che attraversano le nostre brocche e i nostri vasi del quotidiano. Infatti, un’altra spazialità contemporanea, attuale alla nostra crisi del progetto moderno, è quella effettuabile, che si esplica sia nell’universo mediatico, sotto forma della realtà virtuale, sia in quello fisico, come plusvalore concettuale espresso dagli elementi del vuoto e del pieno, che danno vita ad un oggetto dell’artigianato, o ad un grande insediamento architettonico. Guardando un’“ansa del vaso” dall’esterno e poi entrando in essa (attraverso le parole del saggio di Simmel) si ha quasi sempre l’impressione che l’interno sia più grande di quanto ci si sarebbe aspettato e questo vale anche se usiamo orchestrare il confronto tra il vaso e la Fontana (l’orinatoio di M. Duchamp). Da dentro il contenuto sembra quindi eccedente rispetto all’involucro: questa impressione deriva probabilmente dal fatto che l’esterno si dà nello spazio aperto del nostro agire, in un sistema di collimazioni visive che mettono in relazione la dimensione del manufatto con la pratica del luogo circostante. Da ciò discende che la misura dell’anfora vista da fuori (ad esempio si ricordi l’installazione di Jannis Kounellis: “senza titolo, del 1989 a Capodimonte), non è apprezzabile in se stessa, ma è sempre funzione di un rapporto tra quest’ultima e la quantità metrica espressa dall’ambiente che circonda la costruzione, quantità che riguarda la misura di altri manufatti e le loro distanze. Si tratta di un rapporto che mette in ombra la scala umana, rendendo nello stesso tempo difficile la valutazione immediata della dimensione espressa dal ready-made, o la bottega di un artigiano revisionista che settarizza l’insegnamento di Marcel Duchamp sul basso profilo dell’installazione. In un allestimento precedente a quello definitivo (a Capodimonte) e musealizzante, a cui ci siamo riferiti poc’anzi, Kounellis aveva riempito gli orci con acqua marina e il solo centrale di sangue: sono recipienti che hanno interrotto la loro funzione procreativa; sono delle anse del vaso, delle grandi brocche private della loro funzione mitica. Una volta che si è penetrati all’interno di quelle brocche, scompare la funzione ed emergono soltanto le relazioni tra le misure degli spazi e la figura umana dell’ombra sannitica, greca, romana, contadina, marinara, pastorale: l’olio e il vino che furono, l’acqua, la pece, l’aceto, lì dentro costituiscono memoria spezzata che risale all’antichità. Questa frattura consente di scindere il vero valore di Simmel rispetto al riduttivismo deterministico e relativistico della Fontana, del 1917, di Marcel Duchamp!
Il comune orinatoio firmato “R. Mutt”, chiamato Fontana, è una delle maggiori frantumazioni del motto simmeliano “vivere è distruggere”. Per Simmel la vita si rivolta contro le proprie oggettivazioni e pretende di liberarsi dalla costrizione della forma. L’esperienza estetica per eccellenza è quella dell’artista, che considera la sua performance l’immediato precipitato della sua essenza interiore e che va ritenuta perciò come una esternalizzazione accessoria e superflua. Non si tratta di attingere dalle forme sclerotizzate ed oppressive come l’arte concettuale o l’arte povera, ma del rifiuto dell’assoluto formale che in qualche modo blocca in qualcosa di archeologico «cessi» ed anfore che non possono soddisfare bisogni e autenticità della vita. La vita vivente, l’unica condizione artistica possibile e in fuga dalla «materia poverista», intesa come performance autonoma, immediata e senza veli, volge tutta la sua azione verso la distinzione di ogni forma e procede scorrendo il bisogno di «bere e di mingere» in un qualsiasi momento della propria esistenza. In ultima analisi essa si sottrae perfino ad ogni obbligo oppressivo concettuale, perché il terreno della vera concettualità è la forma di vita che è al di là delle forme morte e ambigue del “senza titolo” post-duchampiano.
Simmel ha compendiato in un’espressione quasi assiomatica il raccordo che intercorre tra il corpo della brocca e la persona umana: senza la brocca «Io non sono», non posso bere; senza l’orinatoio io non posso pisciare; Io sono in quanto riesco a combattere la mia ritenzione idrica. Collegando in misura estremamente essenzializzata il ruolo che il corpo di un’anfora esercita nei confronti della persona umana, si può dire in forma ancora più assiomatica: la protesi del mio bisogno di bere o di pisciare sono io; io sono il mio corpo. Infatti, quando il mio corpo sta bene, sono io che godo; quando il corpo soffre e vive una condizione di impellenza, sono io che soffro davanti alla Fontana ideale nel museo. C’è, invece, una grande compenetrazione tra il fruitore e la sua fisicità nel cesso d’oro di Maurizio Cattelan, fino al punto che l’oggetto dell’artista mediale si fa azione attiva e ready-made rovesciato (“America”, gabinetto ricoperto d’oro massiccio realizzato per il Solomon Museum nel 2016 ed esposto nel Blenheim Palace nell’Oxfordshire nel 2019).
Simmel fa un lavoro sul naturalismo, che a suo avviso non rappresenta una rinuncia della creatività, ma al contrario un trionfo del teatro dell’esperienza contro l’incastonamento dell’oggetto. Il fruitore dell’anfora potrebbe praticamente amplificare un interno per far corrispondere alla preziosità di qualcosa di museografato, misure trasposte, liquidi corrispondenti ad un bisogno, sostanze che potrebbero creare un sotterraneo stupore e un’attesa per qualcosa di enigmatico che in quello spazio dell’anfora accadrà e agirà.
L’ansa del vaso (1911) di Georg Simmel
Alcune moderne teorie dell’arte pongono risolutamente in rilievo come il rappresentare la configurazione spaziale delle cose sia compito specifico della pittura e della plastica. Ma in queste affermazioni può essere facilmente trascurato il fatto che lo spazio all’interno del dipinto è una forma completamente diversa dallo spazio reale che sperimentiamo nella nostra vita. L’opera d’arte vive un’esistenza al di là della realtà, perché nello spazio effettivo l’oggetto può essere toccato, ma nel quadro può essere solo guardato; perché ogni frammento dello spazio reale viene sentito come parte di un infinito, mentre lo spazio del quadro viene sentito come un mondo chiuso in sé; perché, infine, l’oggetto reale si trova in un rapporto di interazione con tutto ciò che fluttua o è fermo intorno a lui, mentre il contenuto dell’opera d’arte ha troncato questi fili e amalgama soltanto i propri elementi in un’unità autonoma. Muovendo dalle visioni della realtà, dalle quali trae il suo contenuto, l’opera d’arte fonda un regno sovrano; mentre la tela e il suo rivestimento di colori sono frammenti di realtà, l’opera d’arte, che essi raffigurano, conduce la sua esistenza in uno spazio ideale che non ha contatti con lo spazio reale, come non ne possono avere i toni con gli odori.
Per ogni utensile, per ogni vaso, nella misura in cui possono essere considerati come valori estetici, la situazione è la stessa. Come pezzo di metallo, che può essere toccato e pesato, maneggiato e connesso all’ambiente, il vaso è una parte di realtà, mentre la sua forma artistica conduce un’esistenza nettamente separata, di cui la realtà materiale è soltanto il sostegno. Il vaso però, diversamente dal quadro o dalla statua, non è pensato in vista di una intangibilità e di una separazione insulare, ma deve adempiere ad uno scopo, anche se a volte soltanto in modo simbolico. Poiché, inoltre, viene maneggiato e inserito negli atti pratici della vita, si trova contemporaneamente in quei due mondi: infatti il momento della realtà nella pura opera d’arte è del tutto indifferente, per così dire consumato, ma rivendica dei diritti sul vaso, che viene maneggiato, riempito e vuotato, che si può porgere e collocare in diversi luoghi. È questa duplice posizione del vaso che si esprime in modo decisivo della sua ansa. L’ansa è la parte mediante la quale il vaso può essere preso, sollevato, inclinato, con essa il vaso si protende visibilmente nel mondo della realtà, cioè dei rapporti con tutto ciò che è al di fuori, rapporti che non esistono per l’opera d’arte come tale. Tuttavia non è soltanto il corpo del vaso che deve corrispondere contemporaneamente alle esigenze dell’arte: altrimenti le anse sarebbero dei semplici appigli, indifferenti nei confronti del loro valore estetico-formale, come i fori della cornice. Invece queste anse, che collegano il vaso all’esistenza al di là dell’arte e sono comprese contemporaneamente nella forma dell’arte, devono, in modo del tutto indifferente al loro fine pratico, legittimarsi come pure forme, costituendo con il corpo del vaso un’unica visione estetica. Per questo duplice significato e per la caratteristica chiarezza con cui si presenta, l’ansa diviene uno dei problemi estetici più degni di riflessione.
Il modo in cui la forma dell’ansa armonizza in sé i due mondi: il mondo esterno, la cui esigenza giunge al vaso con l’ansa, e la forma artistica che, senza tener conto del mondo esterno, rivendica l’ansa per sé, sembra essere il criterio inconscio della sua efficacia estetica. Cioè non solo l’ansa deve poter esercitare effettivamente la funzione pratica, ma deve anche metterla in evidenza con la sua forma visibile (Erscheinung). È quanto si verifica, in modo accentuato, nei casi in cui l’ansa viene saldata al vaso, in contrasto con quelli in cui appare formata con la sostanza del corpo del vaso attraverso un’unica fusione. Il primo processo di formazione pone in rilievo che l’ansa trae origine da un ordine esterno delle cose, dall’apporto di forze estranee, e fa risaltare il proprio significato derivante dalla pura forma artistica. Un tale intervallo fra il vaso e l’ansa si accentua con maggiore evidenza nei casi frequenti in cui l’ansa ha la forma del serpente, della lucertola o del drago. Questa forma rinvia a quel significato particolare dell’ansa a cui si fa riferimento, perché l’animale sembra essere strisciato dall’esterno fino al vaso ed essere stato incluso solo successivamente nella forma complessiva. Attraverso l’unità estetico-viva del vaso e dell’ansa opera ancora in questo caso l’appartenenza dell’ansa ad un ordine completamente diverso, da cui l’ansa ha tratto origine e che con l’ansa rivendica il vaso per sé. In assoluto contrasto con il caso descritto e con fortissima accentuazione della tendenza unitaria, alcuni vasi sembrano essere stati delle forme complete, la cui materia giungeva ininterrottamente fino alla loro periferia e dai quali solo successivamente è stata tolta una quantità di materia sufficiente a far sì che rimanessero le anse: l’esempio più perfetto sono alcuni vasi cinesi le cui anse sono state ricavate dal metallo freddo. L’inclusione nell’unità estetica si accentua tuttavia in modo più organico quando l’ansa sembra cresciuta con un trapasso ininterrotto dal corpo del vaso e sospinta dalle stesse forze che plasmano questo corpo, come le braccia dell’uomo che sono cresciute nello stesso processo unitario di organizzazione del torso e mediano nello stesso modo il rapporto di tutta l’entità con il mondo esterno.
Talvolta delle coppe vengono modellate in modo tale che con la loro ansa fanno l’effetto di una foglia con lo stelo; ci sono pervenuti bellissimi esemplari di queste coppe dell’antica civiltà dell’America centrale. L’unità della crescita organica collega qui le due parti in modo sensibile. Si è caratterizzato lo strumento come il prolungamento della mano o degli organi dell’uomo. In realtà, come per l’Anima la mano è uno strumento, anche per essa lo strumento è una mano. Il fatto che il carattere strumentale separi l’anima e la mano non impedisce l’unità intima con cui il processo della vita scorre attraverso di loro; proprio il fatto che siano distinte e, nello stesso tempo, compenetrate, costituisce Il segreto indivisibile della vita. Ma questo segreto supera l’estensione immediata del corpo e include in sé lo “strumento”; o, piuttosto, la sostanza estranea diviene strumento quando l’anima la trae nella propria vita, nell’ambito occupato dai suoi impulsi. La differenza fra ciò che è esterno e ciò che è interno all’anima è, nello stesso tempo, importante e irrilevante per il corpo; anche per le cose che si trovano al di là del corpo essa viene mantenuta e risolta con un solo atto, attraverso il grande motivo dello strumento, nella corrente della vita che trascorre unitaria. La coppa non è altro che il prolungamento e il potenziamento della mano che attinge e che porta. Ma, in quanto non viene semplicemente presa in mano, ma per l’ansa, sorge un ponte di comunicazione, un agile collegamento con la coppa che conduce quasi con visibile continuità l’impulso spirituale verso la coppa, verso la sua tattilitá e, nel rifluire di questa forza, la riconduce nell’ambito della vita dell’anima. Questo processo non può attuarsi con un simbolo più perfetto di quello che si presenta quando la coppa si sviluppa dall’ansa come la foglia dallo stelo: è come se l’uomo utilizzasse i canali attraverso cui scorre naturalmente la linfa tra lo stelo e la foglia per far affluire il proprio impulso nella cosa esterna e inserirla nella propria vita.
Ma l’impressione risulta spiacevole non appena uno dei due significati dell’ansa è trascurato a favore dell’altro nella forma visibile (Erscheinung). Con un esempio molto frequente: quando le anse sono soltanto un tipo di rilievo ornamentale e aderiscono al corpo del vaso senza alcuno spazio intermedio. Quando il fine dell’ansa, prendere e maneggiare il vaso, escluso mediante questa forma, nasce un senso penoso di assurdità e di costrizione, come se ad un uomo fossero state legate le braccia intorno al corpo; soltanto di rado la bellezza decorativa della forma (Erscheinung) può compensare il fatto che l’interna tendenza unitaria del vaso ha assorbito il suo rapporto con il mondo esterno. Come, dunque, La forma estetica non può divenire così arbitraria da smentire nella visione la finalità dell’ansa (anche quando questa finalità, come per il vaso ornamentale, non entra praticamente in questione), allo stesso modo nasce un’immagine sfavorevole quando la finalità è orientata in direzioni così diverse da distruggere l’unità dell’impressione. Ci sono vasi greci che hanno tre anse: due nel corpo del vaso, per poterlo prendere con tutte e due le mani e piegarlo da una parte o dall’altra, ed una nel collo del vaso, con l’aiuto della quale può essere inclinato da una sola parte. L’impressione decisamente spiacevole che si ricava da questi pezzi non è provocata né da un’offesa immediata alla visibilità, né da un’offesa alla prassi; infatti, perché un recipiente non dovrebbe essere inclinato in più direzioni? Mi sembra piuttosto che questa impressione risalga al fatto che i movimenti posti in questo sistema possono avere luogo soltanto uno dopo l’altro, mentre le anse si presentano contemporaneamente punte, perciò sorgono delle sensazioni di movimento del tutto confuse e contraddittorie; infatti, benché fra le esigenze della visibilità e quelle della prassi non vi sia, per così dire, una contraddizione primaria, tuttavia, mediatamente, l’unità della visione viene distrutta: questa presenta le anse, che sono, per così dire, dei movimenti potenziali in una contemporaneità che la loro attualizzazione pratica deve necessariamente smentire.
Questo esempio ci conduce all’altro errore estetico dell’ansa: alla sua eccessiva separazione dall’impressione unitaria del vaso. Per prendere in esame questo errore è necessario una via indiretta. La massima estraneità dell’ansa nei confronti del recipiente come totalità, la sua estrema designazione ad uno scopo pratico, è presente dovunque l’ansa non sia collegata rigidamente al corpo del recipiente, ma sia mobile; nella lingua del materiale ciò viene spesso accentuato mediante il fatto che l’ansa è di un materiale diverso di quello del recipiente. Ne risultano fenomeni combinati in modi diversi. In alcuni vasi e in alcune coppe greche l’ansa, rigidamente fissata al corpo del recipiente è formata con lo stesso materiale, ha il carattere di una larga striscia. Se, ciononostante, l’ansa mantiene una completa unità formale con il recipiente, l’effetto può essere molto felice. Il materiale di una striscia viene simboleggiato, in questo caso, con il suo peso, la sua consistenza, la sua flessibilità completamente diverse dal materiale del corpo del vaso. Con l’allusività di queste differenze il materiale della striscia indica sufficientemente l’appartenenza dell’ansa ad un’altra sfera dell’esistenza, mentre l’ansa, mediante la sua reale uguaglianza di materiale con il corpo del vaso, mantiene la connessione estetica dell’insieme. Ma il sottile e labile equilibrio fra le due esigenze rivolte all’ansa cessa con le più sfavorevoli conseguenze quando l’ansa fissa è in realtà dello stesso materiale del corpo del vaso, ma imita in modo naturalistico un altro materiale per accentuare con quest’apparenza (Erscheinung) diversa il suo senso particolare. Proprio fra i Giapponesi, che sono del resto i più grandi maestri dell’ansa, troviamo questa forma spiacevolissima: anse di porcellana fisse che si inarcano sul diametro del vaso e imitano con precisione le anse attorte e mobili della teiera. L’alta misura in cui l’ansa impone un mondo estraneo al senso indipendente del vaso diviene particolarmente evidente in un caso come questo, in cui il fine particolare dell’ansa costringe il materiale del vaso a presentare una superficie che gli è del tutto innaturale e che ha un carattere illusionistico. Come l’ansa che si è sviluppata aderendo al corpo del vaso, senza distanziarsene, porta all’eccesso la sua appartenenza al corpo del vaso a prezzo della sua funzionalità, l’ultima forma incorre nell’estremo opposto: l’ansa non può accentuare la sua distanza verso la rimanente parte del vaso tenendola in minor conto di quanto assume il materiale di questa parte e lo costringe a prendere l’aspetto di un cerchio del tutto eterogeneo, quasi imposto al vaso dall’esterno.
Il principio dell’ansa: essere il medium dell’opera d’arte con il mondo, medium che è tuttavia perfettamente compreso nell’opera d’arte, trova infine conferma del fatto che il suo pendant, l’apertura del recipiente del lato da cui si versa il liquido, dipende dallo stesso principio. Con l’ansa il mondo giunge al recipiente, con il becco il recipiente giunge al mondo. L’inserimento del recipiente della teleologia umana è perfetto solo quando il recipiente assuma con l’ansa la corrente di questa teleologia e con la propria apertura la ceda nuovamente ad essa. Proprio per il fatto che l’apertura proviene dal recipiente stesso, è più facile collegare organicamente con esso la sua forma (l’espressione becco o bocca, della quale l’ansa non presenta alcun pendant, indica già questa funzione di parte organica) e solo raramente compaiono in essa le degenerazioni naturali e insensate che riscontriamo nell’ansa. Che ansa e becco si corrispondono nella visione come estremi del diametro del recipiente e debbano mantenere un certo equilibrio, corrisponde ai ruoli, rispettivamente centripeto e centrifugo, con cui essi, delimitando in sé il recipiente, lo collegano al mondo. È come il rapporto dell’uomo, in quanto anima, con l’essere esterno a lui: attraverso la sensibilità, la corporeità giunge all’anima, attraverso le innervazioni della volontà l’anima si protende nel mondo del corpo, poiché entrambe appartengono all’anima e all’organicità della sua coscienza, che è l’Altro della corporeità e tuttavia, attraverso entrambe, è intrecciata ad essa.
È interesse di principio che le esigenze estetiche puramente formali rivolte all’ansa si realizzino quando i suoi significati simbolici, appartenere all’unità chiusa del vaso ed essere nello stesso tempo il punto d’appiglio di una teleologia del tutto esterna a questa forma, sono giunte all’armonia o all’equilibrio. Ciò non rientra nel mirabile dogma secondo il quale l’utilità decide della bellezza. Infatti si tratta proprio del fatto che l’utilità e la bellezza si rivolgono all’ansa come due lingue fra loro estranee, l’una proveniente dal mondo, l’altra dalla totalità formale del vaso: ora, per così dire, una bellezza di ordine più elevato le comprende e rivela in ultima istanza il loro dualismo come un’unità che non si può ulteriormente descrivere. Nell’arco delle sue due appartenenze l’ansa diviene un indice altamente significativo di questa bellezza, che ancora appena sfiorata dalla teoria dell’arte e per la quale ogni bellezza in un senso più ristretto è soltanto un elemento; quest’ultima viene compresa da quella bellezza, per così dire, metaestetica, con il complesso delle esigenze dell’idea e della vita, in una nuova forma sintetica. Una tale bellezza, che appartiene ad un’istanza superiore, è l’elemento decisivo per tutte le opere d’arte veramente grandi e il suo riconoscimento ci separa nel modo più ampio da ogni esteticità.
Accanto a questo sguardo vale forse la pena di darne un altro, per fornire di un fenomeno così poco appariscente un’interpretazione così ampia: bisogna considerare l’ampiezza dei rapporti simbolici, che si manifesta proprio nella loro validità anche per ciò che è insignificante in sé e per sé. Infatti si tratta, nientemeno, che della grande, umana e ideale antitesi e sintesi: un’entità appartiene assolutamente all’unità di un campo che la comprende e, nello stesso tempo, è rivendicata da un ordine delle cose completamente diverso, che le impone una finalità dalla quale la sua forma viene determinata, senza che questa forma risulti per questo meno inserita nella prima connessione, come se la seconda non esistesse affatto. Un numero straordinario di cerchi, politici, professionali, sociali, familiari, in cui ci troviamo, sono cinti da cerchi ulteriori, come il milieu pratico cinge il recipiente, in modo cioè che l’individuo, appartenente ad un cerchio più ristretto e chiuso, proprio con esso si protenda nel cerchio successivo e ne venga di volta in volta utilizzato, quando questo cerchio ha a che fare con il cerchio più ristretto e deve inserirlo nella propria più ampia teleologia. E come l’ansa, al di sopra della sua funzionalità per un compito pratico, non può spezzare l’unità formale del vaso, l’arte di vivere richiede da un individuo che egli mantenga il suo ruolo nella compatta organicità di un cerchio, divenendo contemporaneamente funzionale ai fini di un’unità più ampia e contribuendo attraverso tale funzionalità ad inserire il cerchio più ristretto in quello che lo circonda.
Non va diversamente con le nostre singole sfere di interessi. Nel conoscere, nel subordinarci ad esigenze morali o nel creare delle forme secondo norme oggettive, ci protendiamo con queste parti nostre o con queste nostre forze in ordini ideali che sono retti quasi da una logica interna e da un impulso a svilupparsi super-personale e prendono di volta in volta il complesso delle nostre energie, concentrato in quelle singole parti, per assumerlo in sé. Tutto dipende dal fatto che noi non lasciamo distruggere la compattezza del nostro essere, che ha in noi il proprio centro, e dal fatto che ogni singola capacità, ogni singola azione, ogni singolo dovere rimangono collegati all’ambito di questo essere, alla legge della sua unità, mentre essi appartengono contemporaneamente a quel al-di-fuori ideale e fanno di noi i punti di intersezione della sua teleologia. Forse è questa la formula della ricchezza di vita degli uomini e delle cose; infatti essa si basa sulla molteplicità della loro appartenenza reciproca, sulla contemporaneità di interno e di esterno, sul collegamento e la fusione da un lato, che è nello stesso tempo scioglimento, perché di fronte ad esso sta il collegamento e la fusione da un altro lato.
Che un elemento possa partecipare dell’autosufficienza di una connessione organica, come se si risolvesse completamente in essa, e, contemporaneamente, possa essere il ponte attraverso il quale una vita completamente diversa affluisce nella prima vita, il punto in cui la totalità dell’una comprende la totalità dell’altra, senza che una di esse venga distrutta, è uno degli aspetti più mirabili della comprensione e nella formazione del mondo da parte dell’uomo. Che questa categoria, che trova forse nell’ansa del vaso il suo simbolo più esteriore, ma proprio per questo più rivelatore della sua ampiezza, che questa categoria doni alla nostra vita una tale molteplicità di vita e di partecipazione alla vita, è il riflesso del destino della nostra anima, che ha la sua patria in due mondi. Infatti l’anima giunge al proprio compimento solo nella misura in cui appartiene completamente all’armonia di uno dei mondi, come parte necessaria di esso e perviene ai nessi e al senso dell’altro mediante, e non malgrado, la forma che questa appartenenza le impone; come fosse il braccio che un mondo, reale o ideale, protende per raggiungere l’altro e comprenderlo in sé e per farsi raggiungere e comprendere da esso.