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Il seme numero 265. Milica Zec e Winslow Turner Porter III tornano in Italia con Tree

Sono stati oltre trecento gli alberi di kapok germogliati, cresciuti e bruciati nel fine settimana di Internazionale a Ferrara 2018. Sono stati oltre trecento i semi affondati nel suolo umido della foresta del Perù e in un vaso pieno di terra in un igloo di plastica nel mezzo di Parco Massari, oltre trecento quelli usciti da lì in una bustina di carta come amuleto da taschino, piccole speranze da piantare. Trecento alberi maestosi, con i pappagalli sulle braccia e poi il fuoco intorno; odore di pioggia e legno arso, curiosità eccitata del guardarsi da dentro e spavento stranito del vedersi morire.

La prima italiana di Tree, il secondo capitolo della trilogia firmata da Milica Zec e Winslow Turner Porter III (New Reality Co.) promosso dalla Fondazione Pianoterra, torna a proporre un’esperienza immersiva nella vita stessa di quaggiù. Dopo Giant, una manciata di intensi minuti vissuti accanto ad una famiglia americana chiusa sottoterra, al riparo dalle bombe che cadono pochi metri più su invisibili e tuonanti come passi di un mostro, Tree sposta l’asticella più in alto: non più spettatore, il pubblico si fa soggetto della riflessione sullo scempio della natura grazie alla realtà virtuale.

Difficile essere efficaci nel raccontare una storia pure semplice, di fatto vedersi seme che progressivamente si fa strada nella terra e poi albero nella foresta, che sente il fresco del vento, i raggi del sole, l’odore umido e caldo, poi la notte e le stelle e il fumo dell’incendio, la deforestazione. Difficile perché Tree non passa per la mediazione del pensiero; né potrebbe, né dovrebbe. Scrisse Russell che fra i mali della nostra epoca sta l’affanno del pensiero preso a rincorrere vanamente la tecnica. Milica e Winslow sono fra coloro che paiono aver compreso come gabbare la fuggitiva: non c’è da fidarsi del pensiero per la rincorsa, piuttosto del sentimento e del suo slancio che copre lo svantaggio. Così si passa dalla parola scritta, fosse anche poesia o letteratura, al corpo. Così la vertigine del guardarsi svettare a settanta metri, così i piedi-radici bloccati, che nutrono prima, imprigionano poi, mancano infine, così l’avvicendarsi dell’euforia e la paura e la tristezza del disastro. Il pensiero arriva poi, con un ruolo diverso. Fissa e amplia, e si illumina con il paradosso e il suo gusto questo incorporarsi che passa per il freddo della tecnologia.

L’attrezzatura indossata – visore, controller, una station come uno zainetto che trasmette vibrazioni direttamente alla spina dorsale, in ogni senso, e in ogni senso consente il movimento del fusto dell’albero che siamo – c’è e però la si dimentica, grazie certo anche al raffinato lavoro di resa virtuale. L’unione di téchne e logos, di pratica e visione, che offre già quasi da sé una risposta all’incubo della sostituzione dell’umano sempre più urgente, libera la tecnologia dal sospetto di sfoggio edonistico e pure dalle resistenze verso una modernità ammiccante e si svela medium artistico pieno e legittimo, oltre che invito a considerare in profondità il rapporto fra l’attuale singolare e un sentire unitario, quasi animistico, sicuramente antico. Un albero virtuale che vive in un parco reale si attanaglia alla realtà sensibile tanto da renderne impossibile qualsivoglia negazione e la responsabilità che si sente per sé, attraverso Tree e le opere della migliore body art, consente e dunque obbliga alla soluzione.

Se in Giant la proposta era un’empatia tutta umana, con questo secondo lavoro la visuale si apre all’ecosistema, alla Terra tutta intera. Il seme nella sua bustina è memoria tangibile e atto possibile, per quanto simbolico, della consapevolezza e denuncia di una deforestazione che è morte per asfissia di un pianeta dai polmoni carbonizzati.

Con Breathe, l’ultimo capitolo della trilogia a cui lo studio sta lavorando collettivamente a Londra con il fine di presentarlo il prossimo anno, si indosserà l’esperienza dell’essere sopravvissuti. La copertina, mostrata in anteprima non al parco ma in uno di quei luoghi rigenerati – sopravvissuti e sopravviventi – di cui Ferrara va riempiendosi, hai il respiro del cosmo con la sua Via Lattea immensa e una figurina piccina che tocca una stella. Non è dato saperlo, ma la prospettiva del contatto tra il gelo siderale e la luce piccola e calda della nostra umanità, dell’essere corpo e corpo mortale, rende l’attesa piuttosto eccitante. Insieme, l’opera della New Reality, di Milica e Winslow, sembra un buon posto dove trovare da respirare.

 

 

Info http://www.treeofficial.com/

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