Fugitive of the State(less) è la mostra di Dominique White (Regno Unito, 1993) che si è appena conclusa presso lo spazio di Veda a Firenze.
L’artista inglese utilizza il concetto di Stateless, indicando uno stato alterato che oltrepassa lo Stato in quanto entità giuridica e in cui la Blackness è libera di esistere. Quest’utopia è abitata da naufraghi e fuggiaschi, lasciati sopravvivere o perseguitati senza tuttavia poter essere riconosciuti, abbandonati alla decisione di autodistruggersi attraversando il mare.
Il mare è una dimensione onnipresente, sentito come un abbraccio, corpo potente in grado di scegliere il momento in cui agguantare e rivelare i relitti dell’esistenza umana sommersa, siano essi membra rigurgitate dalla tratta degli schiavi o frammenti di un insediamento umano devastato dalla furia della natura.
L’emergere di storie e tempi plurimi si collega all’utilizzo di materiali degradabili, legni, fronde di palme, rafie, fibre naturali di sisal e conchiglie già lavorati dal mare e aventi l’ambivalenza di possedere una precisa cronologia di deperimento laddove paradossalmente rimandano invece a vicende e corpi irrecuperabili nella loro linearità storica poiché mancanti di un passato certo, ma che tuttavia sussistono in quanto narrazioni di presenze/assenze che infestano l’opera. L’assenza è indagata attraverso lo scarto, attraverso ciò che è rimasto, ripescato e riassemblato. È un mare che consuma, erode, dunque sottrae, ma allo stesso tempo sparpaglia i frammenti che formano e alimentano i suoi sedimenti e che infestano le sue acque, recuperati infine da pescatori della memoria attraverso reti dalle quali vengono riesumati per vivere nuovi significati.
Il mare viene letto dall’artista anche attraverso il mito di Drexciya, un mondo sottomarino abitato dai corpi dei figli mai nati delle donne africane gettate a mare dalle navi che agevolavano la tratta degli schiavi, durante l’attraversata dell’Oceano Atlantico. I drexciyani sono gli esclusi, i derelitti, guerrieri che lottano nei fondali marini per la giustizia e per riportare il popolo afroamericano nella terra natia: l’Africa. In questi abissi, la vita nelle metropoli scorre spensierata, mentre i guerrieri si agitano e danno vita a una risalita effervescente di bolle che scombussola dal basso, dall’underground, gli oceani.
Il mito di Drexciya è stato impiegato dalla scena musicale di Detroit negli anni ’90. Nel decennio precedente, su ispirazione dei ribelli tecnologici e del libro di Alvin Toffler The Third Wave, Derrick May, Juan Atkins e Kevin Saunderson diedero vita alla produzione conosciuta come Detroit techno. Tuttavia negli anni Novanta la techno divenne popolare, aumentarono le case di produzione discografica, i party e l’industria culturale iniziò a commercializzare i suoi prodotti. Nell’ambiente underground si decise di far fronte allo sfruttamento bianco dei ricchi con una resistenza nera di giovani che legavano insieme attivismo e musica. Drexciya fece parte di questa resistenza subacquea, un’invasione acquatica pronta a riemergere e avente un’attitudine militante nei confronti della techno. Nel mondo di Drexciya venivano oltrepassate le strutture sociali e politiche dello Stato-nazione e si privilegiava il meticciato degli abitanti che abitavano il Black Atlantic.
Tra i riferimenti teorici di Dominique White, la citazione: “The undercommons, its maroons, are always at war, always in hiding” proviene dal libro di Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons. Fugitive Planning and Black Study nel quale i due studiosi sviluppano un approccio politico e antagonista che si alimenta di quelle forme di fuga criminale e comportamenti antagonisti agli schemi e alle relazioni dettate dall’istruzione coercitiva. Gli Undercommons sono territori incolti, anfratti della società, bolle sommerse della società abitate da queer, zingari, criminali, poveri e neri.
Ne fanno parte storicamente anche i “maroons”, termine inglese con il quale si indicano le etnie che discendono dai primi “cimarroni”, ovvero gli schiavi delle colonie americane dell’impero spagnolo che si davano alla fuga nella “macchia” (cimarra significa “boscaglia”). Questi schiavi praticavano il banditismo e si organizzavano in comunità clandestine. Attorno al 1540, il termine passò ad indicare la “carne umana”, di proprietà dei conquistadores, che era fuggita per rivendicare la propria libertà.
In Fugitive of the State(less) non si capisce se i brandelli di storie e i relitti dell’esistenza siano pronti a tornare alla luce, afferrati da un’ancora o meglio da una draga tuttora sommersa, oppure se quel ferro uncinato sia un gancio da carne che gravita nell’aria e dunque se quello di fronte sia un post-moderno abisso profondo di Drexciya nel quale immergersi, oppure un antico trasporto di carne umana macellata dal quale scampare.
Nella sua immanenza, l’installazione rifugge il terreno, sollevata in uno stato di sospensione a mezz’aria, apolide del cielo e senza stato della terra, vicina al passato degli schiavi ma prossima al futuro nero, avanza l’intenzione di incombere nell’oggi tra gli Undercommons sempre in guerra, sempre nascosti, sommersi tra gli abissi o in fuga tra la boscaglia.