Sponge ArteContemporanea inaugura la sua Nona stagione espositiva – IL NUMERO PERFETTO con HenHouse, un progetto di Mattia Pajè a cura di Stefano Volpato. Otto gli artisti partecipanti – Mimì Enna, Marco Casella, Marcello Tedesco, Irene Fenara, Daniele Pulze, Francesca Bertazzoni, Filippo Marzocchi, Giuseppe De Mattia – oltre allo stesso Pajè che si compenetrano e si giustappongono, con le loro perspicuità, agli spazi di Casa Sponge generando un onirico corto-circuito. Hen House scompagina i più tradizionali canoni curatoriali ed allestitivi e dispiega la propria architettura in una duplice e straniante impaginazione.
In occasione di Hen House abbiamo intervistato Mattia Pajè.
Qual è l’input che dà l’avvio ad un progetto così eterodosso come Hen House? Hen house nasce da alcune riflessioni sulla configurazione della pratica artistica e dall’esplorazione. Quando Giovanni Gaggia mi ha invitato a effettuare un sopralluogo negli spazi di Casa Sponge ho volontariamente deciso di raggiungere il casolare a piedi, per rendermi conto del contesto in cui si inseriva. Campagne, campi coltivati, contadini, stalle, pollai, cani che abbaiano in lontananza, questa le prime percezioni visive e sonore del luogo. Giunto a destinazione, ho voluto esplorare il territorio circostante alla casa: la collina con la quercia, il giardino curato, una pianta di fico d’india, il granaio con il trattore, il pollaio…Il pollaio, un’architettura radicale e radicata nel paesaggio, si ergeva dopo un sentierino scosceso sotto Casa Sponge. Galline, galli, conigli, gazze, corvi e piccioni la abitavano, componevano l’ecosistema dello spazio, erano i veri abitanti del luogo, erano solenni ed ingabbiati. Franco Gaggia, il padre di Giovanni, è architetto e costruttore degli spazi del pollaio, composti di materiale povero: reti metalliche, legno, lamiere. Evidentemente costruita su uno spazio residuo, l’architettura del pollaio è viva, in costante ridefinizione e ricostruzione con una sola funzione apparente: accogliere e contenere le vite di pennuti e conigli. Esplorando il pollaio mi sono reso conto che negli intervalli che intercorrevano tra gli spazi pieni e vuoti e tra gli spazi coperti e scoperti si costruiva un ritmo architettonico perfetto per ospitare una mostra collettiva. Così unendo l’intento di tentare di introdurre gli abitanti del pollaio alla fruizione di una mostra e l’estrema fascinazione per l’architettura estrema del luogo ho deciso di chiedere a 8 artisti di partecipare ad un’esposizione nel pollaio. Ho pensato che la mostra collettiva non dovesse essere visitabile da un pubblico umano, ad eccezione di Franco Gaggia che entra giornalmente nel pollaio per foraggiare gli animali. La mostra sarebbe stata documentata da un video, unica opera accessibile ai visitatori umani, installato negli spazi di Casa Sponge. L’operazione nasce da alcune riflessioni sulla produzione di senso nella ricerca del senso della pratica artistica contemporanea e si fonda sulla possibilità di definire un concetto di utilità o inutilità rispetto alle produzioni artistiche.
Una mostra collettiva dentro una mostra personale. Hen-House come scatola cinese. Come si struttura l’architettura della mostra e come si compenetrano le opere con gli spazi di Sponge?Quando un singolo artista viene invitato ad intervenire in uno spazio e a organizzare una mostra la terminologia vuole che l’operazione si chiami personale, ma quando l’operazione è la costruzione di una mostra collettiva si tende a perdere il filo del discorso. Hen House è una mostra personale negli spazi interni di casa sponge, ma è anche una mostra collettiva nel pollaio; la prima è fruibile esclusivamente dal pubblico umano, la seconda esclusivamente dal pubblico animale. È un’operazione che si colloca al bordo della definizione e parte dall’idea che si possa fare della propria pratica artistica un uso diverso, creando occasioni per includerne altre, attivando delle situazioni espositive. Sia la mostra collettiva che la mostra personale sono in potenza indipendenti, ma dipendenti in atto. Non esisterebbe il video Hen House senza la mostra nel pollaio, così come la mostra nel pollaio non potrebbe essere fruita dagli esseri umani senza il video Hen House.
Può parlarci degli interventi degli otto artisti partecipanti e di come questi si relazionino col suo lavoro video? Gli otto artisti sono stati invitati a produrre un’ opera senza nessun vincolo concettuale, sono stati informati del contesto in cui esse dovevano essere inserite e della struttura dell’operazione. Ogni artista ha lavorato seguendo le proprie modalità di azione e di creazione, adattando il proprio lavoro all’ambiente del pollaio.
“La collettiva Hen-House nel pollaio di Casa sponge è aperta dal banner di Marco Casella al suo ingresso, che richiama la dimensione simbolica propria dello spazio espositivo, luogo appunto di allegorie e di sogni. Nell’interpretazione prosaica e popolare della figura della gallina in chiave onirica, racimolata tra credenze e siti web, essa prefigura con i suoi svariati atteggiamenti quelli della comunità umana, in tutta la sua svolazzante e caotica limitatezza.
Mimì Enna, con un’operazione del tutto affine alle proprie delocazioni, ribadisce il processo di antropizzazione degli inquilini del pollaio, affiggendo locandine di film e cortometraggi aventi come protagonisti proprio galline, conigli e piccioni. Gli animali riflettono sé stessi nell’esilarante condizione dei protagonisti di Chi ha incastrato Roger Rabbit?, ma anche nell’inquietante cortometraggio La vielle dame et les pigeons, in cui è invece il personaggio umano a trasformarsi in piccione.
Le fotografie dall’archivio NASA trasformano le gabbie di gazza e corvo in navicelle spaziali all’interno delle quali gli uccelli volano e si appoggiano in ogni punto, abbattendo apparentemente la forza di gravità. Irene Fenara analizza ancora una volta un’esperienza solo concettualmente possibile: il termine di confronto di un punto di vista soggettivo è la dimensione spaesante, sublime del cosmo, o outer space, semanticamente vicino al leftover space da cui muove Hen-House.
Dimensione cosmica esplicita anche nel monolite nero di Mattia Pajè: simbolo totemico che, sulla scia di Kubrick, ambiguamente accomuna umano ed animale. Nel celebre 2001: Odissea nello spazio, infatti, scimmie e sapiens sono infatti congiunti da un atto fondativo violento – la celebre dissolvenza tra l’osso scagliato in aria, appena utilizzato per fracassare il cranio di un rivale, e la modernissima struttura della stazione spaziale Discovery.
È la perizia tecnica ad impedire la prevaricazione di una delle due forze contrapposte nel lavoro di Marcello Tedesco, in cui la base di cemento resiste alla corrosione delle cristallizzazioni saline: l’armonia formale si fonda sul conflitto latente, nascosto, ribadita dall’erudito simbolo dell’uovo, il cui materiale nobile tuttavia immediatamente contrasta con la sua prosaica collocazione in un pollaio.
Daniele Pulze riverbera il caleidoscopico gioco di piani tra personale e collettiva iniziato in Casa Sponge. Un’immagine scopertamente commerciale, idealmente rivolta alle galline, presa a piè pari dal sito di e-commerce cinese Alibaba, ripropone l’estetica di bassissima qualità e la mercificazione estrema che pervade la montante influenza consumista del gigante asiatico.
Un ready-made simile ad un uovo, allestito con della paglia al fine di accogliere comodamente fa il verso all’omonimo orinatoio, 99 anni dopo – marcando una distanza. Non più solamente da oggetto a intenzione, Francesca Bertazzoni suggerisce come oggi sia il fruitore a sostanziare il lavoro, accettando – in modo più o meno consapevole – di entrare in relazione non solo con un oggetto, ma con un processo creativo. Una sottile ironia informa anche l’intervento di Giuseppe De Mattia. Becchime, tela e fuliggine, carta copiativa chiamano a un ideale coinvolgimento il pubblico, prendendo sul serio l’invito a concepire un lavoro per il pollaio. Le tracce lasciate da zampe e becco sulle tele opportunamente predisposte indagano, in un paradossale divertissment, i temi dell’interazione, del caso, dell’automatismo.
Filippo Marzocchi si porta invece ad un ideale grado zero: la sua ricerca oscillante tra azioni di pittura di riduzione e operazioni documentative, in particolare circa la fisicità sonora dello spazio, trova sintesi qui in un monocromo bianco. Si presta a raccogliere i dati dell’ambiente circostante e di un processo innescato, misurandosi con la sua stessa evoluzione e deperibilità, ed allo stesso tempo mette alla prova l’intenzionalità del gesto artistico, la sua natura intuitiva e pre-razionale.”
Così il curatore del progetto, Stefano Volpato, introduce le opere degli artisti invitati a partecipare alla collettiva nel pollaio. Tale momento espositivo, come dicevo nella precedente risposta, si colloca in un serrato dialogo, in un rapporto quasi di dipendenza con l’opera in mostra all’interno dello spazio di Casa Sponge, ma, allo stesso tempo, Il video, che può essere fruito comodamente seduti sul divano del salotto, sancisce una distanza materiale tra i due momenti. Il video documenta un’azione compiuta in un altro spazio e in un altro tempo, ma che rimane potenzialmente contemporanea per chi la osserva, non potendo verificare di persona lo stato delle cose.
Una mostra unica nel suo genere richiede una fruizione anch’essa unica nel suo genere. Come si relaziona lo spettatore con Hen-House? Il pubblico umano ha accesso solo al video Hen House, un montaggio di una serie di clip registrate all’interno della mostra collettiva subito dopo l’installazione. Nel video si vedono le nove opere in sequenza intervallate da scene di vita quotidiana degli animali e in alcuni casi si colgono le interazioni degli animali con le opere. Il video è installato in una piccola televisione nel salotto di casa sponge, ed è l’unico pezzo che compone la mostra personale. Gli spazi del pollaio sono completamente inaccessibili per il pubblico umano. Qualche visitatore della mostra, mosso da irrefrenabile curiosità, si è spinto oltre le strade asfaltate per avventurarsi nel sentiero e sbirciare le opere visibili dall’esterno del pollaio, ovviamente non senza sprofondare nella fanghiglia che circonda l’area.
Mattia Pajè, quali sono i suoi prossimi progetti? Il progetto più impegnativo a cui sto lavorando è l’attivazione di uno spazio espositivo e polifunzionale dedicato alla ricerca e all’esposizione nell’ambito delle arti contemporanee. Lo spazio, battezzato Gelateria Sogni di Ghiaccio, si trova a Bologna ed è stato inaugurato nel mese di ottobre 2016. Animato assieme ai miei colleghi Filippo Marzocchi e Marco Casella, Gelateria sogni di Ghiaccio accoglie oltre a diverse situazioni espositive pubbliche, anche momenti di confronto e di studio organizzati con artisti locali. In futuro ospiterà diversi eventi di entità diversa dedicati alla ricerca nell’ambito dell’ arte contemporanea, della sua definizione e delle sue possibili modalità di presentazione. Parallelamente sto lavorando alla pubblicazione di un testo che raccoglie una quarantina di interviste fatte a diversi giovani artisti italiani in cui il fulcro del dialogo è la ricerca della definizione di utilità rispetto all’arte contemporanea, della costruzione del senso attorno al produrre, dell’ individuazione del ruolo dell’artista nella contemporaneità. Oltre a questi e molti altri progetti in corso, di nascosto, dipingo.