1. A cinque decenni dall’approvazione dello statuto dei lavoratori il mondo del lavoro è cambiato molto. In peggio purtroppo. Sono cambiate le occasioni e le condizioni di donne e uomini che ogni giorno cercano faticosamente di cucire le proprie esistenze sopra una storia e una possibilità che li inchioda sempre più alla flessibilità. Essi sono ormai “variabili dipendenti”, a livelli che sfiorano la schiavitù. La ricchezza del lavoro, le cui facce preziose sono messe a valore solo da chi le governa, ha bisogno di ridefinire esistenze, identità, scelte, conflitti, imposizioni e finte libertà, costruire rapporti di forza, produrre ribellioni consapevoli. Da questo punto di vista, anche le contraddizioni della “società dello spettacolo” possono e devono fare la loro parte, conflittualmente.
Difficile, per coloro che pongono questo rilievo, indicare punti esplicativi emblematici, campi del sapere e prospettive culturali durature. Spesso ci si limita ad evocare altra atmosfera cinematografica e sociale vissuta dall’Europa degli anni Settanta, quella dove le trasformazioni conflittuali dell’esistenza femminile, furono fotografate, anche perché vissute in corpore vili, dalla macchina da presa cupa e pur poetica di R.M. Fassbinder,o per altro verso dalle provocazioni taglienti e disperate di Salvatore Piscicelli. Oggi tutt’al più lo sguardo fotografico sarebbe interessato a romanzi veloci, sceneggiature icastiche, tese ad indagare, ad esempio, gli aspetti del binomio capitalismo-delinquenza organizzata. Qui un interesse continuato c’è, si muove tra «scrittura conflittuale», sguardo nella malavita e fiction drammatico-realistica, evidente registratore di cassa di una Napoli autolesiva, una città antica in grado di filtrare il “delinquente necessario delle donne”. Ma è proprio così? È proprio vero che esiste una grande difficoltà, un’attenzione alla guerra sociale che oscura l’emergenza della «violenza bisognosa»? Quella signora dolente e precaria, quella che ha perso prima di cominciare, quella che emerge dalle contraddizioni malavitose del conflitto di camorra, cosa può fare? Quella atomizzata e anestetizzata dalla famiglia, che chiede sussistenza e affermazione sociale, per cosa deve battersi? A questa interrogazione si può rispondere cinematograficamente solo se si è disponibili a iniziare un percorso con la Maria Capasso di Salvatore Piscicelli, nel senso che non tutti i registi che hanno realizzato film sulle donne (delinquenti per necessità) possono godere di una chiarezza adeguata. I loro film vanno un poco scavati e le loro analisi (a volte spietate) sono per molti versi appese alla sensibilità di cercatori di conflitti, realisti dello sguardo acuto, di narratori del mare aperto … Lo stesso Salvatore Piscicelli, tra l’altro, è a sua volta illuminato autore di film che hanno indagato e indagano la donna delinquente per bisogno! Maria è sposata con un operaio e ha tre figli, fa la manicure a mezzo tempo e vive in un’umile casa popolare alla periferia della città, ottenuta con un sotterfugio. Un nucleo familiare come tanti, parzialmente povero ma decoroso e, a dispetto di tutto, serenamente rassegnato al bisogno. Poi la malasorte si mette di traverso. Il marito si ammala in modo grave e nel giro di pochi mesi si spegne. Esistono influenze reciproche assai profonde tra le persone che si frequentano in senso positivo, ma anche negativo. Le ricerche parlano di “contagio sociale” per definire quanto le persone che frequentiamo siano fondamentali nel determinare le nostre abitudini e perfino i nostri livelli di felicità. Quindi, dobbiamo trovare il coraggio di spezzare i legami tossici, che sappiamo ci stanno facendo del male e di fare rete con persone che rafforzino la nostra voglia di crescita e di stare bene. La paura di non farcela, la convinzione di un immiserimento aggiuntivo, il fantasma dell’indigenza, scuote in Maria l’atteggiamento opposto: frequentare e buttarsi nei rapporti più pericolosi pur di reggere la cura del nucleo familiare. Maria non è di quelle che abbassano le armi: per i suoi figli, come ogni buona madre, è disposta a fare qualsiasi cosa. Ha 37 anni, è una femmina seducente, e ritrova in sé forza e abilità relazionale, per reagire e affrontare l’impossibile. Ben presto si trasforma nell’amante di Gennaro, ricco detentore di un autosalone, che intrattiene rapporti con la criminalità organizzata. Un giorno Gennaro le propone di trasportare un carico di cocaina da Napoli a una città della Svizzera, si tratta del primo passo per concretizzare la sua disperata arrampicata sociale. In maniera, quasi infinita, Maria dovrà dare altre prove di sé, altre abilità ed altri esami e collaudi, maggiori e bruschi indottrinamenti e pilotare fino in fondo il suo iter criminale, senza guardare in “faccia nessuno”. I due momenti topici del film sono Luisa Ranieri e la sceneggiatura. La Ranieri intende benissimo la donna che, dopo aver perso tutto, vuole risalire la piramide sociale, nonostante debba combattere contro il limite della propria onestà, trasportato sempre più lontano. La sceneggiatura, dal canto suo, ha una struttura ben sistemata, bilanciata e scorrevole, senza orpelli o riduzioni, andando dritto all’obiettivo. Fa da sfondo alla storia una Napoli senza artifici né sofisticazioni, bensì concreta ed esposta ai traffici di sempre. Vita segreta di Maria Capasso si rivela romanzo-film interessante, che non cade in luoghi comuni e neanche in eccessi, ma riesce a colpire nel segno, esponendo la disperazione di una donna che, abbandonata al suo destino anche da chi dovrebbe sostenerla, viene a patti con la propria integrità pur di arrivare ai propri obiettivi di dignitosa sopravvivenza. Il regista ha dichiarato: “Mi interessava riflettere su quella sorta di zona grigia, dove la criminalità organizzata intreccia rapporti con settori della più insospettabile società civile, e mi interessava farlo attraverso un personaggio femminile come cartina al tornasole per capire certe trasformazioni che sono intervenute negli ultimi anni, a Napoli e non solo”. Piscicelli ha scritto la sceneggiatura in collaborazione con Carla Apuzzo e ha curato anche il montaggio, in coppia con Marco Guelfi. Le scenografie sono state realizzate da Franz Prestieri, invece le musiche sono state composte da Manù Benedettini.
Se è vero che gli uomini esercitano attivamente e realisticamente il potere camorristico, d’altro canto senza il ruolo rappresentativo di Maria il solido retroterra urbano non direbbe niente dei vincoli criminal-endogamici. Nella rete della delinquenza organizzata, la struttura del comando ufficiale è in mano ai maschi, ma le maglie che legano i vari adepti si costituiscono attraverso le “donne senza scrupoli”. Le madri hanno la funzione di unire le famiglie in nodi di sussistenza strategica e bisognosa e, attraverso catastrofi esistenziali irrecuperabili, di legittimare i progetti di riscatto e la reciprocità fra le madri coraggio. Non è un caso se all’interno della potenziale cosca di Gennaro, amante di Maria nel film di Piscicelli, l’uso del suo stesso tratto di spericolatezza è ancora oggi diffuso e dominante. L’uso strumentale della famiglia da proteggere e da impiegare, quindi, non può prescindere da un ruolo, quello della donna, rimasto evanescente nel campo giudiziario, quanto in quello letterario. Interi settori del mercato criminale sono diretti da donne: lotto clandestino, usura, contrabbando, traffico di droga. In special modo con il traffico di droga le donne napoletane affinano le loro attività nel malaffare. Il caso più celebre è quello ripreso da Vittorio de Sica nel film “Ieri, oggi e domani”. Si tratta di una contrabbandiera che per non finire in galera fa figli a ripetizione. Impressionante è anche ciò che avvenne in occasione dell’arresto di Cosimo Di Lauro: centinaia di donne in prima fila contro le forze dell’ordine, ingaggiate in tafferugli e incidenti al fine di evitare l’azione punitiva. Sono tutte donne “forti”, che non accettano di essere relegate in casa a custodire la tradizione familiare. Sono donne non scolarizzate, che si sposano, si separano, hanno amanti e una vita sentimentale molto vivace. Anche Eduardo De Filippo ha sempre descritto nelle sue opere donne più forti degli uomini. D’altronde la vita nei quartieri a Napoli è eterogenea, più disponibile verso l’infedeltà e verso altre tendenze sessuali. Ma diventare l’amante di un camorrista per Maria è un’altra cosa, si tratta di una sorta di investimento sul futuro.
Maria è una donna proletaria “moderna”, che si trucca, si veste e si prepara secondo i canoni borghesi, ben lontana dallo stereotipo di casalinga tutta casa e famiglia. Invero Maria, dopo un matrimonio sfortunato, provenendo da una estrazione umile e indigente, si trasforma in figura reattiva e si cala nell’ambiguità criminale, ponendosi al servizio del proprio obiettivo. La donna di Gennaro non parla, esegue, sta in disparte, ma usa la sua spontanea affettività per soddisfare le necessità personali e familiari. Le mamme napoletane non cercano di salvare i propri figli dalle insidie della strada, ma spesso sono esse stesse ad incitare l’illecito, mentre invece Maria ha l’obiettivo di delinquere per necessità, per sussistere. Le mamme-delinquenti napoletane sono “donne di guai”, spesso per colpa loro si scatenano faide, uccisioni, vendette, per Maria niente di tutto questo, si tratta piuttosto di ereditare la responsabilità di salvarsi la vita e di portare avanti il nucleo familiare rimastogli. Le mamme delinquenti rappresentano delle vere e proprie matrone dell’illegalità: gestiscono il labile confine tra sopravvivenza della famiglia e necessità di farvi fronte con l’illegalità, mentre invece Maria nella sua performance cresce sul bisogno della tutela, della salvaguardia, dell’occasione di “sacrificio funzionale”. Si dice che le donne di camorra si pentano difficilmente, ed è vero; ma Maria agisce già pentita, partecipa alla guerra per svestirsi dalla recita della matrona militare e abbracciare il desiderio di una vita normale. Parlando di donne coraggiose, che hanno avuto la forza di staccarsi dalla “macchina mafiosa”, non possiamo dimenticare la mamma di Peppino Impastato, Felicia Bartolotta, che ha denunciato i suoi estorsori e per questo è finita sotto scorta. Così come va menzionata la sorella di un ammazzato nella faida di Secondigliano, che ha denunciato gli assassini del fratello e li ha fatti arrestare. Abbiamo, dunque, due mondi contrapposti e due modi di intendere e di vedere le questioni di camorra. Due frontiere diverse. Da un lato le donne di camorra, mogli, e sempre più spesso, vedove dei boss, che insegnano ai loro figli l’odio. Dall’altro le donne, le mogli, le compagne, le vedovi, le madri, le sorelle delle vittime innocenti della criminalità, le amanti (dark lady) che introiettano il delinquere segreto, avendo la speranza di dimenticare. La pratica giudiziaria e la cultura maschilista hanno nascosto fino a tempi recenti questa figura di Maria, da sempre relegata al proprio ruolo tradizionale di madre ed educatrice nell’immaginario comune. Invero, la Maria di Piscicelli, nasconde un profilo poliedrico a seconda delle esperienze di vita, del carattere e della rifunzionalizzazione di ruolo operata dalla cosca, in vista di nuove emergenze! Maria appare più attiva, ambigua e segreta, più nobile e più bisognosamente cialtrona.
A sostegno di questa tesi, differenti elementi probatori smentiscono una visione standard dei ruoli, categorie che per Maria sono concretezze ideologiche e stereotipate: un continuo “vesti e svesti” dai panni della delinquente, come se indossasse la divisa in una giornata di lavoro. Le Capasso delle società delinquenti vivono di trovate e di espedienti mascherati; non si fanno scrupoli di usare scaltrezza e prepotenza in assenza di un apparato statale inesistente e di risorse insufficienti. Il campo di azione economica di Maria va dalla concussione all’usura, alla prostituzione legittimata dal dovere di combattere la sua precarietà familiare: il contrabbando, il traffico di droga, la gestione dell’economia del benessere familiare sono la stessa cosa. Le qualità di Maria sarebbero un lascito del suo stato di segretezza, del suo ruolo di amante e di procacciatrice del pane per la sopravvivenza. Si tratta, a nostro avviso, di una trasfigurazione del nome, di una antropologia criminale della santificazione adultera, prima che di collaboratrice della delinquenza organizzata; una riambientazione partenopea del focolare domestico, come campo di conflitto. Tutto a vantaggio della spregiudicatezza femminile, della necessità di liberarsi di Gennaro, appena l’affiliato della camorra mette mano alla bellezza della prima figlia! E allora, il tessuto sociale iperdelinquente appare sfumato, frastagliato e tacitamente conflittuale dall’interno; qualificato da una grande disomogeneità che ci consegna una lettura diversa per ogni soggetto e per ogni quartiere, ogni città e ogni territorio urbano. Sempre più frequentemente “la Maria Capasso” che in questo momento è operativa a Napoli e dintorni, sono donne che usano la fama e la legittimità dei soggetti come Gennaro per superare i timori nella gestione della famiglia, di cui fanno un travaso tra funzioni lecite e illecite.
Ed è proprio il potere acquisito di essere le “amanti delinquenti” che fa ricadere su di loro quell’importanza e quell’onorabilità sociale delle sette segrete studiate da Georges Bataille e Roger Caillois (nel Collège de Sociologie) e nella continuazione delle prospettive di Acéphale. Che tipo di autorità, infatti, si può attribuire a Maria Capasso? Non certo quella di essere stata un soggetto dotata di potere interiore. Piuttosto, secondo Salvatore Piscicelli, quella di essere divenuta, in quanto messaggera del bisogno domestico, una incarnazione della “scaltrezza divina e biologica”. Maria ha combattuto una grossa guerra segreta contro il destino dei sottoproletari, che la vuole relegata alla sciagura sociale. Questa organizzazione criminale sui generis ha una forte rivalità con il brutto, con l’invischiato, con il destino biopolitico. A tal proposito, in un momento molto importante della sua esistenza, mentre il marito morente la abbandona, Maria dichiara apertamente guerra al destino con queste idee: “Se per segreto si intende tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quell’uomo che vuole sopraffare e delirare nella delinquenza, allora il percorso passa, inevitabilmente, attraverso il sacrificio”. Attorno alla “bella signora napoletana”, Piscicelli costruisce una figura psicologicamente complessa, in costante oscillazione fra poli opposti; tra l’essere eroico e la spinta a dover assurgere al benessere, tra un forte autocontrollo e una schizofrenia che si manifesta in reazioni determinate. Il malessere di Maria nasce dalla mancanza di punti di riferimento, ma soprattutto dall’essersi circondata di singole personalità votate all’alienazione, per le quali il denaro e l’agiatezza borghese sono gli unici appigli per affrontare un’esistenza che li vede segnati come falliti. Maria riesce a destreggiarsi con abilità in questo mondo che non è il suo mondo, ma che sarà il superamento del suo mondo. Appare come un protagonista fuori campo, almeno sino ad un punto centrale della vicenda: la custodia del segreto. Agli occhi di chi la circonda è una persona debole e influenzabile, eppure ha una razionalità calcolatrice, che nella pratica del malaffare la salva in ogni situazione, la rende scaltra e al contempo artefice degli eventi. Una vittima-carnefice, per la quale l’esistenza vale nella misura in cui debba assolvere ad una missione e la sua è una missione di sacrificio con custodia cautelare e porta il nome simbolico di Biologia della Bellezza, ossia l’unica arma che ha (o meglio, che vorrebbe fosse tale). È una spettatrice partecipe di se stessa e del suo stato di necessità, ma vive gli eventi con distacco emotivo, lasciando che tutto scorra secondo una logica prestabilita. È circondata da persone mute e, come gli dirà la prima figlia fissandola, dopo l’uccisione di Gennaro, laddove finiscono le parole rimane solo violenza occulta e da abbandonare. La violenza-segreta, il sacrificio sotteso che muove i fili della trama di questo romanzo-film, si regge su due principi: l’accettazione comune dello stato di necessità e il tornaconto riservato. Tutto ruota su questi due concetti, che si strutturano in un progetto molto preciso, cupamente biologico. Piscicelli ha i suoi schemi estremistici, che sembrano speculari ad una storia emblematica: c’è una missione, un obiettivo, ma per raggiungerlo è necessario affrontare molti ostacoli, eliminare molti nemici psicologici: “Trasporre un testo narrativo in un film implica trovare una chiave in termini di narratività e linguaggio cinematografico. Le possibilità sono molteplici, occorre scegliere e il fatto che sia tu l’autore del testo letterario non sempre aiuta. Romanzo e sceneggiatura sono forme di scrittura profondamente diverse, anche in termini di esperienza soggettiva. Scrivere un romanzo è un percorso eminentemente solitario; per una sceneggiatura ti puoi aprire più facilmente a collaborazioni esterne”. Da qui ne viene fuori un Piscicelli critico-creativo, previdente e affrancato da principi ideologici che ha racconto gli autori a cui era più legato e in maggior misura lo hanno influenzato; si veda: “L’imitazione della vita – Scritti di cinema 1970-2016”, presso Meltemi 2018. Per Piscicelli, la purificazione della famiglia proletaria è liberazione, pena da scontare per la madre e realtà dalla quale emanciparsi: “L’opzione, per me e per Carla, era chiara fin dall’inizio: si trattava di attenerci strettamente al nucleo essenziale della storia, eliminando sottotrame e personaggi minori di cui era ricco il romanzo. Avevo in mente i noir americani degli anni ‘50 (in particolare Fritz Lang), la loro asciuttezza narrativa, quella meravigliosa tecnica dell’ellissi narrativa. Dal noir deriva anche la figura tipica della dark lady, che qui si fonde nel personaggio di Maria Capasso, con uno degli archetipi fondanti dell’antropologia napoletana, e meridionale, quello della figura materna come centro regolatore dell’ordine naturale ed economico della famiglia. Dunque un film con una storia fortemente radicata nel contesto della città, ma anche un film fortemente caratterizzato in termini di genere.
Ho pensato fin dall’inizio a Luisa Ranieri e devo dire che l’intuizione si è rivelata giusta. Luisa ha amato da subito il personaggio e da subito ha sposato il progetto, e il suo sostegno è stato decisivo per mettere su il film. Sul set abbiamo lavorato in perfetta armonia”. Il sacrificio della Dark lady è l’atto stesso che segna il passaggio al benessere, alla migliore esistenza che, nel disperato tentativo di annientare quel male che soffoca e distrugge, vuole farsi giustiziere, non rendendosi conto che in realtà in niente si distingue dalla sua vittima, nei modi violenti e nella fame disperata di biologia e di affrancamento. Pur nella fantasiosa e maniacale storia di segretezza, la psicologia di questa Dark Lady nostrana è quanto di più terribilmente contemporaneo possa esistere. Questa trasfigurazione riporta persino ad attualità il tema dell’Italia come sotto-provincia dell’impero. Il senso di dispersione, il disperato tentativo di essere forti avvicinandosi a persone forti, sono un riflesso di una debolezza che colpisce la maggior parte delle madri, che si crogiolano nel desiderio di essere adulte godendo del loro status di ragazze. Agli occhi di Piscicelli e della concitata Carla Apuzzo (sceneggiatura), ad esempio, le adulte hanno l’idea comunemente accettata da tutti che bisogna agire per il proprio adattamento. Per raggiungere questo scopo è necessaria una selezione naturale basata sulla legge sociale del più forte e tale è solo chi sa comandare, chi sa mettere le mani sull’oro, il vero dio e tessitore delle maglie della società.
La società contemporanea è dominata dalle immagini e i loro contenuti hanno assunto una posizione di predominio tale da non porsi più problemi etici, sconfinando, in virtù della loro forza attrattiva, in contenuti aperti ad ogni forma di soggezione e manipolazione intellettuale. Questo paradigma dovrebbe stimolare un dialogo, ma finisce col porsi come specchio di una realtà che, per il fatto di essere concepita come fittizia, è divenuta terreno di rivendicazioni di una libertà biopolitica sin troppo abusata. Il problema è uno: l’esistenza viene presa come una moneta di scambio e di baratto ed è necessario conoscerne le regole. Non ci sarebbero problemi se non fosse che, chi detta tali regole, legittima qualsivoglia crimine, che sia verbale o fisico. ‘‘La vita di Maria” è semplicemente un neo-noir realistico e le vicende della protagonista appaiono sin troppo integrate e coriacee, strette da una loro applicazione nella realtà; una realtà che se pure fosse “corpo senz’anima” (1999, film con Roberto Herlitzka e Raffaella Ponzo) è un mondo altro, un’altra cultura, che appartiene a qualcun altro, a chi ha toccato con mano la forza della disperazione. Maria è una dark lady come tante altre; Maria ha represso i suoi valori ed è arrivata ad ammazzare o a trafficare in nome della biologia politica “autovalorizzante”, in forza di un senso di giustizia primitivo, per “amore di madre” o per pura necessità ella si bagna nelle stesse acque di “quel mare che non bagna Napoli” (A. Ortese).
Il realismo del XXI secolo non ci ha forse aperto gli occhi anche su queste realtà? La società, è fluidocratica, basata sull’instabilità relazionale e individuale, soggetta a rapidi mutamenti pilotati abilmente dalla magnetica diffusione del messaggio virale, strutturato in algoritmi. In una società così scivolosa, senza riferimenti stabili, la mente di una madre come può resistere? Quindi la sciagura che l’ha colpita va vista, nel contempo, come un castigo e come un segno di elezione e fa di lei una “vittima espiatoria”: Se l’insieme delle Madri – più semplicemente la loro esistenza integrale – s’incarnasse in una sola Maria Capasso, la testa della donna sarebbe il luogo di una lotta implacabile – e così violenta che presto o tardi volerebbe in pezzi. Poiché è difficile rendersi conto fino a quale grado di tempesta o di scatenamento arriverebbero le visioni di quest’incarnazione, simbiosi che dovrebbe vedere il male per trasformarlo in bene, poi divenire bene Ella stessa ma da sola per precipitarsi nella sorpresa finale della contraddizione della figlia. Un proverbio di William Blake dice che se altri non fossero stati scaltri, dovremmo inventare un nuovo volto di Maria o della madre! La scaltrezza della dark lady non può essere respinta fuori dall’integralità della Madre, che sarebbe incompleta senza la ragione protettrice e spericolata. Maria, diventando scaltra – al posto di nostra Madre – rende possibile questa integralità combattiva. La Dark Lady, con la sua esperienza tragica, ha semplificato solo in parte le cose alla famiglia. Infatti, dunque, dei figli – in questo caso della figlia – volesse davvero assumere fino in fondo la stessa responsabilità, si deve mostrare pronta a compiere la continuità del segreto. Se è vero che Gennaro si deve trasformare in vittima, in suicidato delle proprie regole e delle proprie necessità, se è vero che il compimento del suo destino richiede la sua morte – e di conseguenza se la scaltrezza e la morte hanno agli occhi di Maria, lo splendore dell’Occulto – l’amore stesso della vita domestica e del destino vuole che la Dark Lady commetta innanzitutto su di sé e sulla figlia quel crimine di protezione che si dovrà espiare tramite il segreto. Con la strana espressione “crimine di scaltrezza”, Salvatore Piscicelli intende forse rinviare al tema del sacrificio domestico, che costituisce uno dei nuclei essenziali della riflessione teorica del film. Il sacrificio della Madre (che ha come obiettivo la liberazione da Gennaro) implica la violazione di un interdetto, un blocco criminale che giunge alla liberazione della famiglia. Ciò vale a maggior ragione per le madri coraggio che grazie alla scaltrezza, sono ormai divenute coscienti del loro ruolo di uccisori e di uccisi: questo sacrificio che io stessa consumo si distingue dagli altri in ciò: la sacrificatrice stessa viene raggiunta dal colpo che infligge, soccombe e rivive assieme alla figlia. La figura femminile, pur agendo a fin di bene e fungendo da strumento di conversione del maschio, alla conclusione della storia, finisce col coincidere con l’immagine muliebre classica. Nella drammaturgia prevale, comunque, lo stereotipo della donna angelicata che, pur attratta dalle lusinghe della società urbana, rimane ancorata alla morale in cui è stata allevata e che coincide con quella della opportuna necessità. Pur trasmettendo principi etici fondati sulla sacralità della famiglia, la drammaticità della Dark Lady contribuisce parallelamente a mostrare stili di vita quasi sempre dettati dalla necessità. Rappresenta l’affacciarsi sul grande schermo di un modello muliebre inedito, che getta un ponte verso la stagione del “nuovo realismo algido e incisivo”.