Forse non lo sai ma ho varcato il portone del Museo. Nella mia esistenza ho sempre visto le cinture dei muri del Panopticon come oggetti esclusi da ogni mio ragionamento. Non mi ha accompagnato nessuno. Sono arrivato da solo. A piedi con una borsa, grigina, capiente. Gli uscieri mi hanno accompagnato in silenzio. Nessuna domanda. Mi è stata assegnata una cella, par don una stanza delle meraviglie, e che meraviglie, diciamo così nel secondo piano. Vi si accede attraverso una quasi verticale scalinata metallica piuttosto consunta con le ringhiere lisce come la superficie dei binari delle ferrovie, porta dritta dritta dai Giardini agli Arsenali e dagli Uffici Amministrativi della Biennale ai Magazzini del Sale!Tutti gli artisti soffrono per la mancanza di finestre, voglio dire per la mancanza di un qualsiasi panorama; al posto dei panorami ci sono pareti bianche e poi ancora pareti bianche, in maniera che tanti artisti possono depositare le loro opere. Qualsiasi,purché si trovi oltre il perimetro esterno della sala espositiva. Io no. Ti dirò che mi piace così. E tu sai perché. Del resto nella Galleria privata, durante le mie mostre, chiudevo le imposte quando dovevo leggere o scrivere o ascoltare musica e dipingere. Solo la luce verde del faretto posizionato davanti alla macchina fotografica o quella smaltata delle luci di posizione negli angoli della sala accanto al lungo divano rosso. Quante volte sei stata performer, insieme a me, in quell’atmosfera verdolina tremolante. Qualche volta però, quando entravi in scena, spalancavi tutto e facevi bene; anche se ciò che veniva giù erano finte pareti che coprivano altri finti prosceni. Ma hai sempre saputo del mio amore per la luce del sole che si riflette sul silenzioso riposante verde dei boschi e che noi non vediamo mai e che noi non riusciamo mai a vedere, a guardare, a scorgere, a scrutare, magari a fotografare!
Esco all’aria più volentieri quando piove e quando per sei mesi all’anno sono segregato dentro al Museo. Indosso il mio impermeabile grigio-topo e il berretto con la visiera obliqua sul viso. E cammino nell’angusto quadrato del Panopticon. Solo, sotto gli occhi lontani dell’usciere di guardia che si ripara in alto nella garitta. Mi guarda per distrarsi perché certamente non teme che io voglia evadere da questa vernice!
Mi piace sentire i colpetti di tinta, di action painting sul mio corpo.
Il mio compagno di esilio è contento di me. Qualche volta vuole ascoltare un po’ della nostra musica e sentirsi meno legato alla compattezza di questi corridoi pieni di quadri e zeppi di installazioni sonore. Ha scoperto le coreografie. Gli riesco simpatico. Così non ha detto nulla quando gli ho proposto di organizzare la Galleria Centrale in modo che una diagonale del pavimento resti completamente vuota. Perciò quando mi sento sovraccarico di furie disfatte ho un certo spazio per andare avanti e indietro.
Nel primo pomeriggio, in un’aula misera del piano terra di un’Aladel Fabbricato, viene a fare performance una specie di secondino. E chiaro che io non ci vado. Non ci andrei comunque, neanche se fossi cieco. Di sera proiettano un film. Non ci vado neanche. Con la cuffia ascolto poesie sonore. Non dormo naturalmente, cioè secondo il ciclo naturale emetto suoni, emetto rumori, emetto distrazioni schizzose!
Ma ho corrotto una guardia giurata e mi faccio portare tranquillanti e sonniferi e così trovo grande sollievo specie quando mi gira la testa per le troppe proiezioni, per i troppi filmati raccoltidal mio cellulare, per le troppe poesie lette e recitate. Anzi quando la testa fa la trottola mi diverto a camminare come un fumatore d’oppio. Il mio compagno di Panopticon quando non dorme, nel semibuio mi segue in silenzio con gli occhi rivolti a tutte le pareti bianche, segue tutte le pareti lattee! Ogni lunedì, quando il Museo è chiuso al pubblico, egli si reca a colloquio con lo psicoanalista. Viene a trovarlo un Gallerista e un Mercante. Si fa raccontare tutto della sua istallazione e della sua Collezione e quindi allaccia fili nel suo cervello, descrive quadri di Renè Magritte, per tenersi pronto a vivere quando avrà finito di scontare gli anni di musealizzazione che gli restano. Io gli ho chiesto il piacere di non domandarmi nulla della mia vita artistica: qualunque cosa, ma non questo e mi ha accontentato e continua a farlo. Di lui so che è ammalato credo di cuore. Non ho voluto sapere i motivi per cui si trova segregato in un Moderno Museo, negli Ascensori di un Moderna Museet.
Ti dirò che il momento meno duro della giornata è il mattino. Mi sento intronato e riesco a leggere poesie ermetiche. Il resto della giornata non passa mai. Nell’ora d’aria, la segregazione si fa più pesante, qualche anziano artista mi si porta vicino e mi rivolge vaghe parole di conforto e ha ragione perché sa che se io voglio posso uscire dal Panopticon. Ma tante cose non immagina perché non è semplice come crede lui. Ti posso assicurare però che nessuno sa il vero motivo per cui sono dentro, dentro alle stanze vuote, sempre più dentro al Museo! Non so quale reazione avrebbero se sapessero. Forse apparirei ridicolo ai loro pensieri né mi sentirei di rispondere loro con alcuni gesti di un Happening, azioni adeguate alla mia situazione attuale, di Quel fantastico giovedì della Performance che non sto qui a scodellarti per non impaurirti. C’è tanta arte e ci sono tanti artisti, ed io sono tra questi, che non possono essere condannati dal tribunale perché, per il codice delle corrisponde, il performer di turno, non ha nulla a carico. Però sarebbe giusto che andasse in segregazione per espiare proprie colpe come per esempio l’omicidio premeditato della propria partner, durante una performance, durata poco e poi la scarsa compenetrazione nel pensiero di lei. Io ho letto le tue lettere ieri. Le leggevo anche quando il secondino me le consegnava e le capivo. Ma eri vicino a me e pensavo solo a te e ai tuoi occhi che immaginavano opere d’arte e non al contenuto di esse e ho sbagliato. E per questo sono qui ora.
“Ti ho cercato una vita”, scrivevi tra l’altro,”Erano le tue performance che io volevo trovare e le stanze della tua segregazione museale; adesso, sei, come, in un carcere, perfetto”.
Tu non sai nulla del mio breve processo e del processo del Signor K., tu non sai nulla del Codice Civile e del Codice Penale, non sai nulla della Legge, degli Atti di Controllo e dell’etica Giudiziaria dei Musei!
“Bene, l’imputato si alzi”.
Mi sono alzato per ascoltare.
Dietro di me c’era un pubblico seduto sopra lunghi banchi costruiti con legno ruvido. Non aveva un volto consueto il poeta. A posto degli occhi, del naso e della bocca solo pelle liscia. Ma non faceva impressione. Stava immobile e composto. Non lo giudicavo cattivo.
“Rispettabilissimo performer, criminale dell’happening e della poesia sonora, il codice penale non contempla reati del genere di quelli che lei ritiene siano tali e dovrebbe contemplarli … solo mettere insieme suoni sbagliati con immagini fisse, rumori con oggetti che non li rappresentano è un vero e proprio delitto, una menzogna, una falsità, come si è solito fare tra tutta la schiera dei fotografi arruffoni …”.
Il performer era ormai molto avanzato negli anni e malgrado indossasse l’abito da curator, con il gilet nero, non suggeriva sentimenti di solennità. Parlava con bonomia e con leggere soste sui fonemi.
“ … Il codice di Procedura Penale dell’Associazione delle Gallerie quindi resta lettera morta in questo caso. Siamo stati tutti meno vecchi di adesso e abbiamo sovente sbagliato ma senza mai raggiungere le contorte dimensioni che ha raggiunto lei. Ha portato anche delle difese in suo favore e sono state quasi interamente accolte: ma la somma algebrica del tutto scacchistico ha il segno negativo. Ad ogni modo abbiamo ritenuto opportuno affidare alla sua coscienza la pena che le sembra giusto espiare. Adesso rifletta. Esca dalla gabbia e si ritiri nell’ala espositiva numero 3, adiacente a questa e stabilisca la condanna di tutte le sue performance”.
La sala adiacente era immensa e il tavolo tarlato che accoglieva una persona nuda che indossava una maschera e un colombo appoggiato sulla stessa di un biliardo, ai miei occhi appariva come uno spazio di atterraggio per una grande installazione. C’erano anche delle sedie tarmate, provenienti da una esposizione di arte povera,ma non mi sono seduto. Sono entrato meccanicamente in quella sala. Non avevo nulla da affrontare, tutto era chiaramente stabilito e le pareti continuavano ad essere completamente vuote. Infatti sono ritornato subito davanti ai curatori.
“Voi, signori curatori, sapete che certi sentimenti estetici, certi stati d’animo possono durare una vita o un solo giorno. Magari il tempo sparuto o spaurito di una performance? Quando dentro di me si sarà tutto dileguato e rimarrà solo il sedimento di ciò che si è sviluppato dai fatti che vi ho reso noto e di cui sono stato un protagonista, chiederò di essere rimesso fuori da questo sputo di Panopticon. Desidero che dentro le mie presenti contorsioni maturino i perché di tanti avvenimenti operistici accaduti nel passato vicino che è allacciato anche con quello lontano. Vorrei tanto sin da ora poter avvertire i sintomi di disperazione che precedono la gioia gridata della poesia sonora. Nella nausea del vivere qualche volta appaiono come punti chiari che però si annullavano subito. Tuttavia quando fugacemente sorgono annunciano qualcosa che fa intravedere il desiderato tracollo nervoso. Badate bene, il museo ideato da Géraud Boursin, Nicolas Laugero Lasser e Éric Philippa sarà un luogo mobile e capiente, all’insegna della commercialità del segno e della performance semiotica urbana. Il cuore della sua offerta culturale? La Street Art o Urban Art che dir si voglia. Siamo a Parigi e siamo sulla Senna: vogliamo offrire ai visitatori una panoramica sull’arte urbana sfruttando tutte le sfaccettature del movimento attraverso mostre temporanee, tematiche e monografiche che presenteranno grandi nomi. D’altra parte, gli artisti della scena francese o internazionale avranno carta bianca per creare opere site specific in tutti gli spazi Fluctuart. Parigi è la capitale dell’arte urbana nel mondo. Oggi vogliamo credere nell’idea di un’arte per tutti. Questa ricerca di un’arte accessibile a tutti è iscritta nel DNA della Street Art, con artisti impegnati e in sintonia con il loro tempo e col le loro performance urbane”.
Uno dei popolari curatori mi fissava con distaccata ostilità e mi è rimasto impresso il suo naso adunco sopra labbra smaniose che riflettevano una coscienza da bottegaio. Per fortuna l’espressione degli altri curatori era molto umana. Ebbi l’impressione che mi comprendessero. Ma la cosa non m’interessava poi tanto e non feci questa considerazione con disprezzo o per mancare loro di rispetto. Fu solo un pensiero senza radici, nel vuoto, privo della minima spinta. Ma compresi, scrutando gli evanescenti, profili dei giudici e dei street artist ormai segregati in un Museo, che la strada che avevo intrapreso non era inutile ma assolutamente distruttiva per i graffitari. Afferrai pure, però, che l’intuizione stessa era inutile perché staccata completamente dai miei pensieri. Mi sentii, ma solo per poco, come uno che ha in mano la definizione ma la possibilità della sua attuazione. Sapevo che, nonostante la difficoltà di coagulare i miei pensieri, quella era la via giusta e ad ogni modo l’unica per me. Mi trovavo davanti ad un Museo sterminato da attraversare obbligatoriamente con nessuna alternativa se non con quella di dover rimanere sul desolante orlo per non esistere poi più nello spazio di pochi giorni. E’ facile suggerire traversate di Musei senza sfondo o pensarleall’interno di un territorio conservativo! Tanto, una volta che li attraversi tutto termina, tutto passa sugli schermi e tutto si accatasta dentro un invisibile algoritmo. E tanto facile giocare con la grafia, col disegno, con l’impostazione dell’immagine sullo schermo; è tanto facile perseguire la strada dello spettacolo, della performance, del distretto di arte urbana in un galleggiante sull’acqua; tanto,prima o poi, tutto casca nell’acqua! Ma chi è consapevole di quello che può significare una simile attraversata si sente già soffocare prima della partenza che non è di quelle che hanno un punto terminale anche se lontanissimo.
Una sera però esagerai o almeno il mio organismo non resse. Avevo disegnato dentro la mia mente una performance irrealizzabile. E pensavo alla spiaggia della Senna e alle tante lagune che si vedono dalla strada per arrivarci.
Siamo andati tante volte insieme in quei luoghi: gente con stivaloni china a raccogliere i frutti della Senna evoca tempi che mi tagliuzzavano le code dei topi. Barche nere con fondo piatto al posto di opere d’arte, canoe, motoscafi, strumenti inutili di imbarcazione e happening sarcastici si schernivano di me. Cascine lontane, come mezzo sommerse dall’acqua, mi dicevano addio senza pietà e parlavano ancora la lingua del dottor Semmelweis.
Mentre mi trascinavo avanti e indietro lungo la diagonale del recipiente Museale, caddi per terra secco e con la bava alla bocca. Una bava di carcerata angoscia. Due guardie carcerarie accorsero e mi alzarono. Le mie braccia vennero addossate sulle loro spalle. Le gambe quasi pendevano. L’ingresso era lungo, immenso e lo vedevo tremolante mentre mi sentivo trasportato. Ricordo come in un sogno da febbre che si accesero tutte le luci interne dell’edificio. Ricordo pure il tono della voce del mio compagno di cella:”addio …” pronunciando il mio nome. Fu una poesia sonora, una vaga piacevole percezione di suoni, una pausa della furia della Senna, una stroncatura di espressione, l’illustrazione di qualcosa che non gridava, non riusciva proprio ad emettere suoni. Io però non venivo trascinato lungo un corridoio ma lungo un viale campestre con erba alta e verde lungo i lati. In fondo al viale c’era un albero secco con tanti nudi rami di vario spessore e lunghezza. Un albero della paludi delle secche della Senna. Su uno dei suoi rami stava seduto un vecchissimo vescovo tutto vestito di rosso. Non riuscivo a distinguere il viso ma sapevo chi era. Era l’artista buono morto povero ai pargini di una strada perché voleva camminare sempre a piedi e solo.
“Te lo avevo sempre detto, artista mio …”
Parlava e performava con un tono stanco e buono appena percettibile.
Quasi un respiro.
“Te lo avevo sempre detto che ci vuole la parola nel cuore:ricordi?Ti dicevo sempre che le vicende giornaliere degli artisti ti avrebbero schiacciato. Ma tu avevi tanta fiducia in te stesso, nella tua arte. Hai visto?Cosa credevi fosse l’inferno? Quello delle prediche?Un pochino, solo un pochino potevi anche ascoltarmi”.
Volevo risponderti che ho avuto fiducia negli altri e in lei in modo particolare: Che mi sono sempre fidato anche se ho dovuto lottare per mantenere un po’ segreti, nascenti e incerti pensieri miei che poi avrei rivelato una volta avviato il processo di consolidamento. In ogni fase magmatica penso sia giusto mantenere una certa riservatezza.
Ma non ho avuto la forza di dirglielo o non ho voluto.
Continuavo a pensare ad una nitida giornata di sole e al fatto che avrei potuto in quei momenti in cui mi sentivo morire, trovarmi insieme al performer in qualche luogo del Museo per commentare i giochi dei raggi solari dentro le stanze, se tutto non fosse venuto a frantumarsi. Solo a questo pensavo.
I secondini pronunciavano calme parole di coraggio e uno di essi esclamò qualcosa che non compresi ma che mi fece malissimo.
Poi con dolcezza mi adagiarono sull’orlo di una cornice con la schiena appoggiata ad un chiodo gigante del secco albero senza più il curatore. Mi tornavano alla mente le poche passeggiate in diagonale e l’impermeabile verde-gomma che non sfuggiva ad una costante istallazione. Vedevo visi silenziosi che fuoriuscivano da sbarre di celle. Visi lunghi che sembravano ripresi dai massimi grandangolari. Sentivo dentro lo stomaco una fornace scoppiettante e nella testa un ronzio, un ripetersi di parole, una sequenza infinita di voci, di suoni, di echi, di segnali, di toni, di vibrazioni, insomma, di effetti acustici.
Cosa accadde poi? Onde e voci di dentro. Marosi e accenti di dentro! Onde sonore gigantesche mi provocavano davanti e si abbattevano poi dietro le mie spalle ed io rimanevo dentro la Galleria di esse e non mi bagnavo. Sapessi che sete!
Ora eccomi prigioniero – pensai – dentro un Panopticon dacquache è lungo quanto le coste del mondo. Ecco parte della sentenza che leggevo nell’espressione degli occhi dei giudici.
Sono cieco.
Lontano, sempre dentro l’arco del Museo, scorsi uno strano oggetto venire verso di me, tranquillamente. Una specie di automobilina delle sequenze cinematografiche. Guidava una donna trasparente ma visibile. Quando mi fu vicina si fermò per guardarmi sorridente. Un sorriso che bel conoscevo e in quell’istante simile a quello che si osserva nelle fotografie tirate anzitempo dalla vaschetta dello sviluppo rivelatore.
“Che fai qui?”, mi chiese.
Non riuscivo a dir nulla e la fissavo e aspettavo che continuasse a parlare ancora. Ma non parlava. L’acqua bianco-azzurra le dava, con i riflessi, dei contorni placidi. Poi le risposi?
“Cosa fai tu qui dentro? Tu puoi uscire dal Panopticon?”
“E perché no? Quando lo desidero”.
“E mi porti con te?”
“No. Perché tu non sei trasparente e invece io sì”.
“Non mi lasciare qui”.
Un piccolo fruscio di motore elettrico mosse il veicolo da pista automobilistica che prese ad allontanarsi lentamente. La friguratrasparente guardava davanti a sé e la vidi fino a che non scomparve dietro la curva del primo golfo.
La scultura sulla quale stavo seduto scompostamente, sotto la spinta dell’acqua che andava e tornava, si disperdeva procurandomi brulichii.