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Il pittore della vita contemporanea: intervista a Carlo Colli

Senza scomodare per l’ennesima volta Benjamin, è ormai dato acquisito la futilità mimetica della Pittura, detronizzata all’uopo dai mezzi di riproduzione meccanici, freddi e speculari. Storicamente (e stoicamente) dipingere ha assunto dimensioni e interpretazioni pressoché infinite, pur perseverando un certo ancoraggio alla tecnica, continuando a non privarsi dello sposalizio tra supporto e Segno, tra carta e penna, tela e colore.

Il ruolo della pittoura oggi è il punto di partenza dal quale si dirama la ricerca di Carlo Colli; nato a Ribera (Sicilia) e cresciuto artisticamente a Firenze, dove tutt’ora è stabile, Colli ha sviluppato un interessante e indeterminato percorso molto vicino alla Minimal Art, per quanto la reinterpreti a propria immagine e somiglianza.

Luca Sposato. Partiamo da una considerazione: accademicamente parlando, la pittura non riveste più il compito di riprodurre il mondo esterno, mansione conquistata dalla fotografia. la tua indagine non possiede intenti di rappresentazione, ma ha una certa disciplina e struttura, suddivisa in lavori che hai ribattezzato Skin, Post, Re-compose, … programmatica, insomma, quasi come un fotografo.

Carlo Colli. La fotografia l’ho utilizzata in passato sia come sostegno alla realizzazione di alcune tele, sia come mezzo attivo, per l’appunto ho fatto dei Post fotografici, anche se non m’interessava affatto l’immagine: la ricerca che chiamo Post consiste nel piegare, rovinare la carta-supporto e successivamente marcarne le pieghe con linee pittoriche, esaltarne il difetto. Ho contribuito ad un progetto fotografico dove una modella di body painting posava di fronte ad una mia opera e recentemente ho esposto in una fiera insieme ad un fotografo (Luca Gilli, n.d.R.): probabilmente c’è un accordo estetico ma non intenzionale.

La morbidezza dei tuoi lavori, per quanto rigorosi nella loro serialità, ha un valore attraente, presumo venga da questo l’associazione con certa fotografia, andando “oltre” la realtà offrendo un’interpretazione del visibile.

Effettivamente una decina di anni fa, studiando un metodo di sintesi, mi attraevano le linee e le strisce tipiche del paesaggio urbano (sull’asfalto, sui cartelli…) anche nelle sue “macchie” naturali, infatti utilizzavo molto il verde e il nero minimizzando i colori. La serialità c’è, ma non è assolutamente meccanica, non è programmata, è legata alla mia percezione in un determinato momento, pure durante il lavoro, per esempio capita mentre eseguo un Post che focalizzo una soluzione per uno Skin, e così via, non c’è controllo assoluto, non è un lavoro “dettato”.

Questo richiamo al paesaggio mi rievoca la lettura di Rosenblum da Friedrich a Rothko, dando una continuità romantica a buona parte delle proposte astratte del novecento: se osserviamo una delle tue fonti d’ispirazione, la Minimal-art cui precetto era un’arte distaccata e non emozionale, il tuo percorso si distingue per la matrice più soggettiva, evidente nella maggior plasticità dei tuoi lavori e nella gestualità, come in Skin dove lo strappo ha, per quanto minima, una radice emotiva. ti definiresti romantico?

No! (ride, n.d.R.) Diciamo che la componente emotiva è imprescindibile per un pittore, che da sempre filtra la realtà, ma la mia intenzione è rivolta più all’atto pittorico, al suo linguaggio che non a quello che viene prima o che risulterà dopo: Skin vuol dire pelle, per l’appunto. Sì, molto è dovuto alle lezioni del prof. Cianchi M. all’Accademia di Firenze sul Minimal Americano, però sono ingredienti che si sono aggiunti al mio interrogarmi sul ruolo della Pittura oggi. Non ti nego, tuttavia, una riflessione sulla caducità dei tempi che viviamo; per questo voglio focalizzare l’attenzione ai particolari, ai dettagli, in tono più esistenzialista, perché la realtà non è come si vede. Mi piace affermare: «Ci ostiniamo a dipingere la realtà, quando la realtà è un dipinto»!

Potremmo dire un esistenzialismo più ontologico, in odor di Socrate, mentre la mia lettura vedeva un esistenzialismo più umanistico. qual è il tuo rapporto con l’”altro”, fuori dalla tua individualità e dalla tua opera?

Se ti riferisci al pubblico, ho avuto un graduale percorso di crescita, sia personale che professionale, dovendo esporre ed espormi! Le opere Re-compose sono studiate implicando un intervento esterno, dato che chiunque può allestire il pezzo o più pezzi a seconda della propria sensibilità: il mio intervento, come in Skin, è lo strappo, ma mentre in quella ricerca la rivelazione era il colore naturale della carta, occultato da una mano di pittura, in Re-compose si palesa lo strappo con la copertura dello scotch americano, non si vede ma si intuisce. Prolungando a piacimento la lunghezza dello scotch oltre il supporto, vengono fuori composizioni sempre diverse. Diversi galleristi e galleriste con cui ho lavorato e lavoro hanno offerto ciascuno la propria visione quando hanno esposto un Re-compose; ecco, se l’”Altro” è il gallerista, il rapporto è necessario non solo per un discorso economico ma soprattutto di arricchimento culturale, perché ognuno ha le proprie peculiarità: Leonardo C. (Poliart Contemporary, Milano, n.d.R) è principalmente storico dell’arte quindi mi dà un tipo di lettura, Paola S. (PaolaSosioContemporary Art, Milano n.d.R.) ha la sua particolare sensibilità verso forme essenziali e dimensioni caduche rarefatte, Piergiorgio F. e Meri M. (DieMauer – arte contemporanea, Prato, n.d.R.) sono collezionisti ed hanno un occhio raffinatissimo per gli allestimenti perciò mi offrono un punto di vista alternativo.

Non molti artisti comprendono l’importanza del “gioco di squadra”, anche se non è mai scontato trovare i giusti elementi soprattutto in un settore come il nostro dove, inevitabile, aleggia sempre lo spettro della vanità. Ritornando un momento al Minimal, distinguendoti, come detto, dal percorso di Judd, Stella, … e la compagine americana, trovo più similitudini, senza cascare assolutamente in un facile provincialismo, con ricerche nostrane rivedendoti in un Minimal più “caldo” ed energetico di Bruno Querci o nello spazialismo rizomatico di Mario Nigro.

Sono autori che non conoscevo all’inizio del mio percorso e non posso dire che mi abbiano influenzato; certamente ci possono essere delle similitudini, questo lo può vedere il critico o chi osserva. Loro comunque hanno avuto un loro trascorso e sviluppato una ricerca formale e concettuale propria, la mia è un’estetica della funzione, prende coscienza dal mio essere pittore e dal background della mia vita, in accordo o in antitesi, per esempio Post è una pittura “nomade”, non è ancorata al tempo e all’ambiente.

Concludiamo con un piccolo scorcio, o strappo se preferisci, sul futuro: progetti per quest’anno? Inoltre, visto che sei anche un’insegnante, mi puoi fare un commento sui ragazzi che vorrebbero diventare artisti?

Dunque, imminente è una personale nel Palazzo Libera di Villa Lagarina a Trento (dal 3 Febbraio, n.d.R.), poi entro la fine dell’anno dovrebbe uscire un catalogo sul mio lavoro, ma è ancora in progress. Sui ragazzi non so esattamente cosa verrà fuori, cosa diventeranno, dipende dall’educazione, da tante cose. Di sicuro vorrei evitassero di adagiarsi sugli allori, di non accontentarsi mai ed essere estremamente curiosi: l’artista è un esploratore, non si può fermare.

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