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home Notiziario Il Gallery HOTEL Art di Firenze riapre con la mostra MY LIGHTS & SHADOWS di Alan Gelati.

Il Gallery HOTEL Art di Firenze riapre con la mostra MY LIGHTS & SHADOWS di Alan Gelati.

My Ligths and Shadows, questo il titolo della mostra, è un percorso che si dipana all’interno delle sale dell’Gallery Hotel Art di Firenze, trattando l’ambiente come un insieme di cui l’arte è un tassello che muta lo spazio architettonico stimolando la percezione dei visitatori.

L’arte contemporanea sta vivendo una fase di grande consapevolezza rispetto al suo potenziale comunicativo. Non solo per il contributo centrale degli artisti in termini di sperimentazione e ricerca, ma anche per tutto quel complesso di attività curatoriali e organizzative che letteralmente costruiscono il sistema dell’arte. Il mezzo attraverso cui si trasforma concretamente l’ambiente.

La capacità del sistema di operare attraverso le forme di espressione più attuali, è diventata talmente evoluta, conscia di sé che sembra si sia in una fase di piena fioritura.

In questo processo di affermazione del contemporaneo, un contributo è dato da tutti quegli operatori che non sono necessariamente riconducibili a centri di studio, o enti di cultura tradizionali, ma che diventano essi stessi diffusori dei linguaggi dell’arte, in una sorta di mecenatismo illuminato e nuovo, del quale ormai si è recepita la funzione di sostegno a un sistema, di cui il mercato è una parte con ambizioni virtuose e logiche culturalmente rilevanti. E’ il caso del lavoro che sta facendo da alcuni anni il Gallery Hotel Art di Firenze, parte della Lungarno Colletion della storica famiglia Ferragamo. Parliamo di un modello di progettazione integrata, che mette insieme le funzioni di un’azienda con un metodo di fruizione non convenzionale dell’arte. Che diventa un’esperienza complessiva, in questo caso di tutta l’eccellenza italiana: la storia, l’arte, l’architettura, il design, il cibo, la manifattura, e la cura degli ospiti persino.

In questo processo si crea una continuità fra il dentro degli spazi, destinati a vario titolo alle attività dell’Hotel, che contestualmente si fanno sale espositive; gli esterni del complesso architettonico, costantemente interessati da interventi artistici di alto profilo; e l’ambiente cittadino, in cui le opere site specific di volta in volta si rivolgono in modo dialettico ai capolavori del rinascimento fiorentino.

In questa circostanza vogliamo concentrare la nostra attenzione sul lavoro di Alan Gelati, con cui riapre la stagione dell’Art Gallery Hotel dopo la lunga interruzione delle attività espositive nel periodo precedente.

La mostra è curata da Valentina Ciarallo, che da anni si occupa di questo tipo di progettazione complessa. Con l’entusiasmo di coinvolgere differenti attori, delle istituzioni e del mercato, che si fanno letteralmente vettori di cultura, in una offerta elegante, bilanciata, intelligente. E dove l’architettura e i luoghi storici, in questo specifico caso, sono attivati da operazioni artistiche in un concetto unitario. Che non solo ne permette una fruizione immersiva, ma consente di rigenerare la storia di cui sono portatori, attraverso i linguaggi del presente, e di offrirli rinnovati a un pubblico ampio. Ne avevamo precedentemente parlato a proposito di HDRA’ a Palazzo Fiano in San Lorenzo in Lucina, per il lavoro alla Nuvola di Fuksas, mentre attualmente è impegnata su un lavoro di Arthur Duff per il Giro d’Italia 2022. Per questo lavoro ha collaborato con Mario Rescio, fondatore di WIB Milano, agenzia che rappresenta artisti e si occupa di produzioni creative su scala internazionale..

Ora, Alan Gelati, personalità di spicco nel mondo della fotografia, nasce a Milano, ma si forma a Londra negli anni ’90, dove si impone come fotografo di moda, diventando ben presto uno dei rappresentanti di quel mood di fine millennio, denominato in modo orecchiabile e divertente: “Cool Britain!”. Ma che in realtà si snoda intorno a tutti i fermenti dell’arte e della creatività, in una fase di espansione esponenziale, che fanno dell’Inghilterra un’avanguardia imprescindibile per chiunque volesse operare nel settore.

La correlazione diretta col fenomeno della moda, esclusivamente come aspetto del consumo, del piacere e dell’industria, potrebbe in qualche modo nascondere, o oscurare tutti i riferimenti culturali che fanno di questo artista l’erede di una tradizione con un’aurea mitica. My Ligths and Shadows, questo il titolo della mostra di Firenze, è un percorso che si dipana all’interno delle sale, trattando l’ambiente come un insieme, di cui l’arte è un tassello che muta lo spazio architettonico, stimolando la percezione dei visitatori. Già dalla copertina scelta per introdurre l’intero lavoro, due mani in primissimo piano che mimano una forma organica, è facile comprendere alcuni elementi, che consistono nella particolare relazione che lega il medium fotografico a quello della scultura.

A tal proposito diventa necessario riprendere il lavoro di Roxana Marcoci, curatrice del MOMA – Museum of Modern Art di New York, che con il suo testo: The original Copy, Photography of Sculpture, 1839 to today, ricostruisce proprio questa linea di sviluppo della pratica artistica negli ultimi due secoli e mezzo.

Scultura e fotografia si danno forma reciprocamente. Perché la fotografia non è solo un medium di documentazione, ma anche di interpretazione e analisi critica dell’oggetto. E proprio prendendo questa strada, è possibile ravvedere un collegamento fra il lavoro di Gelati e eminenti personalità della storia dell’arte, che furono scultori ma anche fotografi, e viceversa. In un rovesciarsi di paradigmi, in cui il nesso è diretto, e spesso consapevolmente vissuto e operato.

August Rodin si è servito proprio della fotografia in funzione di bozzetto. E la foto ha svolto un lavoro interpretativo, da affiancare all’opera plastica, per artisti come Medardo Rosso o Constantin Brancusi. Per finire con il il grande fotografo americano, morto nel 1989, Robert Mappeltorphe che dichiarò in uno statement memorabile: “Se fossi nato prima, almeno di 200 anni, probabilmente sarei uno scultore. La fotografia, però, è un modo veloce per vedere e scolpire

Le similitudini fra le due discipline sono molteplici, per quanto una lavori nella tridimensionalità e una nella bidimensionalità. Eppure il corpo nella immagine fotografica, così come nella scultura, viene trattato attraverso lo scorcio, la luce, il contrasto, il modo in cui si compone e dispone nello spazio. In questo senso la foto si trasforma in scultura e la scultura può farsi immagine. Nei lavori di Gelati il bianco e nero, lo sfondo neutro servono ad esaltare il primo piano dei corpi. Le linee circoscrivono volumi essenziali, in un nodo di forze continuo, e dove la pelle sembra assumere la consistenza di una superficie marmorea, proprio quando, di converso, la superficie del marmo prova a imitare il calore della carne, di un’anatomia viva, con una propria forza.

Ancora, la capacità di Gelati di individuare una radice prima, che si serve anche dell’allusione all’ideale classicamente inteso, per astrarlo, è tale, da trasformare alcune sue serie fotografiche in opere che, per certi versi, possono essere affiancate a un altro grande della storia della scultura moderna. Un uomo laterale, nascosto, ma che è un fondamentale del novecento italiano. Parliamo di Alberto Viani, che con la sua Cariatide, del 1951, ha posto un’opera fondamentale.

Viani fu leale al mondo dell’idea, all’indagine del particolare per accedere all’universale. La liquidità delle sue forme biomorfe, sembra, per via di alcune impressioni, riversarsi in certi lavori di Alan Gelati. Il quale a sua volta riesce, con una capriola – tipica della frenesia della modernità, ma in perfetto controllo di sé -, a passare con continuità fra soggetti diversi. Con uno sguardo unico e coerente, anche quando si dedica al ritratto. Tanto che alcuni suoi scatti, involontariamente o meno, sembrano rispecchiarsi in certi ritratti del pieno rinascimento fiorentino. E nei suoi volti vediamo degli odierni Agnolo Doni, o Elisabetta Gonzaga, o un Guidobaldo Da Montefeltro tutti custoditi al Museo degli Uffizi. Che altri non sono se non le celebrità di un’epoca che ci guarda specularmente, con la stessa funzione interrogativa sul nostro presente.

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