Questo commento al Padiglione Italia è pubblicato sul n.273 di Segno. Per correttezza verso il lettore, bisogna dire che esso segue un discorso più ampio che interessa tutta la Biennale di Venezia, criticata nel suo complesso non in modo positivo dalla sottoscritta. Sempre per correttezza, quando questo pezzo è stato scritto a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra, i soli commenti al Padiglione, perlopiù di stampa generalista, erano tutti pressoché positivi, anche se la maggioranza descrittivi, assenti quelli della stampa specializzata. Che dire? un imbarazzante silenzio è piombato sul Padiglione Italia, per fortuna sciolto nelle successive settimane da colleghi e amici di altre testate che hanno preso una posizione netta e affatto accomodante similmente alla mia. Ancora, l’incipit dell’articolo si riferisce al fatto che, in tutta la disamina sulla Biennale, ho sempre cercato di analizzare il tutto senza farmi mai giudice che boccia o promuove cosa che, nel caso del Padiglione Italia mi è stato veramente impossibile fare. Così la citazione di A.B.O.si riferisce a un più ampio discorso sul ruolo della critica oggi. Aggiungo anche che, essendo la carta uno spazio limitato, ci sarebbero state molte altre cose da affrontare oltre al cattivo uso della letteratura, non ultima la questione economica che, a mio parere, meriterebbe una riflessione seria. Spesso molte scelte sono indirizzate dagli sponsor a scapito della qualità ma è anche vero che in ballo qui ci sono soldi pubblici, pertanto è doveroso pretendere serietà da chi ci rappresenta a livello internazionale. Buona lettura!
“Sono spiacente, ma in questo caso mi è proprio impossibile non farmi giudice. Per correttezza, ad avere commentato questo padiglione positivamente sono stati in tanti. Io, purtroppo, non lo farò, a cominciare dal titolo Né altra né questa: la sfida al labirintoe dal troppo e in malo modo spesso sfruttato Italo Calvino. Il saggio La sfida del Labirinto, tanto per essere precisi, appare per la prima volta nel Menabò 5, Torino, Einaudi 1962 (ripubblicato in Italo Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980) e invita il lettore al necessario confronto con la complessità della realtà affrancandosi da visioni semplicistiche del mondo. Un’idea, fra l’altro abbastanza leopardiana che non vede nel limite estremo dell’uomo un freno alla sua immaginazione. Fin qui potrebbe andare tutto bene ma è nelle dichiarazioni stesse del curatore, Milovan Farronato rilasciate a più network e riviste a lasciarmi in prima battuta perplessa: “Mi piacerebbe che il visitatore perdesse il senso del tempo e il tempo diventasse dilatato, che ci possano essere più punti di vista e più prospettive, per vedere magari anche le stesse opere”. Non sono un’esperta di letteratura ma per quel poco che ci capisco non credo proprio che Calvino intendesse suggerire di vivere un’esperienza fisica di dilatazione del tempo, tantomeno esperire concretamente il concetto di labirinto. Sicché nel fastidio provato nel perdersi nella proposta di Farronato sono finita con lo smarrire l’attenzione per le opere di tre bravi artisti: Enrico David, Liliana Moro e Chiara Fumai (scomparsa nell’agosto 2017) uscendo con una visione molto semplicistica del loro lavoro, dunque il contrario di quanto espresso da Calvino. La situazione, a mio parere, peggiora ancora quando, nel testo che accompagna la mostra si legge: “Non esiste il perdersi…ma solo il tornare sui propri passi: ed è legittimo: regredire non significa peggiorare”. Probabilmente ricorderò male – mi riprometto di fare un ripassino – eppure la mia memoria mi dice che ne Le città invisibili, ovvero quando Calvino riprende il concetto di labirinto, egli inviti spesso il lettore al perdersi (perdersi per riflettere) usando un linguaggio che, seppure attraversato da inganno, non si fa mai illudere dalle apparenze. Gli artisti sono molto diversi fra loro, mi chiedo dove, fosse la necessità di un progetto curatoriale volto a una visione omogenea quando era sufficiente l’ispirazione calviana che vede il labirinto come uno spazio metaforico, psichico e intimo. Spazi che i tre artisti singolarmente sono perfettamente in grado di raccontare, ma che in questo eccesso di narcisismo hanno finito con il perdere quell’aurea magica che li accompagna. E, a subire maggiormente questo svuotamento d’intensità, purtroppo è proprio Chiara Fumai, la cui potenza del lavoro pare allinearsi a un tutto indefinito. In definitiva, questo spazio non è sia fisico sia semantico come si attendeva Farronato, ma è solo e purtroppo prettamente e superficialmente fisico. Sicché, il padiglione del 2017 proposto da Cecelia Alemanni con i lavori di Adelita Husni-Bey, Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi paradossalmente mi pare raccontare molto meglio l’idea calviniana di labirinto.
Photo Credits Roberto Sala
(PS: Se all’epoca di A.B.O. erano i critici a sovrastare gli artisti, ora lo sono definitivamente i curatori. Tuttavia c’è ancora spazio per critici e curatori per prendersi veramente cura dell’arte e non solo di se stessi).
BIENNALE ARTE 2019
58. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE
Fino al 24 novembre 2019