Quando ho conosciuto Lucia e Umberto ero ancora rigidamente accademico. Pensavo all’arte e all’attività critica come due momenti connessi in un un percorso unitario ma in qualche modo divergente, che solo le grandi teorie erano in grado di unificare e rendere sensato. Il nostro compito (il compito di quelli che allora venivano chiamati “giovani critici”), pensavo, era far scendere quelle grandi teorie sulle singole opere, inserendole, quando lo meritavano, in una connessione amplissima. Per me, figlio di uno scultore, Rosario, la metafora era chiara: le teorie dovevano “sublimare”, scomparendo poi come “cera persa” nelle concrete forme critiche (saggi, recensioni, ecc.) che avevano determinato.
Retrospettivamente, mi rendo conto che non ero in grado di capire che vivere nell’arte è anche qualche altra cosa. Bisogna essere cresciuti, per capirlo. Appresi frammenti di questo altro sapere da un maestro straordinario come mio padre. Ma scomparve troppo presto, io ero un ragazzo e ancora non mi occupavo d’arte. Retrospettivamente, mi rendo conto che la lezione più importante, su questo versante, fu quella di Lucia.
L’arte è fatta dagli artisti. L’arte è fatta anche o soprattutto di emotività, di notti insonni, di sciocchezze lanciate nell’agone pubblico per poi magari pentirsene quasi subito. L’arte non è solo freddo linguaggio né solo linguaggio oltranzista, calore bianco e/o sapienza riposta. L’arte è fatta da donne e da uomini. L’arte ha a che fare con l’energia, con la paura, con la velleità, con la timidezza e con ogni altro sentimento umano.
Quante volte, in automobile, spesso di notte, in giro per mostre o in vacanza, mentre Umberto al solito fumava e guidava, abbiamo commentato vita, miracoli e opere di quel famoso artista o di quell’altra, giovane e sconosciuta! Tu, Umberto, la mia ragazza e io, ciascuno con le sue parole e le sue opinioni, beninteso. Ma concordavamo, in fondo. Eravamo d’accordo sull’essenziale (lo dico con le mie parole, non posso far altro): l’implicazione utopica presente in molte imprese artistiche è giungere a un luogo privilegiato, sospeso fra attitudine artistica ed esperienza vitale; un luogo in cui finalmente poter essere-qui senza pentimenti, rimorsi né falsa coscienza; un luogo che nel suo immacolato essere-presente rinvii simultaneamente a un Altrove, a uno sconfinamento, a una promessa. Non è (solo) aggiunta probabilmente entropica a un mondo già inflazionato di semiosi: è sguardo, tenerezza, rabbia, emozione.
Arte come vita, vita come arte. Anzi: Vitartevita. (Non a caso, l’ultima volta che abbiamo parlato insieme davanti a un pubblico, hai affascinato le studentesse raccontando del “tuo” Beuys, dell’esperienza del vivere e dell’Utopia).
Ti ringrazio, Lucia.