Figure antropomorfe, gnomi, creature mutanti: la mostra “Transitory People – Precarious Lives”, curata da Francesca Canfora e Daniele Ratti, porta le opere di 13 artisti emergenti – selezionati tra gli oltre 60 iscritti al bando di concorso indetto dalla prima edizione del Premio d’Arte Quarelli – tra le vigne, i campi e le sculture della collezione permanente del Parco Quarelli di Roccaverano, nella Langa Astigiana.
Le opere, nella loro diversità, raffigurano l’eterogeneità delle culture e delle etnie che compongono il mosaico globale della razza umana. Sono un popolo in transito che prende indebitamente possesso di quella che, sino a poco prima, era una campagna deserta. Sculture che rappresentano sempre l’essere umano, ma in modo differente per tecnica, forma, estetica, situazione e atteggiamento.
Dagli gnomi di Daniele Accossato, all’uomo che si inerpica, teso nello sforzo di scavalcare un muro, di Simone Benedetto, alle “Aracno figures” di Raimondo Castronuovo che sembrano emergere da qualche incubo. E poi, ancora, il piccolo uomo “Niemand” di Victor Frešo, dalla figura sproporzionata e dall’espressione arrogante, i “Guardiani della Valle” di Egidio Iovanna che, ieratici, sembrano osservare tutto dall’alto, o l’”Homo Homini” di Francesco Lupo, l’effigie di un uomo che porge in avanti se stesso per attraversare spazio e tempo. Dalla creatura mutante “Simbionte” di Marta Fumagalli, alla “Sposa Elefante” di Simone Consiglio, all’”Habitat-Corpo” di Monica Sgrò. Dalla figura antropomorfa composta da valigie accatastate e dall’incedere stanco, di Simona Mosca e Demis Pascal, alle sculture effimere che sembrano presenze fantasma, “Peuple de passage”, di Atelier 37.2, ai corpi scomposti di una famiglia di umanoidi chiusi in casse abbandonate di Valeria Vaccaro, fino ad arrivare al volto dell’”Altrove” di Vu Ju Ka.
La mostra “Transitory People – Precarious Lives” parte da una constatazione. Ogni giorno si riversano nei paesi occidentalizzati migliaia di profughi e persone in cerca di un futuro migliore senza però alcuna destinazione certa, raccogliendo spesso difficoltà e indifferenza. Intrusi o semplici passanti, oppure migranti giunti per restare, i nuovi arrivati vagano senza una meta precisa e si mescolano al pubblico dei visitatori, condividendone con esso luoghi e percorsi, facendosi specchio e metafora, in questa atipica convivenza, non solo dell’abbattimento delle frontiere e del globalismo contemporaneo, ma anche di un’emergenza più che mai attuale e irrisolta.
La mostra “Transitory People”
I 13 artisti emergenti, under 45, selezionati dal bando di concorso indetto dalla prima edizione del Premio d’Arte Quarelli, sono stranieri e italiani. Vu Ju Ka è vietnamita, Viktor Freso è nato a Bratislava ed è professionalmente cresciuto all’interno della scena artistica contemporanea dell’ex Cecoslovacchia, prima di esporre in Europa e in America; Atelier 37.2 è un collettivo formato da Francesca Bonesio, architetto italiano, e Nicolas Guiraud, fotografo francese.
L’artista più giovane ha 25 anni, Simone Consiglio, è allievo di Paolo Grassino all’Accademia di Belle Arti di Carrara dove sta terminando la Laurea specialistica in Scultura, dopo aver conseguito la Laurea Triennale all’Accademia di Belle Arti di Palermo. L’artista meno giovane, invece, ha 44 anni, Egidio Iovanna, e proviene da un’antica famiglia di cavatori e scalpellini che da più generazioni si tramanda l’arte della lavorazione della pietra.
Con la partecipazione alla mostra “Transitory People”, i 13 artisti concorrono all’assegnazione del Premio d’Arte Quarelli. Attraverso l’app scaricabile gratuitamente e disponibile su Apple Store e Google Play Store, per Android e iPhone, il pubblico potrà votare ogni singola opera con un numero che va da 1 a 5, secondo il proprio gradimento. L’app, sfruttando la tecnologia del proximity marketing, darà informazioni aggiuntive su ogni opera con schede dettagliate e note sull’autore. In occasione del finissage della mostra, domenica 25 settembre, verrà proclamato il vincitore a cui sarà corrisposto un compenso di 8.000 euro e la scultura entrerà a far parte della collezione permanente del Parco.
Le opere e gli artisti:
“Gnomi” di Daniele Accossato, “Peuple de passage” di Atelier 37.2, “The Wall” di Simone Benedetto, “Il sonno della ragione – Aracno figures” di Raimondo Castronuovo, “Sposa elefante” di Simone Consiglio, “Niemand” di Viktor Frešo, “Simbionte” di Marta Fumagalli, “Guardiani della Valle” di Egidio Iovanna, “Homo Homini” di Francesco Lupo, “Desiderio” di Demis Pascal e Simona Mosca, “Habitat-Corpo” di Monica Sgrò, “Handle with care” di Valeria Vaccaro, “Altrove” di Vu Ju Ka.
Il Parco d’Arte Quarelli
Dalla passione per l’arte contemporanea e l’amore per le Langhe, buen retiro e luogo di residenza estiva sin dagli anni’ 70, è nato quasi per gioco il Parco d’Arte Quarelli. Tanti artisti torinesi sono stati ospiti della tenuta Quarelli, lasciando così man mano traccia indelebile del loro passaggio. Con il tempo, l’arte ha iniziato a spingersi oltre le pareti di casa, per entrare a contatto diretto con la natura e diventare parte del paesaggio.
È nato così, in modo spontaneo, sviluppandosi e allargandosi sempre di più negli anni, il Parco d’Arte Quarelli, che al momento conta più di una ventina tra sculture e installazioni di grandi dimensioni, di artisti di fama o talenti emergenti. Il suo presupposto, la sua origine, deriva dall’infinito amore per il bello e dalla volontà di condivisione di quella fervida passione per l’arte contemporanea, che ha contraddistinto la vita dei suoi creatori.
Gli artisti in collezione permanente nel Parco d’Arte: Alfredo Aceto, Salvatore Astore, Ermanno Barovero, Simone Benedetto, Nazareno Biondo, Nicola Bolla, Alessandro Brighetti, Domenico Borrelli, Umberto Cavenago, Carlo D’Oria, Paolo Grassino, Enrico Iuliano, Luigi Mainolfi, Bruno Munari, Peppe Perone, Johannes Pfeiffer, Renato Sabatino, Kimitake Sato, Saverio Todaro, Adrian Tranquilli, Valeria Vaccaro, Fabio Viale.
Gli artisti e le opere della mostra “Transitory People”
Daniele Accossato, GNOMI
«Gli gnomi, piccole creature dei boschi, amano la natura e la libertà. Mangiano, ridono e bevono (talvolta anche troppo), ma sono grandi lavoratori e amano la famiglia. Sono come noi. Da sempre però sono costretti a vivere nascosti, nella paura, in tane sotterranee o tra le fronde del sottobosco. Questo perché gli umani adulti non tollerano la loro esistenza, non li vogliono credere reali, relegandoli in un mondo di miti e fiabe. Ora però gli gnomi sono stufi. Piano piano insorgono e infrangono le barriere, cominciano a muoversi liberamente, senza confini e senza timori». (Daniele Accossato)
Una visione ironica che allude a tematiche attuali e drammatiche, quali l’immigrazione e l’intolleranza, utilizzando l’immaginario fantastico dell’infanzia, come gli gnomi e i nani da giardino, fieri rappresentanti del gusto kitsch.
Un lieve senso di inquietudine e la costante presenza di antitesi e contraddizioni, come lo spirito irriverente che anima citazioni classicheggianti, sono le costanti della ricerca di Daniele Accossato (Torino, 1987). Nel 2012 si diploma cum Laude in scultura, presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Si aggiudica diversi premi, tra cui il Paratissima Prize nel 2012 e il primo premio Ugo Guidi. Nel 2015 tiene la sua prima personale nella Galleria Franz Paludetto, a Torino, dopo aver partecipato a numerose collettive tra cui: Scolpiti dalla crisi, Castello di Rivara Centro d’Arte Contemporanea; Art Jungle nei Giardini della Reggia di Venaria; Sweet Death, alla 56° Biennale di Venezia, nel padiglione del Guatemala; Maestri e giovani artisti dell’Accademia Albertina di Torino, alla Marmara University di Istanbul. Vive e lavora a Torino.
Atelier 37.2, PEUPLE DE PASSAGE
Peuple de passage, un popolo di passaggio, è una colonizzazione poetica del nostro spazio. Sculture effimere che paiono presenze fantasma, diventano protagoniste di un’avventura, girando per un mondo che sembra abbandonato dai suoi abitanti. Prive di monumentalità, sono statue senza alcuna pretesa di eternità, ma, anzi, simili agli esseri umani nella durata limitata della loro vita. Questi strani visitatori disegnano un immaginario atlante visivo del nostro mondo, invadendone lo spazio fisico e mentale. Metafora della specie umana, Un peuple de passage si interroga tanto sulla sua storia e il suo passato, quanto sul suo futuro.
Atelier 37.2 (Parigi, 2009) è un collettivo formato da Francesca Bonesio, architetto italiano, e Nicolas Guiraud, fotografo francese. Il duo sviluppa una forma di archeologia immaginaria che tende a includere il corpo umano nel disegno e nella creazione di micro-architetture, land-art e sculture abitate. Nell’era dell’Antropocene, la specie umana è diventata la forza geofisica più importante del pianeta, alterando radicalmente e inevitabilmente l’ambiente. La conclusione è tanto affascinante quanto spaventosa: la Terra e l’uomo hanno raggiunto un limite rischioso nella loro evoluzione. Quanto tempo ci resta per risanare l’ecosistema e la specie? In questa direzione, Atelier 37.2 interroga una certa idea di normalità/realtà e le sue stesse rappresentazioni attraverso installazioni spaziali che indagano il confine tra finzione e realtà.
Simone Benedetto, THE WALL
È un uomo che si inerpica, teso nello sforzo di scavalcare un muro, a venir congelato nell’attimo in cui viene trattenuto, tirato per i lembi dei vestiti, da una presenza immateriale e intangibile. Nessun indizio, se non un’inquietante e oscura ombra proiettata sul muro, ci rivela l’identità di chi contrasta la fuga. Viene rappresentata una scottante attualità, i muri che negli ultimi mesi hanno iniziato materialmente a essere costruiti sulle frontiere e le barriere culturali che milioni di persone sono costrette oggi ad affrontare. L’entità incorporea che frena l’uomo, se da un lato può sembrare un impedimento esterno, dall’altro raffigura la paura che accomuna chi è costretto all’esodo, ovvero il timore di abbandonare la propria famiglia, la propria terra e la propria vita.
Le opere di Simone Benedetto (Torino, 1985) affrontano tematiche legate al sociale, nascendo dal quotidiano, da uno sguardo critico sul presente per mostrare contraddizioni e problemi della società moderna. Dopo la laurea all’Accademia Albertina di Belle Arti in scultura, per la sua formazione artistica fondamentali sono state le esperienze all’estero nelle accademie di Valencia e Lisbona. Nel 2013 vince il concorso indetto dal bioparco Zoom di Torino ed è selezionato come miglior artista della nona edizione di Paratissima. Nel 2015 si tiene la sua personale nella Galleria Franz Paludetto di Torino e partecipa a numerose collettive, tra le quali Scolpiti dalla crisi, al Castello di Rivara Centro d’Arte Contemporanea, e Trasmutazioni, presso la Confraternita di San Vittore per l’Arcidiocesi di Vercelli. Vive e lavora a Torino.
Raimondo Castronuovo, IL SONNO DELLA RAGIONE – ARACNO FIGURES
Figure antropomorfe, che sembrano emerse dal sottosuolo o da qualche incubo, entrano in scena dando vita a una rappresentazione sottilmente grottesca. Gambe e testa di chiara matrice umana compongono queste creature aracniformi che si espandono così rapidamente, invadendo lo spazio in cui arrivano, tanto da arrampicarsi sia sulle pareti di casa che sugli alberi. Non si sa se tali esseri siano pericolosi o meno, ma è sempre il timore per il diverso e l’alterità a predominare e a tenere l’osservatore turbato a debita distanza. L’installazione si ispira a una famosa acquaforte di Goya, dal titolo “Il sonno della ragione genera mostri”, che ancor oggi invita alla riflessione sull’importanza della ragione umana, raffigurando il male che minaccia chi l’abbandona.
Le inquietudini dell’uomo, come la solitudine interiore, sono al centro dell’indagine di Raimondo Castronuovo (Napoli, 1981). Ansie e paure del vivere contemporaneo sembrano emergere dalle sue opere. Objet trouvé, elementi della natura o materiali di scarto vengono spesso ibridati a elementi antropomorfi, dando luogo a nuove forme di vita. Tali creature, frutto di inaspettati innesti, dialogano così tra loro e con il luogo ospitante, dando vita a rappresentazioni spesso paradossali e grottesche. Architetto, scultore e pittore, si laurea in architettura nel 2009 portando avanti il suo percorso artistico tra Napoli e Berlino. Vincitore nel 2013 del Premio di scultura Who art you?, tenutosi a Milano, ha partecipato a numerose mostre personali e collettive sia in Italia che in Germania.
Simone Consiglio, SPOSA ELEFANTE
È costantemente in transito verso un qualcosa che si configura come l’ennesima svolta, ma anche quando la meta sembra prefissata già si pensa a un nuovo traguardo. Ecco che da una riflessione sul tema della precarietà nasce la Sposa Elefante, una figura in cui migrazione umana e animale vengono unite da un trapianto innaturale. Un pesante cranio di elefante va a costituire il velo nuziale di una donna, inducendola a un inevitabile processo di zoomorfizzazione. Non è un elmo o un’arma ma semplicemente un innesto insolito, qualcosa di terrificante ma allo stesso tempo di languido, che racconta come la migrazione umana, tanto quanto quella dell’elefante, possa durare tantissimi anni. Una figura perturbante e al tempo stesso familiare: donna, sposa umile e pellegrina, in attesa di un fato predeterminato che tutto si compia e si ripeta.
Allievo di Paolo Grassino all’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove sta terminando la Laurea Specialistica in Scultura, Simone Consiglio (Palermo, 1991) consegue la Laurea Triennale all’Accademia di Belle Arti di Palermo con Salvatore Rizzuti e Giuseppe Agnello. Nonostante la giovane età ha già esposto in varie collettive tra cui New Year’s Brunch 2015 presso Teké Gallery a Carrara; Via delle Ceramiche d’Italia a Maierà, in provincia di Cosenza, nel 2014; Invasioni Urbane presso il Conservatorio V. Bellini di Palermo nel 2013. Attualmente vive e lavora tra Palermo e Carrara.
Viktor Frešo, NIEMAND
Niemand è la statua di un piccolo uomo, dalla figura sproporzionata e l’espressione arrogante dipinta sul volto. Il corpo è approssimativamente suddiviso in tre terzi, ciascuna delle quali ne rappresenta una parte: testa, tronco e gambe. Proprio questa divisione semplicistica crea una mancata corrispondenza anatomica e, in virtù di tale sproporzione, la testa enorme a prima vista risulta grottesca. È un mix di attributi negativi a esser condensati in Niemand, in cui si possono ritrovare arroganza mista a negatività, come un complesso di inferiorità accompagnato a un dannoso e malsano egocentrismo. In quest’opera si ritrova in modo ostentato l’essenza di tutte quelle emozioni negative che le persone normalmente cercano di nascondere, evocando paradossalmente, nella loro evidenza, il senso del ridicolo.
La cifra poetica di Viktor Frešo (Bratislava, 1979) si muove su di un ampio spettro tematico, saturo di provocazioni e di osservazioni taglienti. Tramite opere d’arte apparentemente semplici, Frešo conduce profonde e sofisticate riflessioni su vari temi di attualità. Spesso molto critico riguardo all’ambito in cui lavora, non si esime dall’esprimere il suo disprezzo verso il sistema del mercato dell’arte e i suoi meccanismi, bilanciando sempre le sue provocazioni con un tono leggero e giocoso. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti e Design di Bratislava e Praga, Frešo è professionalmente cresciuto all’interno della scena artistica contemporanea dell’ex Cecoslovacchia, per poi esporre largamente sia in Europa che in America.
Marta Fumagalli, SIMBIONTE
Simbionte è una creatura mutante, in cui un albero incompleto e una figura antropomorfa, dalle fattezze lignee, convivono e si completano, dando origine a un nuovo esemplare. Si tratta di un’entità sconosciuta derivante dalla combinazione/associazione di due esseri di specie diversa. Trasponendo il fenomeno della simbiosi nell’ambito umano, Simbionte porta a immaginare una società in cui ogni individuo ha la possibilità di sostare o radicarsi nel paesaggio a sé più congeniale, prescindendo dalle proprie origini. La scultura diventa, così, un simbolo, la rappresentazione della necessità di un luogo o di una dimensione ideale, senza barriere o limiti territoriali, in cui gli individui/simbionti possano convivere traendo reciproco vantaggio.
L’indagine poetica di Marta Fumagalli (Milano, 1985), spazia dal paesaggio urbano alla sfera del quotidiano, spingendosi verso quei margini indecisi di realtà in cui è possibile alimentare micro utopie. Diplomata in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, ha frequentato l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi. Dal 2006 partecipa a diverse mostre collettive tra le quali Salon I presso il Palazzo della Permanente di Milano; Interside.Meet-land presso la Fabbrica del Vapore, Milano; Nemeton all’interno della Riserva Naturale della Fagiana, Magenta; Paradigmi, presso lo spazio Geh8 di Dresda e alla Biennale di Dakar. Sin dal 2011 intrattiene una fitta collaborazione con il Giappone, partecipando per ben due volte consecutive alla Biennale di Biwako a Kyoto. Vive e lavora a Milano.
Egidio Iovanna, GUARDIANI DELLA VALLE
I Guardiani della Valle, figure ieratiche che paiono osservare dall’alto, nascono come atto di indignazione verso uno stato di cose, sia esteriore che interiore al tempo stesso, non condiviso e compromesso. Paiono raffigurare un’entità altra cui affidarsi per contrastare la precarietà e l’inconsistenza della contemporaneità e riconquistare così nuovi equilibri. Il gruppo pone inevitabilmente la questione dello scambio e della convivenza di identità diverse, corpi autonomi che rimangono riconoscibili nella loro individualità, grazie anche alle loro differenze, ma che contribuiscono alla nascita di un’inedita unità. Una riflessione intima sulla necessità di una forma di bellezza alternativa, quella delle relazioni, più aperta alla dimensione collettiva e rivolta al molteplice.
Egidio Iovanna (Avellino, 1972), proviene da un’antica famiglia di cavatori e scalpellini che da più generazioni si tramanda l’arte della lavorazione della pietra. La sua formazione giovanile si svolge a Carrara, all’IPSAM e all’Accademia di Belle Arti, per proseguire lavorando presso lo Studio Giovannini di Pietrasanta. Dal 2006, nell’ambito del progetto Europa Leonardo Da Vinci, insegna “Tecniche di scultura” agli studenti dell’Università di Belle Arti di Istanbul. Partecipa a diversi simposi e collettive internazionali, in America, in Turchia, negli Emirati Arabi, a Dubai e Abu Dhabi. Nel 2010 l’Università degli Studi di Napoli Federico II, in collaborazione con la Sovrintendenza, organizza una sua mostra personale presso la biblioteca BRAU di Napoli. Vive e lavora a Fontanarosa (AV).
Francesco Lupo, HOMO HOMINI
Homo homini è la simbolica effigie di un uomo che porge in avanti se stesso, per attraversare spazio e tempo, confini e generazioni: un idolo all’effimerità del qui e ora, che sembrerebbe rappresentare lo strenuo tentativo di perpetuare la specie e la propria cultura. Nel suo moltiplicarsi all’infinito, verso il cielo, pare clonarsi in una catena senza fine di alter ego, interrogandosi sulla relazione tra identità, collettività e anonimato. È proprio il rapporto tra collettività e individuo a dover essere maggiormente indagato, come ambito in cui spesso è la solidarietà, l’indottrinamento o altri fattori, a condizionare le dinamiche della sfera intima e personale.
Figlio di un orafo, Francesco Lupo (Pescara, 1985) sin da piccolo si avvicina alle arti manuali, respirando l’aria del laboratorio e giocando con il suo fuoco. Tentando di sfuggire a ciò che sembrava un destino già scritto si perde tra diverse passioni, fino al giorno in cui, passando per una cava di pietra, si imbatte in un’iguana incastrata nella roccia. Studia all’Accademia di Belle arti di Urbino, diplomandosi con 110 e lode, e successivamente all’Accademia di Belle Arti di Istanbul. Viene selezionato come secondo classificato al Premio Abbado, sezione Arte Pubblica, ed espone nel 2015 a Torino al FISAD, Festival Internazionale delle Scuole d’Arte e di Design, come rappresentante per la sezione Scultura dell’Accademia di Urbino. Vive e lavora a Pescara.
Simona Mosca e Demis Pascal, DESIDERIO
È una figura antropomorfa composta da valigie accatastate, dall’incedere stanco, a richiamare inequivocabilmente il tema del viaggio. I bagagli usati e logori simboleggiano la povertà e il disagio da cui i profughi fuggono, e che risultano spesso il loro unico avere. È infatti la necessità a costringere ad abbandonare la propria terra, e che spinge l’uomo ad andare avanti nonostante il filo spinato che frena la sua marcia di speranza. Come i viandanti delle favole, porta in spalla un fagotto di rete, che tuttavia non contiene i suoi pochi averi ma bensì il mondo intero: e se da un lato tale fardello ci ricorda la globalità del fenomeno, dall’altro rappresenta il bagaglio culturale che ognuno di noi reca con sé, come ricchezza di storia e tradizioni che contraddistinguono l’umanità intera.
Demis Pascal (Pinerolo, 1979) fotografo e jewelry designer, inizia il suo percorso artistico dedicandosi alla scultura nel 2006, partecipando a diverse iniziative espositive. L’incontro con la cultura celtica è determinante per l’allargamento dei suoi orizzonti creativi, portandolo alla sperimentazione di diversi materiali tra cui l’argento e il bronzo. Dalla comune passione per la musica e l’arte nasce il collettivo formato insieme a Simona Mosca (Pinerolo, 1982), di cui Desiderio risulta essere l’opera di esordio.
Monica Sgrò, HABITAT-CORPO
Habitat-corpo rappresenta un luogo totalmente differente rispetto a quello in cui si vive, è un contro-spazio eterotopico, un rifugio in cui il corpo è protetto e prende contatto con sé e con la presenza di chi lo ha realizzato. Varcando la soglia, è uno spazio vuoto e immateriale ad accogliere qualsiasi umano e qualsiasi corpo, in un’avvolgente dimensione parallela situata tra abitato e abitante, tra individuo e collettività. L’opera, pregna delle identità che l’hanno tessuta, si proietta sul corpo del nuovo ospite, che a sua volta deve accogliere in sé le antecedenti presenze. È così che l’Habitat-vuoto si contrappone a uno spazio-pieno di pregiudizi e false credenze, diventando il luogo in cui ogni nuovo abitante in transito traccia il proprio passaggio, unendosi agli ospiti precedenti e futuri, in nome di un’auspicabile pacifica convivenza.
«Rimaniamo tracce visibili solo se siamo con gli altri», afferma Monica Sgrò (Milano, 1973) parlando delle sue installazioni; opere in cui risulta centrale la partecipazione corale come determinante la contaminazione tra valore sociale e ricerca artistica. Laureata in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, in seguito frequenta la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario e lavora tuttora come insegnante di scultura presso il Liceo Artistico Statale Caravaggio di Milano. La sensibilità a tematiche sociali e la passione per l’arte conducono il suo percorso didattico verso i metodi pedagogici di Munari e Steiner. Attualmente si dedica a proposte di arte partecipata e a workshop di scultura, dove la creazione di tessuto materiale coincide con la ricostruzione del tessuto sociale, utile alla collettività.
Valeria Vaccaro, HANDLE WHIT CARE
Tre casse di varie dimensioni appaiono misteriosamente abbandonate in un prato. Contengono dei corpi scomposti di una famiglia di umanoidi, spediti sulla Terra non si sa da quale pianeta. Sono esseri molto fragili, come lascia intuire la scritta ai lati delle casse, Handle with Care, e in grado di autoprodurre energia elettrica. Solo al tramontare del sole, attraverso dei piccoli fori, si può intravedere la loro presenza all’interno dei contenitori. Non è dato sapere se siano stati spediti qui, in attesa di capire se sulla Terra vi possa essere per loro un destino migliore o se siano solo di passaggio. L’unica certezza è la loro paura, che li frena ancora adesso dall’uscire dal rifugio/involucro che li cela, nel timore di sentirsi degli estranei in un ambiente ostile.
Tutta la ricerca di Valeria Vaccaro (Torino, 1988) ruota attorno al fuoco, elemento purificatore e forza creatrice più che fattore di distruzione. È proprio la combustione a rendere più vero quel materiale ligneo che in realtà è marmo, dando vita a ossimori visivi dall’effetto spiazzante, in cui il legno appare freddo o il marmo brucia e si carbonizza. Laureata in scultura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, inizia sin dal 2005 a esporre partecipando a collettive, premi, Master Class, distinguendosi nel 2012 tra i migliori artisti di Paratissima. Nel 2013 è selezionata per la Biennale itinerante europea Jeune Création Européenne. Nel 2015 espone al Castello di Rivara Centro d’Arte Contemporanea, al Coffi Festival di Berlino, nella chiesa di San Vittore per l’Arcidiocesi di Vercelli e a Exhibit – The Others all’ex-borsa valori di Torino.
Vu Ju Ka, ALTROVE
Come gli uccelli volano da un posto a un altro, gli uomini da sempre migrano a causa dei cambiamenti delle condizioni di vita, della necessità di procurarsi nuove risorse o altre terre da occupare. In questo errare, alcune persone rimangono, altre continuano a viaggiare, sempre alla ricerca di una vita migliore; nell’incertezza della speranza c’è sempre un tendere a un Altrove.
La scultura rappresenta un volto, costruito come un albero, radicato nella terra da cui trae nutrimento, mentre l’uovo e le piume al suo interno sono metafora della vita del migrante: come si dice in Vietnam «in una terra di pace gli uccelli si posano». Costruita come un disegno, composta da tratti che delineano la forma nelle tre dimensioni, l’opera si lascia compenetrare e mutare dal paesaggio circostante, soggetto al variare delle stagioni.
Sulla possibilità di conciliare valori tradizionali e linguaggio artistico contemporaneo verte tutta la ricerca di Vu Ju Ka (Vietnam, 1978), nel tentativo costante di mantenere un collegamento tra le opere e la propria esperienza di vita. Compiuti gli studi presso l’Accademia di Belle Arti del Vietnam, nel 2006 vince il primo premio al Concorso di Arte Contemporanea Viet-It organizzato dall’Ambasciata Italiana in Vietnam, ottenendo una borsa di studio presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, dove si laurea in pittura nel 2013. Nel 2014 si iscrive alla specialistica in scultura presso la stessa accademia. Le sperimentazioni artistiche di Vu Ju Ka passano attraverso diversi materiali, per concentrarsi infine principalmente sui metalli. Vive e lavora in Valle d’Aosta.
Gli artisti e le opere della collezione permanente del Parco d’Arte Quarelli
Alfredo Aceto
NGC 6543, 2012
NGC 6543 è una balena in scala naturale, ritratta nell’attimo prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta. Creatura in posa ieratica, da cui scaturisce una sorta di spiritualità, la scultura è un’effigie riferita all’ego, inserita in una ricerca in cui l’autoritratto ritorna in modo costante, in forme assolutamente inaspettate. Sono piccoli dettagli a rivelare la presenza dell’autore nelle varie opere, e come afferma l’artista stesso: «NGC 6543 è una nebulosa planetaria che hanno scoperto nel diciottesimo secolo e che pare sia una delle più giovani mai analizzate. La NGC 6543 è collocata dentro al mio occhio che ho prestato a NGC 6543».
Il lavoro di Alfredo Aceto (Torino, 1991) è caratterizzato dalla costante narrazione e dall’umorismo. Le sue opere rivelano il paradosso dell’immortalità e la sua impossibilità. Sviluppando il suo lavoro in un percorso creativo che passa attraverso molteplici e mai veramente risolte fasi della crescita, Alfredo Aceto, a dispetto della sua giovane età, nutre la propria ricerca mettendo in discussione se stesso e, più in generale, l’ego che si respira in ogni persona, anche se solo a livello latente. Tra le mostre si ricordano iii-ooo (con Peter Hutchinson), alla galleria Blancpain Art Contemporain di Ginevra; Lullabies for obsessions, alla galleria Changing Role di Roma; Format à l’italienne all’Espace le Carré di Lille; Special Project, alla Maison Folie Moulins di Lille; One Thousand Four Hundred and Sixty presso Peep-Hole, Milano; Ari Mortis al Museo del 900 di Milano; This is Tomorrow alla galleria Anna Rumma di Napoli; Su Nero Nero galleria Franz Paludetto di Torino; OPS! all’Ambassade de France en Italie, Torino. Vive e lavora tra Torino e Losanna.
Salvatore Astore
SUTURA E FORMA, 2010
Nella serie di sculture Sutura e Forma, Salvatore Astore insiste sui concetti di superficie e forma come elementi fondanti di questo linguaggio. Se evidente è la presenza monumentale di questi corpi ogivali di chiara matrice anatomica, realizzati in ferro saldato o in acciaio e attraversati da profonde saldature (suture appunto) simili a cicatrici, altrettanto subitanea è la loro natura metafisica, il loro carattere enigmatico che li rende simili ad affilati monoliti totemici. La pulizia delle linee, la nudità della materia esperita nella sua originale durezza, contrastano con la fragilità del contenuto evocato. Espressioni di un “Minimalismo organico”, queste sculture liberano nello spazio un’energia possente, alimentata dalla tensione fra la plasticità delle curvature esterne e la suggestione misteriosa emanata dal vuoto custodito nella concavità interna. (Gabriella Serusi)
Attivo dagli anni ’80 sulla scena italiana e internazionale, Salvatore Astore (San Pancrazio Salentino, 1957) ha privilegiato i linguaggi della scultura, della pittura e del disegno. Ha studiato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Fra le mostre da ricordare, si segnalano nel 1991, Anni ‘90 a cura di R. Barilli; nel 1993 al Contemporary Art Museum in Connecticut; nel 1996 alla XII Quadriennale di Roma. Seguono numerose personali in collaborazione con varie gallerie italiane. Recentemente, Astore ha partecipato alla XIII Biennale di Scultura di Carrara, a cura di F. Poli e ha tenuto la personale C’era una volta e una stanza, presso la Fondazione 107 di Torino. Fra le ultime collettive, ricordiamo Trent’anni di arte contemporanea al Castello di Rivara, e nel 2016, Le stanze del visibile, Fondazione Amleto Bertoni, a Saluzzo. Vive e lavora a Torino.
Ermanno Barovero
IBRIDO TRAFITTO, 1987
«I frutti della paura di Barovero vivono in una dimensione molto diversa. C’è qualcosa di surreale-fantastico (un ricordo delle piante carnivore nei vecchi film di fantascienza?) nelle grosse forme oggettuali rosso-sanguigno in ferro, con punte e lacerazioni; forme sospese a mezz’aria, infilzate da lunghe lance o arpioni fissati verticalmente su dei piedistalli. Se la paura fosse un albero, che frutti farebbe?» (Francesco Poli)
La lamiera si fa carne, l’elemento industriale diventa organico, come se la scultura fosse la sintesi del non sempre felice incontro-scontro tra uomo e tecnologia. Il dato artificiale viene così a coincidere con quello biologico, mescolandosi per dare luogo a nuove forme di vita, gli ibridi, opere dense di angoscia e inquietudine, in cui appare forte la carica ideologica e sociale.
VISIONI DI HIMNEN, 1989
Nei tardi anni ‘80 è frequente ritrovare nel percorso artistico di Barovero l’utilizzo della lamiera, applicata all’installazione. Al contrario delle esche, in cui è molto forte la dimensione pittorica, il materiale comunemente utilizzato dall’industria si presenta qui, in Visioni di Himnen, completamente nudo, spoglio, geometricamente lineare, rivendicando la propria dignità ed esistenza, al netto di qualsiasi interferenza evolutiva, biologica e organica. L’installazione completa raccoglieva dodici piramidi di 4 metri di altezza, ribaltate con i vertici a terra, metafora del «ribaltamento della condizione storica dell’uomo, privata delle illusorie radici del falso sapere e destinata a dissolversi nell’ironica concretezza della quotidianità». (Francesco Lodola).
Lo stile di Ermanno Barovero (Torino, 1956), esponente della generazione artistica emersa subito dopo l’ondata della Transavanguardia a partire dai primi anni ‘80, affonda le sue radici nella recente tradizione dell’avanguardia, rappresentata dall’Arte Povera. Fortemente attaccato alla pittura e all’incisione, si cimenta perlopiù nell’installazione, realizzando composizioni ambientali rigorose di ferro e lamiera. Recente è per l’artista invece il ritorno alla pittura: «Del resto, per me, il legame tra pittura e natura è stato sempre essenziale. E così dopo una varietà di esperienze nel campo della tridimensionalità ho dipinto una rosa rossa. Sembrava un elemento tradizionale, tardivamente romantico, ma per me la rosa era complicata non solo come struttura morfologica ma come simbolo».
Simone Benedetto
IDENTITY FOR SALE, 2014
Persone prigioniere in teche trasparenti, accatastate come in un deposito, sono metafora in realtà di qualcos’altro di più smaterializzato. Gli esseri umani “stoccati” sono simbolo del pericolo che le nostre identità, cioè i nostri dati personali, corrono ogni giorno nel web, trattati alla stregua di merce di scambio. Identity for Sale illustra, in modo sintetico e immediato, quel traffico di informazioni che attraversa internet in modo sotterraneo e impercettibile. Ignari delle conseguenze sono in pochi a chiedersi quale sia il vero destino delle banche dati dei vari social network, spontaneamente alimentate dagli utenti ogni giorno. Lungi dal formulare uno sterile giudizio sulle criticità del presente, l’intento è di lanciare un messaggio e un segnale d’allarme, al fine di raggiungere una maggiore consapevolezza collettiva.
Le opere di Simone Benedetto (Torino, 1985) affrontano tematiche legate al sociale, nascendo dal quotidiano, da uno sguardo critico sul presente per mostrare contraddizioni e problemi della società moderna. Dopo la laurea all’Accademia Albertina di Belle Arti in scultura, per la sua formazione artistica, fondamentali sono state le esperienze all’estero nelle accademie di Valencia e Lisbona. Nel 2013 vince il concorso indetto dal bioparco Zoom di Torino ed è selezionato come miglior artista della nona edizione di Paratissima. Nel 2015 si tiene la sua personale nella Galleria Franz Paludetto di Torino e partecipa a numerose collettive, tra le quali Scolpiti dalla crisi, al Castello di Rivara Centro d’Arte Contemporanea, e Trasmutazioni, presso la Confraternita di San Vittore per l’Arcidiocesi di Vercelli. Vive e lavora a Torino.
Nazareno Biondo
AQUILERA A SONAGLI, 2014
Aquilera è un animale immaginario, agile e forte come una pantera nera, dalla pelle impermeabile e squamosa, con grandi ali d’aquila che le permettono di spiccare il volo. Dalla bocca le spunta una lingua rossa e biforcuta e affilati canini, ricolmi di veleno. Normalmente costruisce il nido dentro grandi capannoni, autorimesse abbandonate, depositi per auto o carrozzerie. Aquilera comincia ogni giornata alla ricerca di un suo simile, ancora mai trovato, perché lei non sa di essere unica, nata per caso da una circostanza fortuita. Dotata di infinito istinto materno, passa il suo tempo a covare perché una mattina, dopo aver sognato di fare un uovo, vedendo al suo risveglio un sasso di marmo bianco, nella confusione tra realtà e sogno, si convinse di averlo fatto davvero. Da quel giorno lo custodisce gelosamente nell’attesa che si schiuda.
Dal marmo, materia e matrice delle sue sculture, Nazareno Biondo (Torino, 1985) fa emergere oggetti del quotidiano, prodotti di uso comune quanto icone consumistiche del nostro tempo, muovendosi tra perfezione formale e rielaborazione concettuale. Attraverso un gelido iperrealismo riproduce nei dettagli armi, rifiuti e carcasse della società contemporanea, rivelando uno sguardo ironico, ma allo stesso tempo drammatico, sul mondo. Diplomatosi con lode in scultura nel 2011 all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, partecipa già dal 2008 a simposi di scultura nazionali e internazionali, in Italia e all’estero, vincendo premi e concorsi. Espone presso istituzioni pubbliche e private come la Reggia di Venaria, il Castello di Rivara, l’Archivio di Stato e la Camera di Commercio di Torino. Vive e lavora a Cafasse (TO).
Nicola Bolla
AGAVE, 2004
Una piccola e tentacolare agave di rame diventa poesia, epitaffio per una pianta che non esiste più. Memoria storica e cristallizzazione di un ricordo che rivive, eternato, nella rappresentazione di un frammento di natura. La scultura rievoca i versi e l’atmosfera della nota lirica di Montale, l’Agave sullo scoglio, in cui la pianta, abbarbicata a una roccia flagellata da violente mareggiate, resiste impavida, immobile, attaccata con forza e tenacia al suo supporto. E se da un lato l’immutabilità dell’arbusto, dato qui dal suo farsi scultura, rappresenta il resistere alla fugacità del mondo e al male di vivere, dall’altro sottolinea il suo esser monumento, privato ormai nella sua staticità di ogni possibile gioia o dolore, cioè di qualsiasi effluvio di vita.
Sono oggetti sia naturali che artificiali, ma sempre altamente simbolici, a dar vita alle caleidoscopiche Wunderkammer di Nicola Bolla (Saluzzo, 1963), in cui la realtà cede il passo all’immaginario onirico del sogno. Teschi, animali, armi o catene vivono di ossimori sia tematici che estetici, come buio e luce, opulenza e miseria, in cui i cristalli swarovski come le carte da gioco, la “pelle” delle sue sculture, decodificano in modo simbolico il principio della vanitas entro cui gravita il mondo. Ha esposto in numerose sedi private e pubbliche in Italia e all’estero, fra le principali ricordiamo: nel 2000, Fairy Tales, alla Nohra Haime gallery, New York; nel 2004, Il gioco delle parti, al Parlamento europeo di Bruxelles; nel 2007, N.B., alla Sperone Westwater gallery di New York; nel 2009 alla 53esima Biennale di Venezia; nel 2012 alla galleria Robilant & Voena di Londra; nel 2015, Vanitas e mandala a La Galerie Italienne di Parigi.
Domenico Borrelli
COLONNA, 2012
Nell’assoluta ed evidente bivalenza dell’opera, nel suo esplicitare apertamente la relazione, tematica e materica a un tempo, tra scultura e architettura, tra corpo e spazio, Domenico Borrelli continua nella sua ricerca che celebra il corpo come filo conduttore (Nietzche), il corpo quale luogo totemico – per l’arte e la cultura – che si costruisce sulla metrica e sull’ordine, strappandosi, in un continuo movimento a togliere, dal potere del caos. Ma il corpo è anche il luogo della passione, dell’estesia prima che dell’estetica: l’opera si fa simbolo di un’etica del lavoro e di un atteggiamento di strenua resistenza, in cui l’arte è sostegno e pilastro, elemento portante di ogni cultura, lotta contro un peso talvolta fin troppo gravoso che preme, non sempre giustificato, sulle ossa e sui muscoli dell’artista.
(Alessandro Carrer, 2011)
FOCA, 1989
Gli animali sono un soggetto ricorrente nell’iconografia dell’artista, soprattutto nel periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Foca, opera nata con intenti di sensibilizzazione verso l’opinione pubblica su tematiche ambientali e animaliste, appartiene a una serie di lavori originariamente realizzati in gesso rivestiti di antirombo, vernice nera a base bituminosa utilizzata per insonorizzare la scocca delle carrozzerie delle auto. Installazione realizzata per la prima personale all’Unione Culturale Franco Antonicelli, Arti Visive Proposte 1988, Foca poi è stata realizzata in bronzo nel 1989, in occasione della mostra personale La Città e i Segni al Circolo Culturale Portes, a cura di Filippo Fossati.
LA COLONNA E IL SACRO, 2011
Fossero esistiti i giganti, qualcuno ne avrebbe trovato i resti. Pare l’esito di questo sillogismo La colonna e il sacro di Domenico Borrelli (Torino, 1968), epifania surreale di ciclopici frammenti ossei sparsi sulla nuda terra, celati ai più da una fitta vegetazione. Gli ipertrofici reperti archeologici di esseri umani fuori scala, che sembrano appartenere a una dimensione mitologica piuttosto che reale, si rivelano invece nella visione di Borrelli degli archetipi strutturali architettonici. La spina dorsale, che giace spezzata nel folto del bosco, in realtà è la rovina di una colonna, intesa come elemento portante di un’improbabile architettura organica. Non un ritrovamento di origine biologica ma una vera e propria struttura di sostegno, risultante dalla sommatoria di vari dischi vertebrali, sempre uguali, repliche seriali di un’inesistente vertebra ideale, impilati per costruire una «stele che metaforicamente unisce terra e cielo, perché parte dell’architettura del mondo». Accanto alla colonna giace il Sacro, sua parte terminale, appendice ossea su cui viene scaricato il peso del corpo, qui simbolo di equilibrio non tanto statico quanto interiore. Ma l’apparente cedimento e frattura dell’insolito pilastro non è detto sia dovuto a un carico – esistenziale? – eccessivo, quanto invece a una simbolica mitosi. Non una menomazione ma l’espressione di una potenzialità, riferita al potersi autorigenerare e ricrescere in modo infinito, estendendosi fino a toccare il cielo in un senso, oppure scendendo verso profondità inaspettate, alla stregua di un rizoma, dall’altro. Ciascun frammento posto a terra è come se germogliasse per semplice talea, diventando così metafora di una più ampia rinascita ed evoluzione.
Il corpo, come elemento strutturale e architettonico, è sempre stato motivo di riflessione nel lavoro di Domenico Borrelli (Torino, 1968). Movimento, masse e materia sono gli elementi fondamentali per sviluppare il pensiero nella figurazione. Dopo l’Accademia delle Belle Arti di Torino frequentata negli anni ’80, determinante nel 1984 l’incontro con Luigi Mainolfi, di cui è stato a lungo assistente. Al 1987 risale la sua prima collettiva presso il MACAM di Maglione Canavese. Nel 1988 vince il secondo premio a Tokyo (Second Rodin Grand Prize Exhibition) per la scultura in bronzo L’ultima foca. Su di lui hanno scritto critici come Angelo Mistrangelo, Luisa Somaini, Elena Volpato, Guido Curto, Marisa Vescovo, Alessandro Carrer, Martina Corgnati, Tiziana Conti, Francesco Poli, Luca Beatrice e Alessandro Demma.
Alessandro Brighetti
PASSIFLORA, 2014
Tramite Passiflora viene indagata l’evoluzione della scultura/macchina in chiave di autosufficienza energetica. Nella nuova serie cui l’opera appartiene, l’energia necessaria al movimento viene prodotta e distribuita dalla scultura stessa, trasformandosi così in un organismo inorganico che vive di vita propria. L’energia solare ed eolica come la repulsione magnetica sono le forze inesauribili che alimentano la fame di autonomia delle sculture, portando l’attenzione su concetti quali l’ibridazione fra natura e robotica, la sempre maggiore artificialità della natura, la necessità di una coscienza ecologica e, naturalmente, l’evoluzione della macchina. Questo concetto, secondo l’artista, può realizzarsi solo nel momento in cui il prodotto artificiale imita e assorbe le dinamiche proprie della vita organica, ripercorrendone l’evoluzione.
Tutto il macrocosmo di Alessandro Brighetti (Bologna, 1978) gravita attorno alla sinergia fra Arte e Scienza, e alla ricerca e formalizzazione della stessa. Nato in una famiglia interamente composta di medici, ne assorbe l’atteggiamento del ricercatore scientifico, derivandone anche un imprinting culturale, inevitabilmente di matrice scientifica, che si ripercuote su tutta l’opera dell’artista recriminando il proprio spazio. Non portato per natura alla professione familiare, dopo un’esistenza tanto disordinata quanto colorata, decide nel 2008 di dedicarsi all’arte iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha esposto in numerose personali e collettive in istituzioni pubbliche e private, sia in Europa come in America, dove è rappresentato da una galleria di New York. Ha appena terminato una residenza artistica di sei mesi alla Mana Contemporary a New York.
Umberto Cavenago
LA 74, 2006
È L’alcova d’acciaio, romanzo in cui Filippo Tommaso Marinetti racconta la sua esperienza bellica alla guida dell’autoblinda Lancia-Ansaldo 1ZM durante la prima guerra mondiale, a ispirare LA 74 di Umberto Cavenago. L’opera reinterpreta in chiave antibellica l’innovativo mezzo d’assalto celebrato da Marinetti in nome del mito macchinista, proprio del futurismo. LA 74 è un possente veicolo in acciaio corten, spoglio però di qualsiasi proposito belligerante e costruito con volumi solidi, geometricamente netti. Inespugnabile solo all’apparenza, la scultura-alcova è abitabile e contiene al suo interno due cuccette in stile militare. Riparo perfetto dove rifugiarsi così alla ricerca di pace e silenzio, anche se inoffensiva e priva di qualsiasi forma di armamento, continua suo malgrado, nonostante tutto, a emanare un’inquietante sensazione di aggressività latente.
Passione per la cultura artistica e del progetto si fondono insieme nella ricerca di Umberto Cavenago (Milano, 1959), in cui è ricorrente l’uso di geometrie solide, l’ispirazione plastico-architettonica e l’occupazione dello spazio come parte del suo fare scultura. I suoi interventi intendono sempre stabilire un rapporto con lo spazio architettonico, dando luogo a un dialogo formale e volutamente destabilizzante. Le sue esposizioni più importanti si svolgono alla XLIV Biennale di Venezia, al Centro de Arte Reina Sofia a Madrid, al Martin-Gropius-Bau di Berlino, al Center of the Arts a Pittsburgh, al Museo Pecci di Prato, alla Biennale di Johannesburg e alla XII Quadriennale d’Arte a Roma. Nel 1996 è presente alla XXIII Biennale di San Paolo, esponendo in seguito alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e al Centre National d’Art Contemporain di Grenoble. Vive e lavora a Lugano.
Carlo D’Oria
LASSO, 2010
La scultura è a tutti gli effetti una trave, piegata in corrispondenza di un evidente punto di flesso, come se fosse in procinto di rompersi. La struttura è metafora della collettività, solida solo finché resta compatta e passibile di cedimento nel momento in cui viene a mancare questo presupposto, sottolineando, così, la necessità di collaborazione e di cooperazione all’interno della società. È proprio la zona della trave in cui il materiale si sfalda, ovvero dove la moltitudine delle figure umane si diradano e si allontanano gradualmente le une dalle altre, così da iniziare a distinguerle, che l’indebolimento si aggrava tanto da far presumere un’imminente rottura.
«Considerando ogni uomo unico detentore della sua individualità, mi piace osservarne la postura e le caratteristiche che lo contraddistinguono, per collocarlo in un sistema, catalogarlo e farlo diventare parte di una massa, obbligandolo così a un destino comune agli altri» afferma Carlo D’Oria (Torino, 1970), ponendo l’umanità, e in particolare l’uomo visto nella sua individualità o in rapporto con la società contemporanea, al centro del suo lavoro artistico. Diplomato in scultura nel 1997 all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, espone in varie mostre tra cui la personale Ferite al Castello di Rivara, ArtSiders presso la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia e nel 2015 partecipa a Trent’anni di arte contemporanea al Castello di Rivara. Alcune sue opere sono state recentemente acquisite dalla Collezione Farnesina. Vive e lavora a Torino.
Paolo Grassino
SEMILIBERTÀ, 2007
Una figura umana trafitta, trapassata da una serie di tubi, appare come immobilizzata e sospesa nello spazio. Inglobata in una sorta di cortina e diaframma, di profilo la scultura è parte di una barriera, di un ostacolo, mentre frontalmente, attraverso i fori dei tubi, risulta al contrario addirittura permeabile allo sguardo dello spettatore. Visione drammatica, allegoria della condizione umana, Semilibertà, come tutto il lavoro di Paolo Grassino, mette in scena le paure, le angosce e le inquietudini dell’uomo contemporaneo. Il titolo stesso allude a una situazione ambigua in cui la libertà – di scelta? – risulta limitata e condizionata nello stesso modo in cui l’uomo, dall’espressione rassegnata, è suo malgrado vincolato nei movimenti, incapace di una reale emancipazione.
BRANCO, 2010
I cani raffigurati in Branco sono senza occhi, bocca, orecchie e coda: hanno perso i loro sensi e sono dunque incapaci di ubbidire e comunicare. Rimangono in difesa del territorio con la loro presenza, che man mano si guasta e si incrina nell’attesa di un pericolo che non arriva. Le creature del branco, nel loro essere impossibilitate nell’entrare in contatto con chiunque, rappresentano in un certo senso l’insensibilità, l’apatia e l’indifferenza che affligge la società contemporanea. Come afferma l’artista: «Sono guardiani che difendono con la loro presenza un muro, un confine. La loro forza consiste solo nell’unione. Credo che sia un lavoro nato dalle immagini dei grandi esodi di profughi minacciati da guerre e dittature, mentre l’occidente facoltoso si difende innalzando muri e lasciando dall’altra parte uomini al loro disperato destino».
FIATO, 2005
Creature curiose e inquietanti, come emerse da un’oscura foresta incantata, sono soggetti ricorrenti nell’iconografia di Paolo Grassino. Il cervo, nella realtà timido e timoroso animale selvaggio, diventa invece nelle sue sculture una presenza manifesta, che rende così visibile ciò che normalmente rimane nascosto. «Il cervo bianco è presente in moltissime culture, dagli Ittiti agli Aztechi, che lo considerano un simbolo ultraterreno di purezza, mentre per i cristiani simboleggia il Cristo». (Paolo Grassino)
Nella Leggenda Aurea Gesù apparve a Sant’Eustachio tra le corna di un cervo che stava cacciando, portandolo così alla conversione: Fiato rappresenta dunque l’incontro tra il pagano e il cristiano, metafora della speranza e dell’attesa di un cambiamento, ovvero della rinascita.
«L’arte, credo che sia uno dei tanti specchi del mondo. Uno specchio che cerca di rispondere a delle domande con altre domande. Naturalmente il lavoro è cambiato con il mio crescere, forse si è inasprito, si è reso più duro, meno interessato all’opinione altrui, più intimo, ma non per questo più lontano dalle problematiche della società in cui vivo. Anzi credo di essere più cosciente della responsabilità che ha l’arte nella nostra vita: ritengo che sia una vitale forma politica». (Paolo Grassino)
Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Torino Paolo Grassino (Torino, 1967) inizia la sua attività artistica all’inizio degli anni ’90. Numerose le personali e collettive alle quali l’artista ha partecipato, anche di interesse internazionale, tra cui quella al Museo di Arte Moderna di Saint-Etienne, alla Galleria Teo di Tokyo, la prima Biennale di Arte giovane a Mosca e diverse mostre in Cina e Corea del Sud.
Enrico Iuliano
PAGINE, 2012
Un lavoro pensato appositamente per il luogo, un’idea di scultura che compone un paesaggio e un ritratto. Volevo piantare un albero ma poi mi sono perso in altri pensieri è la scritta che volteggia su due grandi lastre in acciaio corten, disposte come pagine di un libro aperto. Il pennino attraversa le pagine sottraendo materia, intinge nell’aria, poi la sua scia si rende visibile in forma di leggero nastro svolazzante, aereo. In un gioco di pieni e di vuoti, di contrasti, l’opera risulta estremamente leggera, quasi fluttuante, pur essendo formata da due lamiere pesanti, massicce. Il testo scritto è un possibile ritratto dell’ideatore del parco, un amico, che forse vuole fare tutt’altro, ma fortunatamente si perde installando sculture.
FONTANA DEL RACCONTO INFINITO, 2008
Cemento armato, acciaio, acqua e colore sono gli elementi che compongono la Fontana del racconto infinito. L’elemento rettangolare di cemento, posto in posizione obliqua sulla superficie dell’acqua, ingloba la sagoma in acciaio del pennino e sembra quasi fermare il tempo, mentre dalla punta il fluire libero e continuo dell’acqua, invece, lo scandisce. La vasca è un blocco unico di cemento, pesante, compatto e rigido che contiene centinaia di litri di acqua che scorrono, fuoriuscendo dalla penna inossidabile e generando un gradevole suono, una voce narrante ininterrotta. Il blu all’interno della fontana è il colore dell’inchiostro stilografico, in contrasto con la trasparenza dell’acqua, con il grigio del cemento e dell’acciaio.
Attente alla tradizione ma ancor di più agli sviluppi della modernità e incentrate sul valore e sulle possibilità espressive dell’atto comunicativo, le opere di Enrico Iuliano (Torino, 1968) pongono in relazione costruzione plastica e ambiente, alla ricerca di un equilibrio di forze che sia allo stesso tempo misura di stabilità e figura dinamica. Diplomatosi in scultura nel 1991 presso l’Accademia Albertina, inizia la sua attività espositiva dal 1989 con una personale all’Unione Culturale di Torino e partecipando a collettive di interesse nazionale, tra cui Splendente a cura di Luciano Pistoi. Tra il 1999 e il 2000 vince il premio Pèpiniéres pour le jeunes artistes che gli consente di realizzare una mostra itinerante nelle città di Valencia e Madrid.
Luigi Mainolfi
PIRAMIDE SEI ZAMPE, 2006
Enigmatica forma di vita, creatura che si presenta senza capo né coda, in Piramide sei zampe si intrecciano e innestano temi cari a Mainolfi. La piramide, forma ricorrente in vari lavori, è l’emblema del suo istinto verticale, della sua tensione verso la leggerezza e il volo. Costante è sempre, infatti, la ricerca dello slancio e dell’elevazione in quella forma d’arte, la scultura, che è più soggetta alla gravità e al peso. Obelisco che celebra la vita e l’esistenza, la piramide non possiede base ma si erge su sei zampe, entrando a far parte di quell’infinito bestiario fantastico cui l’artista non finisce mai di dar vita. «Mainolfi ha saputo costruire una lingua, ed è per questo procedere organico e germinativo della sua ricerca, che l’opera dello scultore si realizza come seconda natura e grembo fecondo di nuove, successive generazioni». (Pier Giovanni Castagnoli)
ISOLA, 1987
Isola è da immaginare accanto ad altre isole, perché è da lì che deriva, come parte di un arcipelago ideale in cui i tufi, svettanti dall’acqua, paiono essere sospesi e levitare dal terreno danzando insieme su radici aeree. La scultura, che nelle fattezze ricorda i sacri bracieri votivi, al suo interno conserva elementi primigeni, principi generatori del mondo, simboli del brodo primordiale da cui è scaturita la vita. I contenitori, da cui metaforicamente nascono vite e paesaggi, sono come ventri materni, o mammelle i cui capezzoli si allungano fino a diventare struttura e supporto. I lavori di Mainolfi hanno tutti la particolarità di autosostenersi e di farsi base, anzi Bbase con due b come il titolo di alcuni suoi lavori, quasi a ribadirne l’importanza. «La scultura si deve tenere da sola – afferma l’artista – poiché con il basamento diventa monumento del passato».
A GUARDIA DELLA NATURA, 2005
Creatura surreale e fantastica, dalle fattezze che rammentano un ibrido di lucertola e dinosauro, A Guardia della Natura possiede una curiosa protuberanza a forma di albero, che germoglia dalla sommità del suo dorso, e una lunga coda che in realtà si rivela essere un dito. La scultura nasce all’interno del bestiario da sogno che popola in modo ricorrente tutta la ricerca di Mainolfi: forme animali che paiono nascere da improbabili giochi di ingegneria genetica diventano archetipi e protagonisti di una personalissima mitologia. Ogni suo lavoro è infatti sotteso da una narrazione, da un racconto che ne genera altri, snodandosi attraverso tutta la produzione dell’artista, perfetta incarnazione di ciò che oggi verrebbe definito come storytelling visivo.
All’origine di questa serie di disegni e sculture vi è un progetto realizzato in collaborazione con l’Associazione Arte in Erba, presso la collezione d’arte ambientale della Fattoria di Celle a Pistoia.
Fiaba ideata e illustrata da Luigi Mainolfi nel 2001, scritta da Stefania Gori e tradotta in percorso ludico-didattico per bambini da Jò Mainolfi, A guardia della natura. Al tempo delle rotonde narra la storia del piccolo paese di Cantagrillo, luogo in cui tutti gli abitanti conducevano una vita ideale che un bel giorno è stata minacciata dalle insidie della contemporaneità. A violentare e trasformare la natura della cittadina, «circondata da boschi nei quali vivevano molti animali» è il cemento, le città e le strade moltiplicatesi in breve a dismisura. È il mastro vasaio, con l’aiuto di tutti i bambini, a dare origine con la creta ad “animali mai visti prima”, che magicamente riportano di nuovo il verde, la natura e così il benessere a Cantagrillo.
IL GUARDIANO DELLA TERRA, 2007
L’incredibile fauna scaturita dalla vulcanica e immaginifica fantasia di Luigi Mainolfi prende corpo e vita non solo tramite la scultura o i disegni su carta, ma anche su lastre di marmo di grandi dimensioni, istoriate con enigmatiche raffigurazioni di creature inesistenti. Il Guardiano della Terra, squamoso drago-lucertola che dalla coda in poi assume le sembianze di un uccello dal lungo becco, si pone nel solco tracciato dal già citato progetto di A Guardia della Natura. Mix imprevisto di figure bestiali tratte da miti popolari come da un immaginario arcaico e senza tempo, l’essere dall’aria minacciosa si erge a temibile custode della Terra, intesa come figura progenitrice e creatrice, presenza ricorrente e trasversale, di cui è pregna, non solo metaforicamente ma anche materialmente, tutta la ricerca dell’artista.
«Il lavoro di Luigi Mainolfi risulta legato alle origini, e perpetua nei materiali come la terra i grandi gesti della vita e della morte, delle genealogie mitiche, dei giganti e degli uomini». (Marisa Vescovo)
Acqua e terra, elementi primigeni, si mescolano per dar vita a gran parte della scultura di Mainolfi, in cui l’uso della terracotta si rinnova grazie a soluzioni inaspettate e a un linguaggio formale completamente differente rispetto al passato. La terra, infatti, intesa come natura e paesaggio, si fa corpo, coincide con esso, dando luogo a quella teoria generativa e progressiva per cui da ogni lavoro ne sbocciano altri: piccole escrescenze come capezzoli di volta in volta germogliano, diventano propaggini e protuberanze, estensioni tentacolari e diramazioni che sostengono, sondano lo spazio e infine lo trasformano.
La materia plasmata e costruita è al centro della poetica di Luigi Mainolfi (Rotondi Valle Caudina, 1948), che elabora un personalissimo linguaggio scultoreo a partire dalla fine degli anni ’70, periodo in cui erano in auge la corrente dell’Arte Povera e la Pittura Analitica. Mai ascrivibile ad alcun movimento, in perenne controtendenza, Mainolfi predilige materiali poveri e naturali come la terracotta, il gesso o la pietra lavica, realizzando comunque svariate fusioni in bronzo. Negli anni ’80 la tecnica della terracotta policroma viene da lui radicalmente riattualizzata, acquistando quella connotazione epidermica che diverrà poi la sua cifra distintiva. In continua metamorfosi la “pelle” dei suoi lavori nel tempo si trasforma: i pori si dilatano man mano fino a diventare finestre, per dare luogo alle Città e a trame sempre nuove, pronte a espandersi e scandire la superficie di ogni sua scultura.
Bruno Munari
DA UNA SCULTURA DA VIAGGIO, 1959/1985
Le Sculture da Viaggio di Munari nascono come oggetti da portare con sé: sono opere d’arte leggere e pieghevoli da poter comodamente inserire in valigia e capaci di personalizzare anonime stanze d’albergo, ricreando così un ambiente familiare, intimo e in qualche modo legato al proprio luogo di provenienza. Realizzate inizialmente in scala ridotta, con del cartoncino ritagliato, successivamente le sculture diventano di legno, metallo o plastica e di grandi dimensioni. Nate all’inizio degli anni ’50, le prime sculture da viaggio vengono inizialmente chiamate sculture pieghevoli per venire regalate o spedite come biglietti di auguri, assumendo il nome definitivo dal 1958 in poi. Dagli anni ’90 le sculture diventano monumenti urbani di grandi dimensioni per i luoghi pubblici di varie città.
Tra i massimi esponenti dell’arte e del design del ventesimo secolo, Bruno Munari (Milano, 1907-1998) ha dato un suo contributo fondamentale non solo in questi campi ma anche nella scrittura, nella poesia e nella didattica. Giovanissimo partecipa al Futurismo, da cui si discosta per il suo senso di levità e umorismo per poi fondare nel 1948 il MAC, Movimento di Arte Concreta insieme a Gillo Dorfles, dando voce alle istanze astrattiste italiane. Tra le realizzazioni più emblematiche le macchine inutili del 1933, congegni meccanici presentati come modelli sperimentali che indagano sulle possibilità percettive, che fecero di Munari un precursore dell’optical art. La sua poliedrica capacità comunicativa si è manifestata, oltre che nell’arte e nel design, nei campi più disparati: dalla pubblicità e comunicazione industriale ai libri per la scuola, dai giochi ai laboratori grafici, sino ai libri di ricerca.
Peppe Perone
UNTITLED, 2012
Sembrano apparizioni magiche, come tratte dal mondo delle fiabe, le sculture pietrificate, dall’aura enigmatica e metafisica, di Peppe Perone. È sempre la sabbia, materiale tanto effimero quanto invitante, a essere la costante del suo lavoro e a ricoprire integralmente ogni opera, alludendo al senso ludico, alle prime manipolazioni infantili come anche alla fragilità, metaforicamente legata all’immagine dei castelli di sabbia. La sua precarietà è anche simbolo dei valori effimeri sui cui la società contemporanea si trova a costruire le proprie basi. La mancanza di titoli come la decontestualizzazione degli oggetti lascia libero lo spettatore, tra analogie, simboli e metafore, di trovare ogni volta la propria istintiva interpretazione alle opere.
Peppe Perone (Napoli, 1972) dal 1998 realizza sculture e installazioni di animali e oggetti d’uso quotidiano prelevati dal loro contesto, ricoprendole con un sottile strato di sabbia, materia che richiama il mondo dell’infanzia e la fragilità delle cose. Si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1994 per iniziare subito a esporre in gallerie d’arte, istituzioni pubbliche e private in Italia e all’estero. Nel 2013 partecipa alla collettiva Viaggio Immaginario al Museo ARCOS di Benevento mentre l’anno seguente disegna con il fratello Lucio il Manifesto del Premio Strega 2014. Tra il 2014 e il 2015 espone a Cosa Succede a Rotondi? nell’ambito del progetto Sistema Irpinia per la Cultura Contemporanea e L’eredità dell’arte – Mimmo Paladino e Mohanna Durra alla Jordan National Gallery of Fine Arts di Amman in Giordania. Vive e lavora a Rotondi, Avellino.
Johannes Pfeiffer
TRIANGOLAZIONE III, 1989
Uno sciame di ciottoli in marmo sospesi su tondini di ferro, che sembrano volare a bassa quota in uno stormo cuneiforme, raccontano della leggerezza. Presenza che nella percezione quotidiana del paesaggio muta in esperienza, Triangolazione III, si stende con delicatezza al di sopra del terreno terrazzato, fluttuando come un velo trasparente e vibrando come un’eco lontana. La triangolazione, o trigonometria, è un’arte antica che consentiva di misurare la forma e la grandezza della terra tramite una rete di triangoli. Pfeiffer, con le sue Triangolazioni, misura la terra in modo simbolico, tramite l’esperienza sul territorio, direttamente in situ. Ogni opera, ogni sua installazione diventa così il suo personalissimo tentativo di comprendere ed esperire il mondo – gente, clima, materiali, geografia – nelle sue innumerevoli sfaccettature.
Dopo la laurea in Economia e Commercio a Berlino nel 1980 Johannes Pfeiffer (Ulm, 1954) si trasferisce in Italia, dove frequenta le Accademie di Belle Arti di Roma e Carrara per poi dedicarsi, dal 1985, alla Landart e alle installazioni ambientali. Nel 1988 si trasferisce a Torino, viaggiando per realizzare ovunque i suoi progetti artistici. Si ricordano tra le varie installazioni: El silencio de las voces alla Pontificia Universidad Catòlica de Chile, Santiago nel 2007; Phoenix nel Parco Olimpico di Pechino nel 2008; Energy fields nel Clayarch Museum Gimhaen, Corea del Sud nel 2009; nel 2011 realizza l’installazione Zwischen Himmel und Erde nella chiesa Sankt Lukas di Monaco e nel 2013 installa Piedras erráticas nel Museo Casal Solleric di Palma de Maiorca. Nel 2015 partecipa all’ArtFest ad Astana in Kazakistan.
Renato Sabatino
HG80, 2014
Creatura immaginaria quadrupede, dalla particolare conformazione scheletrica, HG80 presenta arti molto lunghi e robusti, che gli consentono agili e rapidi spostamenti. La possente cassa toracica contiene organi non comuni, ma un nucleo interno di mercurio allo stato liquido, che permette all’animale di rigenerarsi. Questo animale fantastico dal caratteristico colore argenteo, che predilige vivere in zone rocciose e montane, è di per sé costituito da un metallo tossico, ma non è pericoloso se non istigato. È infatti di animo buono e pacifico anche se per difesa può secernere vapori di mercurio che intossicano istantaneamente qualsiasi predatore. Avendo la proprietà di rigenerare ciclicamente il proprio corpo, vive un tempo indefinito, che nessuno è riuscito mai a quantificare.
Discendente di artigiani vasai, dalla necessità di conservare le proprie radici, Renato Sabatino (Vibo Valentia, 1977) si riappropria in modo originale delle tradizioni familiari, rendendole insospettabilmente attuali. Utilizza diversi materiali e tecniche prediligendo sempre però la terracotta e la tornitura di vasellame, tecnica tradizionale e legata al passato che l’artista rinnova tramite un linguaggio contemporaneo. Diplomato in scultura con lode all’Accademia Albertina di Torino, ha partecipato a diverse mostre collettive in Italia e all’estero, in gallerie d’arte e istituzioni pubbliche e private. Selezionato tra i 15 migliori artisti della decima edizione di Paratissima, l’anno seguente, nel 2015, vince il primo premio per il concorso del Museo delle ceramiche G. Gianetti di Saronno (MI). Vive e lavora a Torino.
Kimitake Sato
LYON 2, 2006
Lyon 2 è stata un’opera appositamente concepita per la Biennale dei Leoni, manifestazione nata a Lione che si proponeva di contribuire all’incontro e alla mescolanza di culture differenti. In ogni edizione oltre 60 artisti internazionali sono stati invitati a presentare opere ispirate al simbolo della città francese, il leone, e a quello di una delle città gemellate. Nel 2006 l’interlocutore scelto è stato per l’appunto Torino, con il suo emblema, il Toro. Ricorrenti nella ricerca di Sato sono tanto gli animali quanto la squadrata scansione geometrica delle masse, la semplificazione delle forme e l’esaltazione della linea, chiaro riferimento alla cultura giapponese. Nella maschera di cui il leone pare qui spogliarsi, resa per piani spigolosi come se fosse un origami, predominano l’astrazione e la sintesi, proprie del suo fare scultura.
Terreno di ricerca per Kimitake Sato (Ashiya, Giappone, 1969) è il complesso mondo di relazioni che esistono tra concettualità e rappresentazione del quotidiano, tra religiosità e realtà, tra spazio mentale e spazio fisico. Nelle sue opere riesce a coniugare la pesantezza del ferro con la leggerezza dell’arte giapponese di piegare la carta, l’origami. Laureatosi nel 1994 alla Osaka University of Arts, decide ben presto di raggiungere l’Europa, e più precisamente l’Italia, perché storicamente culla dell’arte europea. Ha collaborato attivamente con Luigi Mainolfi, ha esposto in varie mostre in Italia e all’estero, tra cui si ricorda la sua partecipazione a La Biennale des Lions, svoltasi a Torino e Lione, e al Giardino di Daniel Spoerri, alla Kunsthaus di Grenchen in Svizzera. Vive e lavora a Torino.
Saverio Todaro
SUNSET, 2007
Un soldato vittorioso, a testa alta, in atto di conquista, impugna una bandiera, leggermente mossa dal vento. Sul vessillo spicca evidente, ritagliato nel telo, il simbolo del trifoglio nucleare, tramite cui si intravedono cielo e orizzonte. Contemporaneo monumento a potenziali e possibili futuri caduti, Sunset rivolge un monito all’umanità, ancora impegnata oggi in innumerevoli conflitti. Il tramonto, titolo della scultura, è metafora del declino della civiltà e della sua possibile estinzione, perché non esisterebbe vittoria in caso di utilizzo di armi nucleari. L’estremo della bandiera è conficcato nel ventre del milite, come se dallo stesso ne avesse origine: «Il luogo corporeo dell’antico cordone ombelicale sostituisce all’immagine della maternità quello della vittoria e del tramonto dell’uomo». (Saverio Todaro).
Artista eclettico, che si esprime attraverso linguaggi differenti, Saverio Todaro (Berna, 1970) è capace di raccontare i molteplici aspetti di un’umanità effimera, disgregata, e al contempo di far emergere sempre l’essenza poetica della vita. I suoi lavori costituiscono un perfetto equilibrio tra l’immaginare e il riflettere, tra l’empatia e il pensiero. Ha al suo attivo un nutrito curriculum di mostre personali, tra cui Zona grigia a Palazzo Bricherasio di Torino nel 2008; Loading nella Chiesa di Sant’Agostino a Pietrasanta (LU) nel 2014 e Genio Civile al Farm Cultural Park di Favara (AG) nel 2013. Ha vinto diversi premi e partecipato a varie mostre internazionali tra cui Natura e Metamorfosi a Shanghai e Pechino, la Biennale di Arte Giovane a Mosca, la Biennale Internazionale di Scultura a Carrara. Vive e lavora a Torino.
Adrian Tranquilli
IN EXCELSIS, 2013
Tre candide figure in cerchio, ieratiche e solenni, conducono tra loro un dialogo afono, in cui a parlare sono semplicemente la mimica del corpo e la postura degli arti, in atteggiamento di preghiera e muto raccoglimento. Classici nella loro monumentalità, nel loro farsi colonne vestite di panneggi, i supereroi vengono svuotati da ogni vincolo fumettistico per esser qui rielaborati e reinterpretati, posti come icone il cui intento è connettere dimensioni tra loro diverse: realtà e immaginazione come arcaicità e futuro. «Quello che mi interessa del supereroe è, da una parte, la trasposizione di un bisogno, ben antico, della cultura occidentale dell’esigenza del salvatore, di colui che salva nel nome del bene e del giusto». (Adrian Tranquilli)
THE END OF THE BEGINNING, 2016
In The End of the Beginning, opera in cui la maschera di V è elemento costruttivo, il tema della maschera/simbolo è affrontato da un’altra angolazione rispetto ai lavori precedenti. Il protagonista non è più un super o anti-eroe, ma è V, ambiguo eroe della graphic novel V per Vendetta, 1988, di Alan Moore e David Lloyde. Eroe anticonformista, V si ispira all’anarchico inglese famoso per aver cercato di far esplodere il Parlamento all’inizio del Seicento. La sua maschera, dal volto bianco e dal sorriso sardonico, è ora il simbolo del globale movimento di contestazione. Riflesso del cambiamento paradigmatico accaduto nel passaggio tra XX e XXI secolo, l’eroe non è più il singolo ma si dissolve in un’identità collettiva, molteplice e irriconoscibile, che a sua volta corrisponde a quel 1%, inafferrabile e invisibile, che detiene il potere.
Il concetto di supereroe, inteso come unico rappresentante universale dell’eroismo etico, è il punto focale dell’opera di Adrian Tranquilli (Melbourne, 1966). Accanito collezionista di fumetti della Marvel e DC, ha scelto come soggetto i supereroi conducendo, per loro tramite, un’attenta analisi antropologica del modello culturale occidentale. I Batman, Superman e Spiderman a grandezza reale, con indosso sia la maschera che gli abiti dell’uomo comune, demitizzati nei panni di stanchi impiegati o loser ridotti a dormire su giacigli di fortuna, assumono significati che trascendono il carattere prettamente fumettistico. Il supereroe è così paradigma dell’uomo odierno, simbolo della contaminazione culturale e della crisi che attraversano la società contemporanea occidentale.
Valeria Vaccaro
MARMIFERO 2.0, 2013
Un fiammifero fuori scala bruciacchiato, dall’aspetto semplice e grezzo, cela in sé una natura più nobile e complessa. Nelle opere di Valeria Vaccaro, ad ardere sono sempre oggetti mediocri, senza valenza estetica alcuna, dove però il processo di trasformazione che li investe non si limita solo a una mutazione di materia ma li pone su un altro livello, donando loro valore nel tramutarli in opera d’arte. È proprio sul tavolo del misunderstanding e dei luoghi comuni dell’arte contemporanea – incomprensibile ai più – che gioca tutta la sua ricerca, con una tanto raffinata quanto discreta ironia. Nessun indizio evidente, anzi è lo stupore finale a essere il risultato cercato e voluto. Tra bruciature e trame lignee fedelmente riprodotte, solo lo sguardo più accorto va oltre e scopre l’inganno: il legno è in realtà marmo incredibilmente lavorato.
Tutta la ricerca di Valeria Vaccaro (Torino, 1988) ruota attorno al fuoco, elemento purificatore e forza creatrice più che fattore di distruzione. È proprio la combustione a rendere più vero quel materiale ligneo che in realtà è marmo, dando vita a ossimori visivi dall’effetto spiazzante, in cui il legno appare freddo e il marmo brucia e si carbonizza. Laureata in Scultura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, inizia sin dal 2005 a esporre partecipando a collettive, premi, Master Class e venendo selezionata tra i migliori artisti di Paratissima nel 2012. Nel 2013 è selezionata per la Biennale itinerante europea Jeune Création Européenne. Nel 2015 espone al Castello di Rivara Centro d’Arte Contemporanea, al Coffi Festival di Berlino, nella chiesa di San Vittore per l’Arcidiocesi di Vercelli e a Exhibit – The Others all’ex-borsa valori di Torino.
Ronald Ventura
SHADOW BLADES, 2016
Con la coda ricurva e tagliente come una falce e macroscopici artigli al posto degli zoccoli, pronti a fendere e lacerare il terreno a ogni slancio, il nero unicorno al galoppo di Ronald Ventura pare uscire direttamente dalle porte dell’Ade. Proteso in avanti e pronto all’attacco, tutt’uno con il cupo destriero, è il minaccioso cavaliere armato di un elmo affusolato e appuntito come un pungiglione. Visione apocalittica e perturbante, Shadow Blades appartiene al progetto espositivo The Hunting Ground, terreno di caccia. Non è tanto un’ipotetica fine del mondo a essere preannunciata quanto la trasformazione del pianeta Terra, raffigurato metaforicamente come un luogo sempre meno accogliente per l’uomo: il terreno di caccia, cui fa riferimento Ventura, allude all’uomo non tanto nel ruolo di cacciatore quanto, molto più probabilmente, in quello di preda.
Ronald Ventura (Manila, 1973) è uno dei più acclamati artisti del sud-est asiatico della sua generazione. Ha dato vita, tanto attraverso i dipinti e le sculture, a uno stile che mixa in modo imprevedibile soggetti e immagini tratte dall’iperrealismo, dal mondo dei cartoon o dai graffiti. Il suo lavoro, che è il risultato di una complessa stratificazione di suggestioni, si fa metafora della sfaccettata identità nazionale delle Filippine, condizionata dalla molteplice influenza di paesi come Spagna, America e Giappone, che nei secoli si è sovrapposta in modo inevitabile alla cultura indigena del suo paese. Ventura ha esposto in numerose personali e collettive, in luoghi istituzionali come Musei e Biennali, non solo nelle Filippine ma anche in tutta Europa. Vive e lavora a Manila.
Fabio Viale
PNEUMA, 2004
Pneuma, aeroplanino di più di quattro metri realizzato con pneumatici veri, nel 2005 venne esposto tra le finestre della facciata della Sede Divisione Servizi Culturali della Città di Torino causando grande stupore tra i passanti. Citazione ironica delle opere realizzate in marmo nero, quasi un modellino fuori scala, Pneuma dà luogo a un cortocircuito, dal momento che l’opera non è eseguita in un materiale altro da quello rappresentato, come invece l’artista abitua a credere. Le opere di Fabio Viale normalmente inducono infatti lo spettatore, dopo un primo moto di stupore, a veri e propri scarti semantici, grazie alla resa rovesciata dei materiali, giocata sull’antitesi tra oggetto rappresentato e materiale utilizzato, sul contrasto leggero-pesante e sul superamento concettuale della resa estetica e formale del materiale.
Pneumatici di automobili, aeroplanini di carta come una barca capace di solcare corsi d’acqua, sono solo alcune delle sculture più note di Fabio Viale (Cuneo, 1975), tutte realizzate rigorosamente in marmo, giocando con perizia e vena ironica sull’altro da sé. Scultore che ha saputo imporsi sulla scena internazionale con delle opere in marmo così coinvolgenti da divenire degli eventi, come la barca in marmo Ahgalla varata nel 2007 nella Biennale di Venezia, è presente in importanti collezioni pubbliche e private, ha esposto sia in Italia che all’estero, come nelle più importanti fiere d’arte contemporanea. Le sue ultime personali si sono svolte presso la Galleria Poggiali e Forconi, a Firenze e Pietrasanta, e a New York alla Sperone Westwater. Nel 2014 ha vinto il Premio Cairo e nel 2012 il Primo Premio della Fondazione Henraux.
Info: www.quarelli.it
Data e Ora
11/06/2016 / 15:00 - 18:00
Luogo
Parco d'Arte Quarelli