In Afgacolor, la seconda mostra di Flavio Favelli da Francesca Minini, si combinano molte cose: gli oggetti e le forme di un linguaggio consolidato – neon, assemblaggi e collage di specchi, francobolli e tappeti persiani, ambienti come ingombri muti e inaccessibili al corpo dello spettatore, e la pittura, come riproduzione e ingrandimento su tavola di forme e oggetti esistenti – ma virati in un tono scuro, come se tutte le immagini di questa mostra nascessero da una profondità vischiosa. E la formazione dell’artista, la più remota, quella che si è svolta attorno al mondo persiano antico, l’attrazione verso i paesi arabi moderni, mediorientali, est europei, quelli in cui stratificazioni e intrecci di stili, contrasti tra nuovi ideali e costumi arcaici, sono più evidenti.
In Half Dinar, una personale del 2018, un grande dipinto che riproduceva una mastodontica raffineria stampata su una banconota libica in circolazione negli anni Settanta, indizio della propaganda, di un immaginario fragile e di un progresso irrisolto finiva per intrecciarsi con altre immagini, appartenenti alla storia italiana, con contrasti apparentemente inassimilabili, ma non così dissimili nella sostanza.
Al centro di Afgacolor, che mi sembra riprendere il filo di quella mostra, c’è invece l’Afghanistan, un luogo mai visitato dall’artista e, nell’immaginario occidentale, uno dei più martoriati e sinistri del pianeta.
Dunque mai come in questa mostra lo sguardo di Favelli si è spinto lontano – lontano dal paesaggio all’interno del quale siamo abituati a riconoscerlo: storie famigliari, vecchie case, seconde case, manufatti di un gusto borghese ormai estinto, loghi e simboli di un benessere nascente, la storia italiana di un tempo non così remoto, gli anni Settanta e Ottanta, che coincide con l’infanzia e la prima giovinezza dell’artista.
Eppure, anche quando, come in Agfacolor, l’oggetto è così fortemente definito, quando pare assumere i contorni di magma oscuro, alieno alla biografia dell’artista, c’è sempre, nel lavoro di Favelli, l’impressione di ossessioni che sembrano provenire dall’interno, un’aria di mobili di famiglia, di storie da ricucire attorno passaporti e biglietti aerei dimenticati in fondo a vecchi cassetti, di immagini che scorrono nei telegiornali della sera come turbamento, infrazione al normale scorrere di una tranquilla vita borghese.
I lavori più politici (o considerati tali) che Favelli ha realizzato fin qua –che non sono mai troppo discorsivi, analitici, ma si attivano per frammenti, crasi e slittamenti di senso – nascono all’insegna della stessa sostanza autobiografica. Per questo non sono mai del tutto politici, ma individuano i momenti di un incontro inevitabile tra ossessioni private e vita collettiva.
Non so se queste cose siano una chiave d’accesso a questo nuovo progetto di Favelli, di certo sono un’indicazione, ma non un antidoto al senso di straniamento che è inevitabile provare di fronte a una mostra come questa.
Dunque che cos’è per Favelli l’Afghanistan, il paese vessato da guerre e invasioni perpetue – quella russa, quella talebana, e poi quella americana –, segnato dalla presenza di Al Qaida e dalle scorribande dell’Isis? L’Afghanistan di Favelli è un oggetto misterioso e irraggiungibile, un serbatoio di forme che nascono dall’oscurità, dal buio, dall’impenetrabilità di un paesaggio mai visitato di persona.
L’Afghanistan è anche uno spartito attorno a cui ricucire immagini frammentarie e sedimentate nella memoria: l’uccisione di un presidente, Mohammad Najibullah, “il bue di Kabul”, evirato e appeso a un pilone di cemento dai Talebani; una bandiera ufficiale, completamente nera, in uso alla fine dell’Ottocento; le marce di sparute milizie sullo sfondo di deserti, paesaggi spelacchiati, con rovine antiche e incendi, fuochi, carcasse metalliche, il fumo di disastri bellici e di attentati; le tracce di “un immaginario differente e intrigante, quello russo, nella cultura islamica”.
L’Afghanistan è infine un’occasione per incontrare – ma di sbieco, lateralmente – il mito di Boetti; allora gli assemblaggi di tappeti, basati sulla ripetizione geometrica di motivi floreali e su un vibratile contrasto tra rosso e nero, diventano arazzi da appendere al muro. E, sempre di sbieco, una tradizione tutta novecentesca, modernista, occidentale, che tende all’aniconicità, a un grado zero della pittura.
Perché l’Afghanistan in questa mostra si traduce in un colore, il nero – un nero elegante, profondo – o, ancor meglio, in un diffuso desiderio di monocromaticità (un aspetto che ha spesso fatto parte del lavoro di Favelli, quando nelle sue opere è apparsa una campitura che nasconde, copre, cancella): tendono al monocromo (al nero e al grigio) i collage di francobolli; (all’argento) le nuove serie di assemblaggi di specchi; (all’oro, per via di una vernice uniforme che ricopre/tampona tutta la struttura) il parallelepipedo, una forma minimale, un ingombro impenetrabile che occupa quasi tutta la sala piccola della galleria, esempio di una bellezza fine a se stessa, con un’inevitabile rimando alla ka’aba. Una ka’aba in minore, domestica.
E sul nero si stagliano anche le forme dei dipinti esposti in mostra: il logo dell’Ariana, la compagnia aerea afgana (qui c’è un’altra, stringente tangenza con il lavoro su Ustica, dove le immagini della dell’Itavia punteggiavano tutto il progetto); la copia di un passaporto afgano – presentandomi l’immagine, Flavio mi dice che la condizione del cittadino afgano è quella più sfortunata del pianeta secondo statistiche recenti, poiché risulta soggetta a restrizioni molto drastiche; il logo dell’Hotel Intercontinental di Kabul, la struttura della città predisposta ad accogliere i ricchi stranieri, a cui si sovrappongono, come del resto accade anche negli altri dipinti, la shahada e altre scritte in arabo che sembrano minacciose, guerresche escrescenze floreali.
Il neon Afgacolor, infine, ottenuto attraverso una semplice metatesi all’interno della vecchia insegna/logo della nota marca di rullini fotografici, fa slittare l’Afghanistan, e suoi vividi contrasti, su paesaggio conosciuto, su un tempo segnato dalla democratizzazione della fotografia, da immagini famigliari o di viaggi in luoghi esotici, o, viceversa, proietta sul nero Afghanistan i colori di quelle immagini.
Davide Ferri
La stessa sera, in occasione della Ventura Contemporary Art Night, inaugureranno anche Patrizio Di Massimo da KURA. e tutte le gallerie di Made in Lambrate: Alessandro Albanese, Boccanera Gallery, Galleria Monopoli, Andrea Ingenito Contemporary Art, Prometeogallery di Ida Pisani.
Data e Ora
25/09/2019 / 19:00 - 21:30
Luogo
Francesca Minini