Il primo punto fermo per giudicare una fiera è ricordarsi sempre e comunque che parliamo di mercato. Per questa ragione ogni giudizio su cosa sia bello e cosa no, cosa piace e no (fra l’altro dipendente dallo sguardo culturale del critico), deve necessariamente tenere conto di questo fatto. Diciamo subito, allora, che la Fiac, nel suo complesso e mio parere, seppure simile alle precedenti edizioni, si mostra molto curata, misurata ed elegante, con proposte da parte delle gallerie non scontate e non banali, tranne alcuni scivoloni che interessano soprattutto l’offerta del piano superiore, non può essere giudicata se non si tiene conto della realtà esterna e soprattutto della politica, che ha un impatto sostanziale in materia di domanda dell’arte. È innegabile quindi che, nel contesto Europeo, Fiac competa e sia concorrente soprattutto di Frieze. Ci sono alcuni dettagli, infatti, che portano ad affermare che il mercato dell’arte parigino si trova in un buon momento, non ultimo le incertezze riguardanti la Brexit che sicuramente rappresenta un punto a sfavore per il business londinese. Momento favorevole oltretutto confermato nei dati ufficiali – forniti da Artprice – che indicano una crescita di oltre l’80% sulla domanda di arte contemporanea in Francia.
Sicché la 45° edizione di Fiac guidata da Jennifer Flay, con 195 gallerie scupolosamente selezionate e venute da 27 paesi del mondo, risponde perfettamente all’occasione che il mercato le offre in questo momento, puntando a riaffermarsi quale punto nevralgico dell’economia dell’arte in Europa e non solo. Tuttavia, acquistare è la prima delle azioni possibili in questa fiera che non manca di lasciare spazio all’esercizio del sogno, proponendo anche situazioni spettacolarizzanti. Iniziamo subito con il dire che, immediatamente in entrata al piano inferiore, s’incontrano una serie di stand con le proposte delle migliori e più importanti gallerie del mondo. Basta un giro fra i primi due blocchi rettangolari per rendersi conto di cosa succede ai cosiddetti “piani alti”, quando s’incrociano gallerie del calibro di White Cube, Gmurzynska, Hauser & Wirth, Gagosian, Marian Goodman, Pace, Gladstone o Michael Werner tanto per citare quelle maggiormente note. Tutte equilibratamente bilanciate nell’impaginazione di stand che tengono conto tanto dell’aspetto commerciale – ma senza eccessi – quanto di quello più contemplativo se vogliamo, con pezzi propriamente da museo.
Non mancano le sfide in tema di spettacolarizzazione. In tal senso è esemplare il confronto fra il monumentale Ingres wood di Katharina Grosse (ci dicono calato dall’alto dalla calotta metallica del Grand Palais) da Gagosian, e lo scenografico quanto turbante On fire di Gmurzynska curato dal designer Alexandre de Betak che ha letteralmente trasformato lo spazio in una “futuristica” stazione dei pompieri. Qui gli animi si dividono fra sostenitori e non delle due distinte concezioni di come stupire il collezionista. L’idea di de Betak è certamente dinamica, movimentando opere moderne, perlopiù realizzate dal dopoguerra in poi, come quelle di Joan Miró, Yves Klein e Alberto Burri selezionate per la loro relazione al tema del fuoco. Allestimento che inoltre è anche un omaggio agli stessi galleristi, richiamando nella forma del cubo, il primo edificio di colore rosso inaugurato a Colonia nel 1965.Personalmente il dinamismo soltanto non mi pare motivo per giudicare lo stand di Gmurzynska fra i migliori che, anzi, mi è parso particolarmente brutto e confuso, nonostante ne vada riconosciuta la validità, tale da ombrare l’aurea che invece appartiene alle opere esposte e citate. Preferibile di gran lunga la concezione di “spettacolo” di un guru del mercato dell’arte quale è Gagosian che, dopo il primo impatto con l’effetto monumentale di Ingres Wood di Katharina Grosse, non confonde lo sguardo con superflui orpelli allestitivi, indirizzando l’attenzione alla conoscenza dell’opera dell’artista, che in Italia in molti ricorderanno per l’esposizione romana di Villa Medici la scorsa primavera.
In questo tour al Grand Palais dove, come già detto, l’offerta è parsa variegata e fresca, con molte opere poco viste e di grande eleganza, per fare un esempio cito Pace, già segnalata come fra le migliori gallerie in Frieze, in Fiac non delude, proponendo uno stand con un’ottima selezione di artisti del Sol Levante, cui chiaramente la galleria punta essendo presente con propri spazi a Pechino e Hong Kong. E ancora, sono molto affascinanti i lavori di Nina Canel e Matthew Lutz-Kinoy della Mendes Wood DM Gallery, entrambi indirizzati in una ricerca fra il tribale e il folkloristico ma in modo originale così anche in generale si distingue lo stand dell’americana David Kordansky Gallery dove spicca fra tutte la forest colors di Mary Weatherford. In questo ricco contesta meritano un commento, le ottime proposte delle gallerie italiane. Poche ma buone, come si usa dire in questi casi, a cominciare da Galleria Continua che, con uno stand strepitoso, ha portato in fiera i lavori dei propri migliori artisti quali: Anish Kapoor, Shilpa Gupta, Carsten Holler e Hans Op De Beeck cui fa da sponda l’incantevole parete di Pascale Marthine Tayou, organizzando uno spazio gradevole e scenografico al punto giusto.
Impeccabili e in perfetto equilibrio fra storicità e attualità le proposte di Giò Marconi, Mazzoleni,Massimo Minini, Tornabuoni Art, Cardi, Raffaella Cortese, Massimo De Carloe Tucci Russo. Particolarmente convincenti quelle di Alfonso Artiaco con uno stand energico complici le potenti e strepitose opere di Ann Veronica Janssens, kaufmann reperto dove spicca il lavoro di Anthea Hamilton e Magazzino con due suggestive, potenti e delicate al contempo, lastre in pietra di Alessandro Piangiamore ma anche le opere di Elisabetta Benassi e Massimo Bartolini, citando in conclusione l’incredibile Fontana delle mani di Mircea Cantor, dove natura e artificio dialogano con una semplicità disarmante. Al piano superiore incontriamo la galleria di Francesca Minini con le opere di Becky Beasley, la P420 che propone un interessante confronto fra quelle di Irma Blank e Paolo Icaro, SpazioA, con un bellissimo ed essenziale lavoro di Ester Klas, Zero e infine Vistamare/ Vistamarestudio che osa un’elegantissima, raffinata e rigorosa fila di scatti storici di Mimmo Jodice. Va detto che, è proprio il piano superiore quello che funziona di meno in tutta la Fiac, compresa anche la sezione Design, troppo piccola e quasi insignificante tanto da sembrare una banale imitazione, non troppo ben riuscita, della corrispondente a Basilea. Sicché, se il complesso delle partecipazioni qui è certamente da rivedere (opere discutibili, davvero troppo commerciali e di non eccezionale qualità), non lo è quello delle italiane cui va il merito di essersi distinte contribuendo a non declassare completamente tutto il piano superiore.
Fra i progetti speciali proposti in fiera, segnaliamo l’esposizione fotografica Fil Rouge del giovane artista Lee Berman, organizzata da Arjowiggins, partner ufficiale di Fiac, scelto fra le altre cose, perché capace con il proprio lavoro di mettere in evidenza le qualità intrinseche della carta al 100% riciclata Cocoon Silk. Qui l’impaginazione di questi scatti in bianco e nero, alterna a bellissimi corpi nudi – immagini che fanno il verso a patinate copertine di moda – quelli di statue classiche, accomunate dalla presenza di una corda rossa, unico elemento cromatico cui l’occhio inevitabilmente si posa. Si genera così un naturale richiamo al senso dell’estetica, condensato nel dualismo effimero ed eterno, la cui metafora è espressa nella dicotomia fra i corpi vivi e reali delle donne e i corrispettivi marmi.
Infine, è necessario e doveroso un passaggio su Fiac Projects. Anzi, prima di commentarlo, bisogna ricordare che questo come altri interventi proposti e promossi da Fiac per la città di Parigi, rientrano nella precisa volontà e politica della fiera di non trascurare operazioni di puro carattere culturale. Operazioni che, come più volte ha dichiarato Jennifer Flay, si radicano nell’ambizione di rendere l’arte contemporanea più accessibile. Attenzione però a non confondere l’accessibilità culturale con una democratizzazione del fare arte, che resta sempre e comunque appannaggio di un’artisticità filtrata e incanalata all’interno di un sistema che si basa su scelte precise di qualità. Mentre la fiera resta tale e un faro per quel che riguarda l’ambito commerciale, tutte le altre operazioni si sviluppano volutamente in modo gratuito, a cominciare dalla grande installazione al jardin des Tuilieres, della grande scultura monumentale di Calder che, in accordo con il Musée du Louvre, resterà visibile per un anno, per terminare poi con la proiezione tutte le sere di film d’artista sulla facciata del Grand Palais.Tornando a Fiac Projectsobiettivamente le opere all’interno del Petit Palais risultano molto poco coinvolgenti e attrattive, più rispondenti ad una tradizionale fruizione museale, diversamente da quelle en plein aire dal chiaro carattere installativo. Valgano come esempi d’interventi perfettamente riusciti i caratteristici neon di frasi di Rosa Barba proposti da Vistamare/ Vistamarestudio che, soprattutto all’imbrunire si svelano e catturano lo sguardo invitando a una riflessione sul linguaggio e il suo valore poetico, affrontato al centro della piazza dalla Rampe Cycloïdale di Raphaël Zarka rappresentato dalla Galerie Michel Rein di Parigi. Lavoro geniale, questo di Zarka, che coniuga alla cultura dello skateboard la storia della fisica, offrendo agli skater l’opportunità di rivivere le leggi della meccanica classica a misura d’uomo, rifacendosi agli studi galileiani sulla caduta dei corpi. Un modo intelligente di coniugare l’arte alla storia e alla cultura, utilizzando una forma del vivere contemporaneo, riuscendo infine a dare un senso credibile e vero al concetto di Arte Pubblica.
La Photogallery con gli scatti di Roberto Sala la trovate qui.