Sono gli anni Sessanta: gaudenti, ma rivoluzionari, conformisti ed irrequieti, pregni dello spirito di cambiamento, di innovazione, di trasformazioni estetiche, degli stili di vita, dei metodi di partecipazione politica. Sono gli anni in cui l’arte sposa, con entusiasmo, forme di comunicazione di massa, abbandonando i soli circuiti elitari. Sono gli anni della Pop Art, che vede la sua massima espressione nella Biennale di Venezia del 1964 durante la quale a Raushenberg viene assegnato il Gran Premio Internazionale, determinando il trionfo dell’arte americana su quella europea e soprattutto determinando sostanziali mutamenti nel sistema e nello statuto dell’arte.
Tali influenze si ripercuotono anche sulle ricerche degli italiani, alcuni dei quali prendon parte, nello stesso anno, proprio alla XXXII Esposizione Internazionale.
Tra questi vi è Giosetta Fioroni, esponente della “Pop romana” – come Franco Angeli, Tano Festa, Titina Maselli, Mario Schifano – e ben presto protagonista dello scenario artistico italiano.
Se nel 2012 Fioroni è invitata ad esporre alcuni video d’artista, legati alla cinematografia sperimentale, dalla Fondazione Rocco Guglielmo nell’ambito de Lo sguardo Espanso presso il Complesso Monumentale del San Giovanni di Catanzaro; a celebrare la produzione dei primi anni di attività, che l’hanno portata ad essere a tutt’oggi uno degli artisti di spicco in Italia, è la recente personale Giosetta Fioroni e la Roma anni ’60, inaugurata al Museo MARCA.
A cura di Marco Meneguzzo, Piero Mascitti ed Elettra Bottazzi dell’Archivio Fioroni, la mostra propone una selezione di settanta opere tra bozzetti e pitture, che vanno dalla fine degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta. Nei circa quindici anni in mostra, si notano sia i tratti distintivi dell’arte pop italiana quanto gli stilemi personali adottati dall’artista, ampiamente sviluppati nell’evolversi della sua ricerca, come nel caso dei primi lavori – di fine anni ’50 -, caratterizzati da toni freschi, dall’accumulo apparentemente indistinto di immagini e simboli, di frammenti di parole e di numeri, su uno sfondo quasi piano. Segue una fase in cui la pittura e la figurazione si accostano all’inserimento di fotogrammi, affiancati e sovrapposti, cifra stilistica personale della serialità pop. Altro elemento distintivo di questi anni è l’utilizzo del colore argento. Sperimentazione cromatica e tematica, confluiscono nella scelta di soggetti politici, in cui il vissuto d’infanzia rappresenta il vero filo conduttore. Dall’autoritratto al ritratto di fanciulli, passando attraverso l’invito all’obbedienza: sono opere che raccontano, con un taglio storico-politico, il ventennio fascista, che ha segnato l’adolescenza di Fioroni. L’attenzione alla memoria ed alla psicologia all’infanzia fa sì che una parte della produzione di fine anni Sessanta – di cui una sezione è esposta al museo – sia incentrata sulla mitologia rivisitata delle favole per bambini. E giacché nella ricerca dell’artista la scrittura dell’opera è scandita attraverso i tempi e gli sviluppi della vita privata, testimoniando quella stretta aderenza tra arte e vita, tale che la progressione o l’inversione nella poetica abbiano un equivalente diretto nei modi della vita e viceversa, l’esposizione – che sottolinea tale aspetto – si chiude idealmente con un’opera cardine, Grande freccia che indica la casa in campagna, significativa dell’inizio della nuova vita (di coppia, con lo scrittore Goffredo Parise) e del ritiro dalla mondanità romana.
Sempre incline alla sperimentazione visiva, Fioroni ha fatto della memoria, filtrata dalla sensibilità dell’emozione, carica di grande vitalità e di capacità di comprensione, nonché contaminata da una ricca cultura umanistica, ciò attraverso cui poter trasformare in “ideogrammi personali” le immagini del quotidiano.