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Franca Maranò, riflessioni sulla Donna Senza Età

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Sembra essersi interamente compiuto il percorso di un’artista che con l’oblio e la marginalità, ha combattuto tutta la vita. Franca Maranò, artista barese, infatti, ha lavorato in un’Italia meridionale tradizionalmente imbevuta di cultura patriarcale e in cui la voce femminile ha fatto più fatica a farsi ascoltare, a farsi comprendere e a ottenere i supporti necessari per farsi conoscere. 

Rivoluzionaria nel lavoro e nella vita, l’artista viene sempre sostenuta dal marito, Nicola De Benedictis, che non soltanto comprende subito il suo valore, ma contribuisce a creare in lei quel dubbio fecondo che porta all’evoluzione la sua arte. 

Nei primi anni Sessanta crea una serie di dipinti astratti; ma saranno le sue ceramiche ricche di elementi arcaici e primordiali che come dice l’artista stessa, “mi fecero ritornare a vivere e sorridere ancora”.  Rubava dalla terra i suoi segreti umori imprigionandoli nell’argilla, vedeva la forza del creato nello smalto rosso e nei grigi il significato del tempo infinito. Lavorò anche su lamine di alluminio e intonaci. Il segno continuava a svilupparsi, inciso, graffiato, esso stesso materico. L’informale prese il sopravvento per esprimere ciò che la figura non poteva arrivare a rappresentare. I lavori di Franca Maranò ci accompagnano a sentire ciò che vediamo. Sono le immagini che astratte e intoccabili, prendono il sopravvento su di noi. Ci direzionano, attraverso la materia, verso le emozioni, verso la percezione di forze completamente astratte. 

Furono i movimenti femministi che spinsero l’artista a utilizzare elementi provenienti da un’attività ancestralmente femminile: l’ago e il filo. Armi con qui la donna nel corso dei secoli, tesseva la sua stessa gabbia, la sua stessa prigione e angolo di tortura. Fendenti con cui tentava di annebbiare, dimenticare e reprimere le sue pene cercando di tenere la mente occupata. Franca Maranò, insieme a Maria Lai, Rosemarie Trockel e Yoko Ono, è stata una delle pioniere dell’utilizzo tessile nell’arte degli anni Settanta, come simbolo di libertà e riscatto femminile. L’artista stessa dichiarò che l’ago e il filo sono stati fondamentali: “anche al fine di soddisfare la mia esigenza di operare al di fuori della cultura del privilegio e senza più legami di attinenza con i codici del già fatto e con i tradizionali mezzi pittorici”. 

Ecco che nascono essenziali lavori osservabili negli spazi della Galleria Gracis, dove su tele medievali, fatte di lino e canapa, completamente spoglie, l’artista tesse trame e intrecci che appaiono vie intricate, tendenti a uscire fuori dai tessuti. In alcuni casi, questi percorsi vengono interrotti e diventano vicoli cechi, in altri ancora si osservano paralleli uno all’altro, fino a scontrarsi completamente. 

È il 1970 quando fonda con altri cinque artisti (Umberto Baldassarre, Mimmo Conenna, Sergio Da Molin, Michele Depalma e Vitantonio Russo) la Galleria Centrosei, primo polo dedicato all’avanguardia a Bari. Ed è qui che espone all’interno di ben nove personali, le sue recenti ricerche. In vent’anni di attività questo spazio accolse nomi quali Sol LeWitt, Luigi Ontani, Pier Paolo Calzolari e Joseph Beuys, dedicando particolare attenzione anche alle ricerche fotografiche di Giorgio Ciam, Giorgio Colombo, Plinio Martelli e Franco Summa. La galleria, inoltre, si apre immediatamente alle donne artiste e negli anni esporranno in quegli spazi: Mirella Bentivoglio, Lucia Romualdi, Tomaso Binga, Simona Weller, Renata Boero e Ketty La Rocca

Chiudono la mostra allestita dalla Galleria Gracis, due “Abiti Mentali”. L’artista stessa scrisse: “Con la maturità ho sentito il bisogno disperato di cogliere negli occhi degli altri un segno di comunicazione, e ho sperimentato un tipo di lavoro che rimandi a un costume nuovo, libero da archetipi, lisi da strutture strumentali e da paure ancestrali, che ci faccia sentire uniti in questo nostro destino di mortali: così è nato l’«Abito mentale» che in seguito ho aperto con chiari riferimenti figurali”. Appesi al muro come stendardi, necessitano di essere indossati per attivarsi. Dei sai dentro i quali celarsi, annullarsi e reprimere se stesse. Un tema, quello del corpo della donna, che come sottolinea il comunicato stampa della mostra, è ancora di una triste e tragica attualità. 

Franca Maranò, si sentiva una “donna senza età”, nella continua ricerca di se stessa e del suo linguaggio, dividendosi tra l’essere artista, gallerista, moglie e madre di famiglia. Ha riversato la sua costante insoddisfazione nella materia che nel corso degli anni è andata a costituire il suo lavoro, trovando nelle sue fragilità, forza e speranza. 

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Roberto Sala

Art director della rivista Segno insegna Grafica editoriale all'Accademia di Belle Arti di Brera