Dopo “Cosa fare con il fuoco”, il #NOFEST16 ritorna, questa volta nella cornice dello Sherwood Festival, con “Vedere altrimenti”, un rendez vous incentrato sul cinema realmente e radicalmente indipendente italiano, quindi su quella sua immagine che, all’interno di un sistema culturale tanto massificato e omologato quanto irrimediabilmente compresso dall’economia, che ne detta le traiettorie e i valori, emerge quale possibilità altra e stringenza di questa stessa possibilità; l’immagine di questo cinema, infatti, non solo fa vedere altrimenti, come generalmente accade nei film sperimentali o dell’immanenza, ma con essa viene anche palesato il bivio, la frattura ormai ineluttabile tra il vedere e il non vedere, e sta qui – crediamo – la sua natura più profonda e contrastata, nonché la sua più genuina bellezza e la sua più splendente necessità. Il titolo di questa edizione, dunque, si concentrerà su quei film che, oltre a far vedere Altrimenti, pongono anche in essere l’alternativa a questo vedere, l’altrimenti di questo vedere, ovvero quel non-vedere al quale siamo abituati e ormai narcotizzati nell’impersonalità della medietà quotidiana.
— PROGRAMMA —
– Mauro Santini, “Bianco” (Italia, 2013, 19′)
Il cinema di Mauro Santini è un cinema piccolo, intimo, e perciò sensibilmente accanto alla vita quale si dà nella sua più pura immediatezza. In Bianco, le figure non fanno che emergere dallo schermo, e via via che acquistano consistenza si disgregano, si lacerano, insistendo altrimenti: un bosco come luogo d’indecidibilità tra reale e cinematografico, dei bambini che giocano a rincorrersi e arrivano ad unirsi in un’unica sagoma, e infine quel volto che sorride e che non è più il volto di nessuno ma ogni sorriso che sia stato speso nella Storia traspare in esso.
– 無, “I thought of home” (Italia, 2016, 7′)
Il collettivo Nothingness è un collettivo di cineasti anonimi che si riuniscono sotto quest’unico simbolo, quello del vuoto di ozuiana memoria. I thought of home è la prima opera che sia apparsa a firma loro, ed è un’opera radicale: il sole in tralice tra i rami, questa naturalezza quasi effimera, non viene infatti supportata (o sopportata) dal supporto digitale che la sta registrando, il che apre una breccia all’interno del film dalla quale prolifera qualcosa che non è più possibile indicizzare all’interno del binomio naturale/artificiale, reale/cinematografico.
– Enzo Cillo, “Blackout” (Italia, 2015, 10′)
Un blackout al tramonto: è la notte. La notte che è come se estirpasse la quotidianità dal suo lato più banale e mediocre. Enzo Cillo opera nel quotidiano, ma è un quotidiano, il suo, che, grazie al cinema, non è più tale. La registrazione di situazioni non indotte, attraverso un’iconicizzazione dell’immagine, porta così ad emergere il lato autentico delle cose, come un albero o una macchina: il cinema come disvelamento dell’autenticità del reale viene allora a essere, forse, anche l’ultima via di salvezza di quest’ultimo.
– Morgan Menegazzo & Mariachiara Pernisa, “Rothkonite” (Italia, 2015, 3′)
Il film è costruito sulla scomposizione di filmati preesistenti, computati e squarciati con codici numerici. Poi ci sono i quadri, le tele di Rothko, intarsi istantanei e subliminali. Sino ad arrivare in evoluzione cromatica alla Rothko Chapel, la sua criptonite, la nemesi della luce. E la suite di Morton Feldman dedicata.
– Riccardo Vaia, “Variazioni giambiche” (Italia, 2004, 3′)
Un paesaggio bucolico, una natura affranta. E poi un’automobile, che strappa via la quiete. Variazioni giambiche, tuttavia, lungi dall’incorrere a santificare la natura, di contro a una tecnica frastornante e totalitaria, scopre, nella composizione biunivoca tra natura e tecnica un’immagine originaria e originale, che solo il cinema è in grado di restituire.
– Ignazio Fabio Mazzola, “τοπίο” (Italia, 2015, 5′)
«L’opera di architettura funziona come un “topío”, accoglie nel suo spazio tutte le cose esistenti prodotte dalla vita e dall’uomo» (Aris Konstantinidis). Un esempio di architettura anonima, la masseria Tarsia Morisco nei pressi di Conversano: per analizzare il rapporto tra architettura e paesaggio. Una serie di movimenti definiti da una razza equina (il Lipizzano, linea Conversano), tipica della zona, come elementi generatori del paesaggio naturale e artificiale. L’elementarità dell’architettura, evidenziata dai suoi cardini, assoggettata a un ambiente che riassume il tempo tra passato, presente e futuro, si apre inevitabilmente all’imprevedibilità degli eventi.
– Fabio Scacchioli & Vincenzo Core, “Bang Utot” (Italia, 2015, 27′)
«Bang-utot: letteralmente, tentare di alzarsi gemendo… La morte sopraggiunge nel corso di un incubo» (William S. Burroughs, Pasto nudo). Una donna dall’ombra diafana siede oltre la curva di mille notti liquefatte, scrive il suo segreto in un biglietto, e muta domanda al cielo scoperchiato se è vero quel che si dice, che al di là delle maree vivono esseri fatti solo di sogni.
Data e Ora
14/07/2016 / 21:00 - 23:30
Luogo
Sherwood Festival Padova