Ai lati della strada che conduce dal Merz Bau di Kurt Schwitters al Ready Made di Duchamp si sono accampate col tempo non poche famiglie di opere d’arte incentrate sul prelievo e la ricombinazione di oggetti d’uso già presenti nella realtà in cui viviamo. Molte di esse sono state ben presto riassorbite da comunità linguistiche più vaste come quella del Surrealismo, del Nouveau Realisme o dell’Arte Povera, altre invece ci appaiono, a conti fatti, legate soprattutto alla poetica di poche singole personalità d’eccezione, alcune infine, ci si sono rivelate, alla distanza, debitrici di un tributo solo formale e dunque infecondo al tipo di objet trouvé isolato ed utilizzato.
Giovanni Albanese, con il coraggio e l’ironia che lo contraddistinguono da sempre, ci mostra oggi niente di più e niente di meno che una selezione dei risultati della sua decennale ricerca proprio nei territori di cui sopra, territori mentali e fattuali che, molti suoi colleghi oggi si guardano bene dal rivisitare in quanto li percepiscono, più che altro, come un antico campo di battaglia pericoloso non solo perché troppo battuto in passato, ma anche perché di fatto mai bonificato del tutto.
Stiamo parlando della sua mostra intitolata Solo roba per bambini ospitata a Roma nei locali della Fondazione Volume, di Via San Francesco di Sales, a partire dal 31 gennaio. Una mostra che in un periodo come quello attuale, intasato di multi-medialità e virtualità, ci accoglie con una sorta di festosa coralità che promana non tanto dall’apparato installativo messo a punto, quanto dalla natura stessa degli oggetti esposti, accomunati, appunto, da una certa impalpabile, aria di famiglia che li pervade e misteriosamente li unisce come una sorta di brusio.
Come ci chiariscono il saggio in catalogo di Ascanio Celestini e l’intervista con l’autore di Silvano Manganaro, nonché, per altri versi, il saluto introduttivo di Francesco Nucci, le scelte di Albanese nascono da una sua sensibilità innata accresciutasi nel tempo attraverso i principali cicli di lavoro da lui attraversati, una sensibilità che lo ha portato a riconoscere con facilità, tra le cose che la nostra società considera giunte a fine corsa, un’ulteriore tipo di possibili elementi da trascegliere e rivitalizzare: gli oggetti-personaggio già dotati di un loro carattere personale e di una loro autonomia comunicativa. Oggetti che egli non acquisisce, come fin qui era sempre accaduto con le correnti artistiche dell’Avanguardia e della Neo-Avanguardia, solo in funzione del contributo che essi potrebbero dare alla dimostrazione di una tesi critica e allo scatenamento di una battaglia teorica ma, in un certo senso, per metterli sotto osservazione, per dargli voce ed amplificare i loro messaggi. Messaggi che ovviamente tendono sconfinano nel fiabesco o nel magico, ma che Albanese non ha interesse a teatralizzare per ottenerne facili consensi, ma a sviluppare per studiarne, semmai, la trama d’insieme, o, meglio ancora, per mapparne le strane attitudini e collegarle tra loro dando vita ad una sorta di laboriosa officina intenta a esplorare nuove infinite possibilità di ricucitura culturale ed esistenziale tra vita vissuta del passato e miti del presente che esse ci propongono. Quanto ai bambini evocati nel titolo della mostra va da sé che questi con la loro immaginazione e sempre in moto e la loro fiducia spontanea in ciò che appare dotato di un senso evidente rappresentano il miglior viatico immaginabile per l’intera operazione così come gli anziani che possono confrontare tra loro vecchie funzionalità e nuove suggestioni rappresentano la miglior fonte di verifica della sensatezza dell’intera operazione.