Nella pittura di Evi Vingerling c’è un puro “godimento estetico che è godimento oggettivato di noi stessi. Godere esteticamente significa godere di noi stessi in un oggetto sensorio diverso da noi, immedesimandoci in esso”. Con queste parole, scritte dallo storico dell’arte tedesco Wilhem Worringer in Astrazione e Empatia (1908), è possibile introdurre il processo creativo dell’artista olandese che trova il proprio interesse e appagamento nella bellezza del mondo. L’attenzione della Vingerlin è spesso colta dalla banalità del quotidiano, da tutto ciò che notoriamente ci circonda ma che per particolari circostanze empatiche trova in lei un interesse suscitando emozioni positive e confortevoli. Tali esperienze epifaniche avvengono nella mente dell’artista che coglie quell’attimo e lo memorizza o fotograficamente o attraverso rapidi bozzetti che andrà a rielaborare solo in seguito. Questo tipo di attività appercettiva è accolta dall’artista in modo da dar vita a un senso di libertà e di piacere, di “libera auto attivazione”, e questo caso viene definito “empatia positiva” (Th. Lipps, Fonti della conoscenza. Empatia, 1909).
Da questo processo empatico con gli oggetti e la natura del mondo che la circonda, Evi Vingerling avvia un processo astrattivo che la vede impegnata nel suo studio dove ricrea il momento dell’ispirazione tradotto secondo la propria sintassi estetico-pittorica. L’impulso all’astrazione deriva dalla volontà di isolare il singolo oggetto, astraendolo, per rintracciarne la forma primaria. In questo modo la Vingerlin ritrova un luogo di quiete, un rifugio dalla caoticità del mondo. Gli ambienti naturali diventano, pertanto, spazi dell’immaginazione dove poter osservare e contemplare i dettagli e i frammenti del mondo di cui solitamente non se ne colgono l’autentica bellezza. La bulimia di immagini a cui la società moderna è sottoposta conduce l’uomo a una disattenzione cronica verso le stesse, come scrive Susan Sontag a proposito della tendenza dominante nell’arte dei paesi capitalistici, “quella di eliminare, o almeno di attenuare, il disgusto sensoriale e morale. Gran parte dell’arte moderna si sforza di abbassare la soglia del terribile” (S. Sontag, Sulla fotografia, 1978). L’esposizione prolungata alle fotografie comporta una de-realizzazione dell’esperienza del mondo che diminuisce la nostra capacità di interagire con esso. Prosegue la Sontag: “la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo”. In qualche modo ciò giustifica il processo artistico di acquisizione fotografica di pezzi di mondo come miniature di una realtà che la Vingerlin apprende e colleziona come se fossero istanti di vita da cogliere e trattenere a sé. L’immagine fotografica è quindi una diretta emanazione del reale, una traccia di un vissuto umano che, nel caso specifico, è quello dell’artista, la quale rievoca un vissuto, un’emozione sulla tela che si compone di dettagli in continua espansione. Questi elementi pittorici che costellano il dipinto sono come universi autonomi in continua espansione di cui se ne intuiscono solo le tracce lasciate dalla mano creatrice dell’artista e dall’andamento spontaneo nato dalla sua mente, in uno stream of consciousness che riproduce intuitivamente quell’istante di vita colto in un dettaglio fotografico o in un bozzetto.
Lo sguardo di colui che osserva è spaesato non riconoscendo alcun riferimento naturalistico, poiché l’artista cela attraverso il colore, del tutto slegato rispetto al soggetto, il reale. Anche la negazione di un titolo è l’affermazione di un voler sintetizzare l’immagine e veicolare tutta l’attenzione dell’osservatore sulle sensazioni, sul godimento puramente estetico. La connessione empatica che l’artista crea fra la sua opera e il mondo esterno, la spazialità che si frappone fra questi due elementi è colmata dalle emozioni all’avvicinamento alla forma organica non per riprodurre sulla tela e nella mente dell’astante un’immagine verosimile ma per tentare di riportare la felicità derivante dalla bellezza della cosa stessa colta in quell’istante in cui l’artista l’ha percepita. In quell’istante trattenuto e riprodotto sulla tela, Evi Vingerling dà quindi origine a una percezione sensoriale tipica dell’atto conoscitivo del vedere essendo la vista prettamente legata all’idea. Vedere, in latino v-id-ere, mantiene in sé la radice greca della parola idea –id, ciò testimonia come Evi Vingerlin sia in grado, attraverso la visione, di ottenere una rappresentazione mentale, una capacità cognitiva insita in lei e, conseguentemente nei suoi lavori, in grado di dare vita a fantasie pittoriche realizzate con episteme, ovvero attraverso un ragionamento e un’intuizione artistica che si esprime pittoricamente con colori estrosi e vellutati.
Il naturalismo, pertanto, non consiste solamente in una corretta adeguazione dell’immagine con l’oggetto rappresentato ma nel godere della forma organica in sè, il cui presupposto psichico è racchiuso nell’empatia. Così Evi Vingerlin ci introduce nel suo mondo appercettivo fatto di osservazioni del reale di cui ne mantiene la capacità di analisi stabilendo con esso un rapporto estetico e sincronico che restituisce al pubblico attraverso i sui dipinti astratti.
Evi Vingerling farà parte a Maggio 2018 della mostra collettiva “Beyond the Painting” a cura di Valeria Ceregini ospitata e promossa dalla SEA Foundation di Tilburg .