Galleria Pack di Milano è lieta di annunciare la propria collaborazione con l’artista brasiliana, ormai di stanza a Milano, Debora Hirsch. La mostra, intitolata donotclickthru, inaugurerà il 17 Marzo e continuerà fino al 2 Giugno.
La produzione artistica di Debora Hirsch può essere definita sia concettuale che ‘assimilativa’: l’artista raccoglie, seleziona e fonde stimoli visuali derivanti sia da immagini che da testi. Le immagini, provenienti da una ampia varietà di differenti media, sono utilizzate in una prospettiva personale, ricreate e riproposte con il mezzo del disegno, del dipinto, del video o con altre variegate forme di espressione artistica scelte dall’artista.
I suoi lavori presenti in mostra presso Galleria PACK non hanno un carattere politico o emotivo. Le opere proposte affrontano il tema dell’influsso sulla cultura e sulla società contemporanea esercitato dai mezzi di comunicazione e dalle tecnologie della contemporaneità. Uno dei suoi disegni pone apertamente il quesito Se tutto e’ al di fuori di noi, che cosa ci resta dentro? “If everything is out there, what is left within you?.” Hirsch indaga sulla condizione umana, le vulnerabilità e le contraddizioni connaturate nell’uomo, senza lasciare mai lo spazio a pregiudizi, assiomi e cliché.
L’uso della forma imperativa donotclickthru, con cui è intitolata la personale, è utilizzato anche come url del sito dedicato a questo lavoro: www.donotclickthru.com. In ultima analisi, lo scopo del sito web è quello di ottenere ‘zero clicks’, ‘nessuna navigazione’. Il lavoro presenta una successione di immagini, disegni e testi, che simulano il formato tipico della comunicazione web nello stile.
Il sito può essere inteso come una trappola per gli esseri umani i quali, ridotti alla condizione di topi, inseguono e sono attratti come da un’esca di formaggio invisibile, immateriale e assolutamente inodore. Lo spettatore è chiamato a confrontarsi con la dimensione effimera di Internet, che altro non è se non una trappola in grado di trasformare una possibilità in una sicurezza assoluta, un dubbio in una certezza, un gruppo in minoranza in una maggioranza di individui. Tutto può essere trasformato in una lista, e non importa il quanto irrilevante o fittizia. La nostra curiosità di osservatori è attivata, innescata e ci sentiamo in dovere di colmare il divario di conoscenza. Cliccare sul mouse incarna il prototipo perfetto di un perfetto piacere: e’ squisito e lascia insoddisfatti. Più si è delusi dal contenuto materiale, più insoddisfatte e disattese risultano le nostre aspettative, maggiormente ci si ritroverà ad osservare nuovamente lo stesso contenuto: quello che circola, ritorna. Nei dipinti esposti, Hirsch funge da narratore di alcuni precisi e definiti momenti storici: dal periodo coloniale del Brasile, all’era precedente l’avvento della tecnologia digitale, alla società digitale contemporanea, e al tempo che ancora deve venire. Possiamo immaginare il mondo digitale come un sistema sofisticato di rifrazione, una proiezione senza sosta del riflesso, uno specchio infinito dalla forza e capacità inesauribili. Gli specchi di per sé hanno un effetto destabilizzante ma noi tutti ne siamo affascinati, siamo ammaliati dagli specchi e dal loro effetto, allorché la nostra realtà ci attrae e ci terrorizza simultaneamente. Il mito di Narciso, nella versione ricreata e riproposta da Borges, ci rammenta, infatti, che non si può sostenere a lungo questa tensione. Fino a questo momento, non eravamo mai stati sommersi letteralmente da tanta informazione e circondati da così tante superfici riflettenti.
Nell’esposizione, Hirsch ripropone per analizzarlo, il sistema comunicativo democratico, orizzontale, trasversale, privo di gerarchia, interattivo e simmetrico che la tecnologia digitale ci ha messo a disposizione da un lato, mentre dall’altro, e’ paradossale che proprio la tecnologia digitale ci abbia offerto una vita che è destinata ad essere prevedibile e predittiva, controllata e controllabile, condannata a sovraesposizione e a mancanza di privacy; una sconvolgente società ordinata e preordinata. Della sua produzione artistica, all’apparenza familiare non si può determinare e affermare con certezza se il significato in essa espresso, in ultima analisi, si riferisca alla cultura digitale contemporanea, alle credenze popolari, alla cultura condivisa da tutti, alla religione, alle forme di oppressione e di controllo, alla natura, al giogo di varia origine morale e politica a cui è sottoposto l’uomo, oppure a qualsivoglia altri significati.
Le opere d’arte esposte ci coinvolgono, ci sfidano e generano con lo spettatore una dialettica conversazione che porta alla riflessione personale; i lavori stessi non operano una censura né infondono significato ai soggetti rappresentati, lasciando così ogni tipo di considerazione e giudizio all’osservatore che li contempla.
Attila Szücs – Waiting for the unknown 2016
Federico Luger è lieto di presentare Waiting For The Unknown 2016, la prima personale italiana dell’artista ungherese Attila Szücs. Si tratta di dipinti, olio su tela, selezionati dalla produzione degli ultimi due anni. Scene familiari in cui i protagonisti sono catturati in momenti per loro cruciali. Immagini a forte carica emotiva che evoca un affascinante dialogo tra sogni e ricordi.
Attila Szücs é nato a Miskolc, Ungheria, vive e lavora a Budapest. E’ uno dei più importanti pittori ungheresi della sua generazione. Il suo lavoro è stato esposto in diverse personali e collettive (KW Institute for Contemporary Art, Berlino; Ludwig Museum, Budapest; Künstlerhaus Bethanien, Berlino; Tylers Museum, Haarlem, Olanda).
Fa parte di importanti collezioni quali la Neue Galerie presso il Landesmuseum Joanneum di Graz (Austria), la Hungarian National Gallery, il Ludwig Museum di Budapest, il Frissiras Museum di Atene. Attualmente è esposto nella collettiva The Nude presso la S/2 Gallery di Londra. Sta preparando una personale al Ludwig Museum di Budapest che inaugurerà a Dicembre 2016.
Pepe Cobo. Mostra collettiva: Stephan Balkenhol, Cristina Iglesias, Robert Mapplethorpe e Juan Muñoz
SPAZIO 22 è felice di annunciare la sua prima collaborazione con Pepe Cobo, galleria che si è trasferita da poco a Lima, e che presenterà all’interno della sede espositiva di Viale Sabotino 22 una collettiva con lavori di Stephan Balkenhol Cristina Iglesias, Robert Mapplethorpe e Juan Muñoz.
Stephan Balkenhol nasce a Fritzlar (Hessen) in Germania nel 1957. Dopo aver terminato la sua formazione all’Accademia di Amburgo come allievo dello scultore minimalista tedesco Ulrich Rückriem, Balkenhol intuisce in modo chiaro la sua propensione all’utilizzo del legno che coniuga alla sua “necessità” di reinterpretare la figura umana. L’artista tedesco si confronta con la scultura figurativa, sua vera e propria vocazione da oltre vent’anni. Dal legno, scolpito da un unico tronco e vivificato dal colore, prendono forma i suoi eroi quotidiani: uomini e donne comuni, che fuori da ogni mito e lontani da qualsiasi ideale di bellezza classica si confrontano con la realtà più “normale” senza che questo ne svilisca azioni e valore; così le sue creature appaiono sovra o sottodimensionate su piedistalli, che quasi ricordano l’audacia del vivere comune. Severe e immobili, le opere di Stephan Balkenhol appaiono icone ieratiche di un presente imprescrutabile.
Cristina Iglesias, durante l’intero arco della sua carriera, ha definito un vocabolario scultoreo unico, la costruzione di ambienti immersivi ed esperienziali che fanno riferimento e uniscono l’architettura, la letteratura e differenti influenze culturali. Attraverso un linguaggio delle forme architettoniche e naturali rese attraverso svariati materiali come la resina, il bronzo, l’acciaio inossidabile e la terracotta, si ridefinisce poeticamente ogni interpretazione logica di spazio per confondere interno ed esterno, organico ed artificiale.
Robert Mapplethorpe (New York, 4 novembre 1946 – Boston, 9 marzo 1989) è stato un fotografo statunitense.
La maggior parte delle sue foto è realizzata in studio. I suoi temi più comuni furono ritratti di celebrità (tra cui Andy Warhol, Deborah Harry, Patti Smith e Amanda Lear), soggetti sadomaso (che ritraevano da vicino e senza filtri la sottocultura omosessuale di New York di cui Mapplethorpe stesso faceva parte), e studi di nudo spesso maschili e omoerotici, con le notevoli eccezioni della serie di nudo femminile della culturista Lisa Lyon.
Juan Muñoz nasce a Madrid nel 1953. Secondo di sette fratelli, viene espulso da scuola all’età di dodici anni a causa del suo comportamento ribelle. Prosegue gli studi in diversi istituti scolastici e insieme al fratello Vicente prende lezioni private da Santiago Amón, influenza profondamente la formazione di Muñoz, introducendolo agli studi della letteratura moderna e delle avanguardie artistiche. Nell’ottobre del 1970 Muñoz si trasferisce a Londra, dove soggiorna brevemente per poi partire per un viaggio in Europa, che lo porta anche in Svezia e in Italia prima di far nuovamente rientro nella capitale inglese. Qui approfondisce le sue conoscenze di storia dell’arte, frequentando assiduamente le sale della National Gallery e, grazie a una borsa di studio, la Central School of Art and Design (1976-1977) e successivamente il corso di incisione presso il Croydon College of Design and Technology (1978-1979). Sempre a Londra, nel 1980 incontra l’artista spagnola Cristina Iglesias, che diventerà sua moglie, anche lei presente in mostra con un lavoro scultoreo.
In questo periodo la sua produzione si esprime in opere di carattere performativo, come azioni estemporanee eseguite in ambienti urbani e documentazioni fotografiche ma progressivamente le sue ricerche lo portano ad avvicinarsi a Richard Long, Tony Cragg e Barry Flanagan, artisti interessati al supe- ramento dei canoni della scultura tradizionale.
La ricerca sulle relazioni tra lo spazio architettonico e l’individuo, alla base delle sue prime opere scultoree, torna in modo decisivo negli ultimi lavori dell’artista, che comprendono progetti su larga scala.
Window Project: Anna Caruso. “La lettera di mio padre”, 2015
La memoria ha una geografia frammentata. L’uomo è astrazione, divide sè stesso in porzioni di inconscio in uno spazio metafisico. Ritaglio spazi di identità, destrutturo, svuoto e riempio l’esistenza di nuovi elementi. “La lettera di mio padre” affonda le radici in un ricordo di infanzia, una freudiana epifania in toni di grigio tra accenni sbiaditi di una figura paterna anelata e dimenticata. Ecco il suo riaffiorare nel caos, in uno “stream of consciousness”, confuso e inglobato in piccoli cenni cromatici rassicuranti. Un padre nostro ombelicale, spezzato dalle sinapsi e ricomposto in nuovi codici esistenziali. Spazi bianchi su tela come pausa in composizione, il riposo del pensiero, l’interruzione del flusso. Il tono di colore, acceso e accesso, si fa squarcio grafico e genera nuove possibilità, una porta per memorie ignote. Ricercare e ricreare il sè, rielaborare l’io, questo il compito dell’uomo nel riverberare di un altro sè puerile, tra scie sfocate di bosco o vecchie dimore trascurate, in un deflagrante processo di ristrutturazione.
Data e Ora
17/03/2016 / 18:00 - 21:00
Luogo
Galleria PACK + SPAZIO 22