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“Il mio cuore è vuoto come lo specchio – episodio di Catania” – Intervista a Gian Maria Tosatti

La calda estate siciliana, contesto quest’anno ospitante la dodicesima edizione di Manifesta, ci immette in una fervida atmosfera culturale che, partendo dal capoluogo palermitano, si sviluppa in tutto il territorio insulare proponendo numerosi eventi collaterali. Esemplare è la mostra di Gian Maria Tosatti “Il mio cuore è vuoto come lo specchio – episodio di Catania” visibile presso Palazzo Biscari, a Catania, e a cura di Adele Ghirri, Ludovico Pratesi e Pietro Scammacca.

La splendida location barocca fa da contraltare al progetto ideato dall’artista e sviluppato in tutto il corpo della residenza – dallo scalone centrale ai tre grandi saloni d’ingresso passando per il monumentale Salone delle Feste – dando luogo nel visitatore a un corto circuito grazie al contrasto tra i magnificenti ambienti settecenteschi e le opere contemporanee caratterizzate da uno stile asciutto, proprio di chi vuole indurre a riflettere sulla realtà piuttosto che a farla contemplare.

Consapevole che il compito della sua arte sia quello di ritrarre il mondo attuale in modo fedele rivelandone anche le sue brutali verità, Gian Maria Tosatti (Roma, 1980 – vive e lavora a New York) indaga, da sempre, tematiche legate al sociale e, in particolare, al concetto d’identità, sia sul piano politico sia spirituale.

Nella sede di ‘unfold’, associazione no profit da cui è stato invitato per produrre un’opera site specific per l’edificio, Gian Maria concepisce la puntata pilota del progetto europeo “Il mio cuore è vuoto come lo specchio” che nei prossimi mesi coinvolgerà altre città focali come Riga.

Imperniata sulla definizione di “rifugiato” l’installazione si prefigge lo scopo di scardinare la convinzione secondo cui l’Europa è una confederazione di stati che convivono in modo pacifico ed in prosperità. Infatti, a fronte dei numerosi sbarchi di migranti che da sempre hanno visto il nostro territorio come una terra promessa e dei conseguenti contrasti che ne derivano, l’intero continente è divenuto sinonimo di instabilità politica, economica e, conseguentemente, culturale. Partendo da queste premesse il romano trasforma Palazzo Biscari in una vanitas di ciò che oggi è l’Europa ovvero una comunità di nazioni in macerie che nasconde i segni del suo declino tramite trucchi e belletti. Tosatti ci mostra questa dicotomia attraverso una messa in scena spettrale in bilico tra assenza e presenza, tra passato e futuro. Stanze buie e dismesse, illuminate da freddi neon e adorne di squallidi arredi domestici attendono, in un’atmosfera sospesa, l’arrivo di qualcuno che le renda ancora vive. Spazi da esperire rigorosamente individualmente poiché, come afferma l’artista, «Questo lavoro specifico richiede un atto di sincerità così intimo che la solitudine è l’unica condizione affinché ciò avvenga». Gli ornamenti, i quadri, e le decorazioni parietali barocche lasciano il posto ad un ambiente decadente ma sincero. Perfino il fasto degli stucchi del Salone delle Feste cede il posto ad una sala oscura dove un candido velo ricopre come polvere le ricche suppellettili in attesa di una futura rinascita. Un lavoro che comunica per via della sua autenticità e che accompagna l’utente in un viaggio solitario il cui inizio coincide con l’ingresso in un nuovo monumentale romanzo visivo.

 

Per approfondire ho intervistato l’artista Gian Maria Tosatti.

 

Maila Buglioni: “Il mio cuore è vuoto come lo specchio – episodio di Catania” è un titolo molto impegnativo in quanto deriva dal film “Il Settimo Sigillo” (1957) di Ingmar Bergman, presentato in concorso al 10º Festival di Cannes s’aggiudicòil Premio Speciale della Giuria ad ex aequo con “I dannati di Varsavia” di Andrzej Wajda. Un’opera cinematografica ambientata nei secoli bui del Medioevo che invita lo spettatore a riflettere su questioni escatologiche comerapporto tra l’uomo e l’onnipotente e la caducità della vitaattraverso un percorso che porta il protagonista a confrontarsi con la paura e la disperazione degli uomini di fronte alla morte, un timore che è anche sinonimo della mancanza di fede.Secondo un’interpretazione il messaggio del film è che la fede vince anche la morte, che è anche il messaggiooriginario dell’Apocalisse. Quali sono stati i motivi che ti hanno spinto a scegliere, e quindi utilizzare, questa pellicola come punto di partenza per l’esposizione? Cosa ti ha ispirato?

Gian Maria Tosatti: Non so se il messaggio del film di Bergman sia che la fede vince anche la morte. Non so esattamente cosa sia la fede. E penso che soltanto la vita possa vincere la morte. E spesso rifletto anche sul fatto che la morte non debba essere vinta né combattuta. Forse dobbiamo solo semplicemente non aiutarla.Ma è un gioco di ruoli, non una contrapposizione. Gli uomini fanno parte di coloro che servono la vita. La morte è parte del gioco, è necessaria e va accettata come emissario del destino di questa perfetta struttura a orologeria che è il creato. Personalmente non ho scelto di partire dal film di Bergman per il mio percorso, quanto piuttosto da questa breve confessione che il protagonista fa, appunto, alla morte. La ricerca della verità è difficile. E quel che si trova spesso non è ciò che si vuole. Cerchiamo a volte i colpevoli e ci troviamo coinvolti. Cerchiamo ideali e ci scopriamo vuoti. Quando s’intraprende un percorso di ricerca, come quello del cavaliere Antonius Blok o come quello che mi accingo ad iniziare io, bisogna cominciare da una constatazione di sincerità: io non ho niente da dire agli altri, io non sono migliore degli altri, non ho niente da insegnare, ma forse posso testimoniare ciò che vedo con fedeltà. E allora non c’è bisogno di avere il cuore pieno di ispirazione. Forse basta scomparire, farsi specchi, aperti verso gli altri come una bocca.

M.B.: La mostra “Il mio cuore è vuoto come lo specchio – episodio di Catania” ha il privilegio di essereospitata a Palazzo Biscari, una delle residenze barocche più in vista della Sicilia, grazie all’invito ricevuto dall’associazione no profit ‘unfold’ che si prefigge di invitare ogni anno (tu sei il primo) artisti italiani ed internazionali a produrre opere site specific presso luoghi d’interesse storico-artistici presenti sull’isola con lo scopo di tracciare una topografia innovativa del territorio ospitante spronando così l’ingegno del creativo coinvolto.Solitamente le tue installazioni sono ospitate in luoghi dismessi cosìda evocare una memoria storica mentre qui l’architettura e la funzione dell’edificio sono ben definite. Come ti sei rapportato con tale contesto e secondo quali principi hai elaborato il progetto espositivo?

G.M.T.: Non c’è alcuna differenza tra un edificio abbandonato e degradato e uno che conserva ancora stucchi dorature e arredi settecenteschi, difesi da una costante manutenzione e dal restauro. Le decorazioni fatte dai grandi artisti siciliani della ricostruzione non sono meno preziose dei muschi che, a volte, divorano le pareti di vecchie fabbriche creando, a loro volta, panorami o arazzi. Tratto tutto con lo stesso religioso rispetto. In entrambe le circostanze vedo lo stesso artigiano operare, il tempo, con la sua intelligenza superiore. Qualunque sia lo spazio, cerco di fare una sola cosa: lo interrogo. Provo a istituire un dialogo. Mi faccio raccontare quello che sa, quello che ha imparato dagli uomini che lo hanno attraversato. Lo spazio allora diventa una superficie di risonanze, una dimensione fitta di echi, e così cessa di essere spazio e diventa un’altra cosa che ci chiama in causa perché ci parla una lingua umana.

M.B.: Nel titolo dell’esposizione è contenuta una premessa ovverol’intento di proseguire il progetto, qui per la prima volta messo in atto, attraverso una sorta di pellegrinaggio europeo tra le macerie della Storia moderna, le cui ombre si dilungano fino al presente, ed i germogli di un tempo nuovo verso una Nuova Storia. In questo modo la tua arte diventa lo spartiacque tra la civiltà delpassato e quella del futuro, tra le vecchie e stantie strutture del capitalismo e del colonialismo ed i nuovi organismi che germoglieranno apportando avveniristiche trasformazioni. Puoi spiegarci in che cosa consiste tale progetto?

G.M.T.: Il progetto è un sempliceviaggio per raccontare scenari che chiedono di essere osservati nella loro verità. Viviamo in un momento molto particolare della storia umana. Forse per questo siamo privilegiati. Forse, come avrebbe detto Brecht, siamo più sventurati. L’Europa è al collasso non differentemente dalla Germania che ci raccontò Céline nella sua ultima trilogia. Andiamo avanti con un misto di incoscienza ed euforia macinando morti dentro e fuori le frontiere. Il confine meridionale a est è il mattatoio dei curdi, quello a ovest degli africani che prendono la via delle acque. A settentrione, lungo il canale della Manica la Francia restituisce la paura dell’uomo bianco. A Est la Russia erode la nostra democrazia. Non sono certo novità, lo leggiamo sui giornali. Ma non dobbiamo confondere il giornalismo con la letteratura, la cronaca con l’arte. Quest’ultima, se anche insiste sugli stessi temi, serve a far affondare la conoscenza al livello della coscienza. E’solo da quel punto lì che si comincia davvero a prendere posizione e, forse, a cambiare le cose. Ma da qui in poi l’arte non c’entra più nulla. La palla ripassa agli individui o ai corpi sociali. L’arte è un momento di passaggio.Un attimo di lucidità nel pensiero collettivo. Ecco, il progetto che sto iniziando non vuol essere altro che questo, un grande affresco sul presente, che ci renda questo tempo storico, tanto complesso, leggibile anche solo per un istante.

M.B.: Il tuo ultimo ciclo di opere èispirato all’ultima trilogia di romanzi del franceseLouis-Ferdinand Céline(Courbevoie, 1864 – Meudon, 1961)–rielaborazione letterario di un viaggio effettuato dall’autorenella ormai decadente Germania nazista tra il 1944 e il 1945 –incentrato sui temi dell’esilio, della fuga, della crudeltà, dell’odio furente, della paura della guerra e della morte. Prendendo spunto da questo componimento narrativo ti sei proposto, in quanto artista impegnato a realizzare un’arte di tipo sociale, l’obiettivo di rivelare la verità nascosta dietro qualsiasi trucco ovvero di aprire gli occhi del pubblico di fronte alla realtà attuale. Quali sono le tue aspettative? Credi che l’utente riuscirà a cogliere il tuo intento?

G.M.T.: Il mio obiettivo è quello di creare qualche piccolo spostamento nel linguaggio e nella rappresentazione. Il modo in cui rappresentiamo i problemi costituisce, spesso, larga parte del problema stesso. Qualche mese fa ho tenuto una conferenza al Lincoln Center di New York sulla questione focale di questa mia opera catanese, ovverosia la strage dei migranti nel Mediterraneo. C’erano altri relatori. Tutti parlavano dei rifugiati e dei loro problemi. Io ho parlato alla fine. Ho chiesto scusa a tutti, ma ho detto che mi sembrava che l’intero discorso da noi affrontato fosse prigioniero della lingua. Ho ricordato che un giorno Kounellis mi disse che tutte le guerre si combattono sulla lingua. Ed è vero. I rifugiati esistono nel momento in cui noi li chiamiamo così. E facendolo gli togliamo identità, li rendiamo “altri da noi”, li rendiamo persone provenienti da un altrove oscuro che in realtà non esiste. I paesi da cui provengono i cosiddetti rifugiati, sono governati da noi da oltre tre secoli, direttamente o indirettamente. In poche parole sono casa nostra. Quindi chi oggi affronta il Mediterraneo sui barconi si sposta in realtà da un’Europa non-ufficiale (solo perché abbiamo smesso di chiamare gli imperi col loro nome) adun’Europa ufficiale. Insomma la verità è che non vengono da un altrove. Vengono da qui, dal nostro granaio, a volte, e per questo sono nostri fratelli. La parola rifugiato allora è impropria. Come improprie sono altre parole che abbiamo usato non tanto per definire, quanto per legittimare dei soprusi del passato. Sempre in quella conferenza sostenni che l’uso della parola “schiavo”–in America assai significativa e delicata – è stata un grande errore, perché ha legittimato l’esistenza della schiavitù, ha dato corpo ad una figura che non esiste, ha impresso nelle menti dei bianchi e dei neri l’idea che potesse esistere uno schiavo e, dunque, che qualcuno potesse arrendersi al destino che quel termine delineava. Ma nessun uomo è schiavo. Aver costruito quella parola e averla usata – attivamente o passivamente – è un crimine che ci ha coinvolti tutti. Usare parole come questeè un gesto politico atto a reclamare un diritto verso altri esseri umani che è un abuso. Tornando a quelli che noi chiamiamo rifugiati, vorrei dire che nella lingua persiana la parola che si usa per definire queste persone è ‘PanahJou’, la cui traduzione letterale non del tutto perfetta è “cercatori di felicità”. Ecco, questa è la rappresentazione. Pensiamo ora a queste due definizioni. La prima fa pensare a degli “abusivi”venuti da chissà dove ad invadere le nostre terre. La seconda ci rende questi ultimi immediatamente fratelli, perché ognuno di noi, nella vita è un cercatore di felicità. Sembrerà una piccola cosa, ma la realtà del mondo e il modo in cui lo governiamo, dipendono molto dal modo dalla rappresentazione che ne diamo. Perché essa è la forma in cui rendiamo i problemi leggibili, conoscibili, affrontabili. Ecco, se le mie immagini potessero in qualche modo correggere la traiettoria di alcune rappresentazioni della realtà, anche per un solo uomo, allora ne sarebbe valsa la pena.

M.B.: Catania è solo il punto di partenza. Puoi svelarci quali saranno le prossime tappe europee che vedranno protagonista il progetto “Il mio cuore è vuoto come lo specchio” ?

G.M.T.: Il 6 settembre inaugurerà a Riga, in Lettonia, il secondo episodio di questo ciclo. Sarà in una ex fabbrica sovietica. Ci sposteremo dal confine meridionale del Mediterraneo a quello settentrionale del Baltico. Due climi, anche umani, completamente diversi. Ma nella sostanza nelle due opere si respirerà lo stesso senso di scomparsa. A Riga in modo ancora più crudo e commovente che a Catania, con decine di letti vuoti, di corpi svaniti nel nulla. Più avanti mi sposterò in Ucraina. Poi l’obiettivo è dedicare una tappa alla Turchia e una ad Israele.

M.B.: Il progetto sarà rielaborato in ogni tappa che lo ospiteràassecondando sia le esigenze di tipo allestitivo-logistico sia quelle relative alla memoria storica della singola cittàcosì da arricchire il ciclo di opere prodotte nel corso del tour ?

G.M.T.: Ogni opera seguirà la successiva come i capitoli di un grande romanzo visivo. In ognicittà affronteremo il modo in cui questa deriva Europea ha raccolto lì i resti di un naufragio che credo sia già avvenuto.

 

Il mio cuore è vuoto come lo specchio – episodio di Catania

a cura di Adele Ghirri, Ludovico Pratesi, Pietro Scammacca

fino al 18 agosto 2018

Palazzo Biscari

Via Museo Biscari, 10 – 95131 –Catania

orario: lun-sab 10:00-13:00 ; 16:00-20:00 (domenica su prenotazione)

ingresso a pagamento: € 8 intero – €5 studenti – gratuito per i minori di 14 anni.

info: tel. +39 095 7152508

https://www.un-fold.org| info@palazzobiscari.com

Ufficio Stampa

Valentina Lucia Barbagallo

press@un-fold.org| +39 349 8471800

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