Impeccabili nel loro elegante e riconoscibile outfit, camicia e giacca dalla linea perfetta, cravatta con decori uguali, formiconi o fiorellini di loro ideazione, scarpe in ottimo cuoio british. Dritti e composti a dispetto degli anni (classe ’42 e ’43) e i 35 gradi di temperatura esterna. Con una sincronia sorprendente nel modo di muoversi e di parlare, un affiatamento invidiabile per i comuni mortali collaudato da cinquant’anni di rapporto artistico e sentimentale. Ormai icone di se stesse, Gilbert & George appaiono “sculture viventi” in ogni loro azione. Cortesi e sorridenti quando rilasciano un’intervista o firmano autografi, resistendo all’assalto dei fan. Amabili (“essere amati e il nostro più grande desiderio”), ma ironici e autoironici, quando si rivolgono al pubblico. Raccontando con tono pacato i loro esordi alla fine degli anni sessanta, con disegni oggi dalle quotazioni “esagerate”; l’intuizione di un’arte che si fonde con la vita e si rivolge “a tutti”; la rottura provocatoria ma dal valore etico di tabù legati al sesso e all’ omosessualità; la convinzione politically uncorrect che le cose cambieranno in meglio riguardo alla cultura ’islamica e al terrorismo: come hanno fatto, con serenità e generosità, nel talk condotto da Alessandra Mammì e Mario Codognato che si è tenuto il 24 giugno alla Fondazione Pascali a Polignano a Mare.
Una presenza straordinaria quella dei due artisti inglesi, per la prima volta in Puglia per introdurre, nell’ambito della rassegna “Art/Movie”, la proiezione del loro film “The world of Gilbert & George” realizzato nel 1981, scomparso ma di recente ritrovato e restaurato dalla Cineteca nazionale di Roma. E per presenziare all’opening di una piccola sezione espositiva allestita (fino al 2 settembre) in una sala del museo: di cui fulcro è “Cherry Blossom”, un’opera storica (presentata da Lia De Venere), proveniente dalla Collezione dell’ingegnere barese Angelo Baldassarre gestita ora dagli eredi. Un esemplare prezioso, parte di una serie di 12 lavori composti da riquadri fotografici modulari dentro una griglia fra bianconero e rosso sangue, con immagini degli artisti intervallate a riprese urbane, che fu presentata la prima volta alla Galleria Sperone di Roma nel ‘74. Momento di svolta nella ricerca di Gilbert & George dal più austero clima concettuale degli anni settanta ad un universo colorato, accattivante e trasgressivo.
È un mondo il loro, come si evince dal film, in cui la vita pulsa tra aneliti spirituali e prosaicità terrena, bellezza e degrado, buone maniere e vita di strada, contraddizioni e paradossi, trasgressione e tradizione. Nelle sequenze giocate su dualismi e simmetrie di forma e contenuto, l’amore per la natura (moltissime le immagini di fiori, e la cultura (in particolare quella vittoriana) convive con l’ossessione per il controllo e l’attrazione del lasciarsi andare (al bere ad esempio). Tra banalità, sberleffo e tensione eroica, litanie di valori e controvalori, inquadrature della propria casa come filtro verso l’esterno e frammenti di cielo e architetture, corpi ben vestiti e figure ai margini. E ancora richiami a patria o religione (la bandiera dell’Union Jack, il Cristo in croce), soave musica da chiesa e interviste ai ragazzi del quartiere: quell’ East End un tempo degradato e oggi in parte gentrificato e superchic dove i due vivono fin dall’inizio del loro sodalizio. A collegare tutto c’è però sempre uno spessore poetico: che è poi il mood, buffo e insieme malinconico, rigoroso e fragile, dell’esistenza umana…