Entrando nello studio di Francesco De Grandi ammiro una grandissima tela: titola Il Sogno di Placido. La produzione di Francesco ha un diapason sorprendente. Il poeta americano Stevens sosteneva: “c’era un mito prima del mito”. E De Grandi, come un viaggiatore cosmico, arriva sino a quella regione invisibile. Con lo sguardo del Veggente, ma anche con la spietata necessità di giungere al nucleo genetico delle cose, De Grandi ha dipinto, nel suo fecondo percorso, calvari di dannati e di beati, fantasmatiche orchestre notturne di ottoni, tumide muse di un verde acido che neppure Rosso, tumulti di fiamme contro cieli senza stelle. E poi i piedi santi di Rosalia, vergine carolingia di Sicilia e persino una bambina Medea, con la sua giubba giallo di cadmio – prima di essere vittima, prima di essere carnefice – nel paradiso arcadico e fulvo della Colchide.
Il Sogno di Placido è una visione potente, un notturno magico, un canto misterioso ed astrale. Il cielo di lapispazzulo è trapunto di stelle che paiono pupille; la luna, lungi dall’ essere una circonferenza dalla luce di cristallo chiaro, non ha nulla delle mollezze di sussurro di flauto, ma è una bocca dal sorriso beffardo, un fiore reciso, una falce sottilissima e straniante, un infernale frammento elettrico. A richiamare lo sguardo dell’osservatore è uno dei due cervi, dal vello colore ambra e dal corpo nobile. Sembra un bardo, un santo. Il ricamo delle sue corna trova contrappunto nell’ arabesco disegnato dal serpente carnoso e liscio. Di queste erbe, di queste siepi, di questi tronchi, dei fiori dalle sembianze zoomorfe, percepisco il palpito, il respiro: Pneuma di natura divina e vergine. Con loro scambio inspiro ed espiro, quel moto d’amore del ricevere e del dare che dovrebbe instaurarsi tra ogni opera ed il suo fruitore. Alle orecchie mi sussurra l’homo universalis Goethe con la sua assoluta visione idealistica donataci nel Divano Occidentale Orientale sulla doppia benedizione del respiro, sull’assorbire e sul lasciar andare.
Altresì, dinanzi a Il Sogno di Placido, la mia mente va, senza impigliarsi troppo, a tutti quei meravigliosi exempla artistici che palesano fedeli ed accurate rappresentazioni di studi di botanica. Dalla Primavera del Botticelli agli Uffizi, all’Ophelia del preraffaellita John Everett Millais, agli straordinari arazzi millefleurs fiamminghi come quello di Pistoia recentemente prestato alle Scuderie del Quirinale in occasione della mostra Favoloso Calvino o quelli di Cluny con protagonisti la Dama e l’Unicorno.
Tutti riferimenti di cui il colto De Grandi ha certamente impregnato la substantia della sua pittura. Ma nelle opere di Francesco, la vegetazione trasmuta in declinazioni oniriche e fantasiose, acquisisce un suo diritto alla bizzarria, o alla vertigine, o all’ incanto. La materia pittorica appare compatta e lucida, ha la preziosità della pietra dura. Brucia delle fantasie dei blu, dei rossi, dei verdi dell’ amatissimo Giotto.
Di questo e d’altro ho avuto il piacere di chiacchierare con Francesco De Grandi.
Serena Ribaudo: Nel celebre Peintre di Baudelaire si legge: “Si immagini un artista che sia sempre, con il suo spirito, nello stato del convalescente, e si avrà la chiave del carattere di G. Ora, la convalescenza è come un ritorno all’infanzia. Il convalescente possiede in sommo grado, come il fanciullo, la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle in apparenza più banali. (…) Il fanciullo vede tutto in una forma di novità; è sempre ebbro. Nulla somiglia tanto a quella che chiamiamo ispirazione, quanto la gioia con cui il fanciullo assorbe la forma e il colore”. Sia benedetta l’ ispirazione! Ed al contempo, quanto essa possiede il sigillo di vocazione antica, di tensione interiore, di kleros! Francesco, quando hai compreso di Essere Pittore?
Francesco De Grandi: Ho compreso di essere Pittore contemporaneamente alla consapevolezza di essere un corpo. Quando ho sperimentato la possibilità di tracciare i segni, di lasciare l’impronta duratura del mio essere. Poi il mio pediatra cominciò a comprare i miei disegni, li si è aggiunta la scoperta che quei segni che tracciavo per puro piacere procuravano lo stesso piacere a chi li guardava, tanto da volerseli portare a casa. Io non ho scelto, successivamente ho realizzato che avevo ricevuto il dono di formalizzare il pensiero attraverso l’immagine. Ho scoperto l’io narrante.
S. R. Ho letto e riletto sempre con passione un libello – un folgorante e sanguigno libello! – di Joris-Karl Huysmans su Mathis Grünewald. Huysmans definisce il grande artista di Würzburg “il suo rovello”. A proposito del Polittico di Colmar scrive: “Qui Grünewald si rivela come il pittore più audace che mai sia esistito, il primo che abbia tentato di esprimere con la povertà dei colori terrestri la visione della divinità messa in croce che risorge, visibile a occhio nudo, nell’ atto di levarsi dalla tomba. Noi siamo insieme a lui in piena esaltazione mistica, davanti a un’ arte strappata dalle sue postazioni, forzata ad avventurarsi nell’ al di là più lontano di quanto alcun teologo avrebbe potuto, in questo caso ordinargli di spingersi”. Cosa significa per te il Sacro?
F. D. G. La pittura è un atto di sacralizzazione della materia. Per il pittore ortodosso ad esempio il gesto tecnico e la forma aprono le porte della trascendenza, facendo dell’oggetto pittorico (l’Icona) un oggetto sacramentale. Io credo che ci sia realmente un nesso, tra la creazione di un manufatto e il suo potere di accesso al sacro. Quando si affronta la pittura se ne percepisce il corpo, si sente in maniera inequivocabile la presenza di quell’opera nella stanza. Secondo me un dipinto si sacralizza nel momento in cui la manipolazione della materia ottiene quel risultato inaspettato di sostanza vivente, presente in quanto evento insostituibile e portatore di un’epifania numinosa. A quel punto crollano tutti i tentativi di riproduzione, che esistono in quanto lontano documentario dell’accadimento. Il sacro è connaturato al gesto pittorico, è intrinsecamente connesso.
S. R. Io vedo in te il disegno come una predisposizione genetica e preziosa, come una proiezione di pensiero naturale e mitico, una percezione simultanea del visibile e dell’ invisibile. Il tuo disegno inchioda, apre l’ occhio miope. Qual è il tuo rapporto con il disegno?
F. D. G. Il disegno appartiene alle viscere, alle ghiandole e alle cose interne del corpo, è l’impronta sudata sulle lenzuola candide di cotone o una garza sporca di umori biologici. Mi ricorda la grotta, le sue pareti ruvide pronte a ricevere il segno del carbone. È un sogno ripetuto, sovrannaturale, fatto di gorghi e grovigli sui quali l’occhio cerca la verità delle cose e disegna nei minimi dettagli tutti i Cristi che il mondo invoca, tutte le piaghe che affliggono il corpo degli uomini, le rughe che ne segnano i volti, le erbe che crescono nelle crepe delle rocce, gli alberi, le spine e i sassi, e così di segno in segno si arriva alla rinuncia della rappresentazione, ad una purezza che è solo piacere, primitivo, semplice come un bisogno primario.
S. R. Cosa rappresenta per te la Sicilia?
F. D. G. Una madre assassina. Il deserto e la cornucopia, l’isola , il mare e la vera luce. Il sonno della ragione, ma il posto che inesorabilmente mi inchioda. Sono andato via diverse volte da piccolo per il lavoro di mio padre, poi a 24 anni sono andato al nord per lungo tempo, sono stato in giro, in Cina, ma poi sono tornato. Credo che preferirò restare isola.
S. R. Prossimi progetti di Francesco De Grandi?
F. D. G. Una mostra al Mart/Civica di Trento il prossimo autunno e altri sollazzi in giro per l’Italia.