«Animali, vegetali e minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si sente attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche e biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato, ma come produttore di fatti magici e meraviglianti. L’artista-alchimista organizza le cose viventi e vegetali in fatti magici, lavora alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle […]». Con queste parole Germano Celant apre il noto saggio-manifesto dell’Arte Povera pubblicato sull’omonimo volume edito da Gabriele Mazzotta nel 1969. Sei intense pagine in cui il critico genovese, sotto il comune denominatore del “poverismo”, traccia origini e precetti di una nuova sensibilità artistica, trasversale all’agire di artisti sia americani sia europei, dove fra i tanti spicca il nome di Beuys, storicamente associati ad altre correnti: Process Art, Land Art, Earth Art, Arte Concettuale. Una visione, quella “poverista”, che mette in primo piano l’idea del “vivere in arte” in opposizione a quella del “fare arte”, intendendo con ciò non solamente il partecipare alla realtà ma la volontà di interpretarla attivamente. L’Arte Povera nell’avere scelto il “direttamente vissuto” anziché la mera rappresentazione, in quel febbrile storico periodo della storia contrassegnato da energie contestatarie, ha anticipato l’attuale visione del contemporaneo e fissato per mezzo secolo, nonostante taluni ritorni all’ordine, le coordinate di definizione dell’arte così come oggi la intendiamo. E come oggi possiamo testarne la “tenuta” nell’antologica che il Castello di Rivoli ha dedicato a uno dei suoi massimi interpreti: Gilberto Zorio, fra i più importanti artisti italiani viventi, che esattamente cinquanta anni fa mostrava il proprio lavoro alla sua seconda personale da Sperone a Torino, e contestualmente presso il Deposito d’Arte Presente, mentre a Genova germinava l’Arte Povera, e in seguito nella collettiva del 1968 alla galleria De Foscherari di Bologna. Nello stesso anno, l’appena ventiquattrenne Zorio, va ricordato, con Giovanni Anselmo è invitato alla mostra Nine at Castelli, curata da Robert Morris alla galleria di Leo Castelli a New York che, vicino ai maggiori artisti della Process Art, picchia forte sul selciato della rapida internazionalizzazione del movimento italiano. Un riconoscimento che arriva nello stretto giro di mesi con le mostre Prospect ’68 di Düsseldorf, Op Losse Schroeven allo Stedelijk Museum di Amsterdam e soprattutto When Attitudes Become Form di Berna dove Zorio è sempre presente.
“Mi piace parlare di cose fluide ed elastiche, di cose senza perimetri laterali e formali” affermava, presentando se stesso nel volume Arte Povera del 1969; una dichiarazione d’intenti che parimenti si rintraccia in tutta la sua validità, freschezza e attualità nella mostra di Rivoli curata da Marcella Beccaria. Un progetto espositivo che mescola, nelle sale del museo, lavori dello Zorio esordiente, alcuni appartenenti alla sua collezione privata, opere storiche come Letto del ’66 e Tenda del ’67, nuove installazioni e un cospicuo gruppo di disegni, comprendenti progetti mai realizzati. Fra le opere inedite, organizzate al terzo piano del castello, ci s’imbatte in una canoa, immagine-simbolo della sua ricerca, una canoa sottilissima e sospesa, con in punta un alambicco, la più grande mai realizzata dall’artista, lunga diciotto metri. In questa canoa ci sono tutte le tensioni psicologiche, quei gesti esplosivi, quegli eventi energetici di situazioni fluide che si svolgono nel tempo, le chimiche, le alchimie, le mutevolezze, le espansioni, c’è tutto quel processo intellettuale, metaforico ma sempre reale che ha costantemente accompagnato Gilberto Zorio e che, anche in quest’occasione, risponde con sorprendente modernità agli interrogativi dell’uomo contemporaneo. “La canoa – spiega Zorio in un’avvincente conversazione con Carolyn Christov-Bakargiev nel catalogo in corso di pubblicazione – rappresenta il viaggio, la scoperta! È legata alla curiosità di sapere oltre la montagna cosa c’è”. È propriamente – diremmo noi – sinonimo della stessa parola “oltre”; “è il desiderio – incalza Zorio – è come il giavellotto, ti permette di arrivare dove non puoi normalmente”. Infatti, questa canoa assomiglia a un gigantesco giavellotto che squarcia l’aria avvicinandosi sempre di più al bersaglio-sogno, a quel senso di scoperta, a quella meraviglia per l’appunto tanto ricercata dall’artista. Una percezione, tuttavia, come rileva la Bakargiev, che oggi sposta l’idea di esplorazione sottesa a quella di viaggio, a quella di fuga dai territori di conflitto, mostrando così la canoa anche come oggetto salvifico oltre che simbolico. Una canoa che terminando con un alambicco richiama simultaneamente l’idea di un cosmo sotterraneo, impossibile da disconoscere e letteralmente da vivere. Tutta la stanza è un universo che respira nell’attimo in cui Zorio attiva un’esperienza sinestetica fra luci intermittenti di Wood che si accendono al buio e suoni amplificati di microfoni, ripetuti e sovrapposti fra loro capaci di muovere lo spazio divenendo – come spiega Zorio stesso – puro atto plastico. Suoni o sibili, come meglio li definisce l’artista. Sibili che appartengono alla scultura, estendendo l’arte fino a irradiarsi contro gli ostacoli […] sibili che rompono la bilancia delle forme per entrare nell’immagine sfocata dell’invenzione cangiante (Gilberto Zorio, Stedelijk Van Abbemuseum, Eindhoven, Hopeful Monster, Firenza 1987). Sibili, luci, ampolle di pyrex, alambicchi, cloruri e solfati che si trasformano, terrecotte, pelli di mucca, canoe volanti, saettanti giavellotti, spesso conducono e si congiungono con il più noto fra i segni-simbolo di Zorio: la Stella a cinque punte. Capace di captare pulsioni, di irradiare luce da qualsiasi materiale, la stella, sebbene e sempre irreale, nel senso che la sua forma, o meglio il suo disegno, altro non è che un’immagine propriamente generata dall’uomo, addensa in se elementi mitici di ogni cultura millenaria. La stella – spiega ancora una volta Zorio alla Bakargiev – “È lì perché evidentemente ci serviva per viaggiare, ci è servita per vedere dove andare di notte. Non c’era la bussola all’inizio, c’erano le stelle”. Conferma la direttrice di Rivoli: “Sì, la stella del Nord, le costellazioni. È un’immagine di un orientamento dinamico, originale, arcaico. È un’immagine di un’intenzione, di una tensione verso… […]”. Tutta l’opera di Gilberto Zorio è pura energia, un’energia mai esauritasi in cinquanta anni di carriera, è una forza coinvolgente che riguarda tutta la dimensione umana possibile. Ogni opera di Zorio “è un’immagine di un’intenzione, di una tensione verso…”…verso la storia dell’arte.
La recensione è pubblicata sul n. 265 di Segno
Gilberto Zorio
fino al 18 febbraio 2018
Castello di Rivoli
Piazza Mafalda di Savoia
Rivoli – Torino