Dell’opera di Ettore Spalletti, della sua lunga carriera iniziata nel piccolo borgo di Cappelle sul Tavo in provincia di Pescara e lì dispiegatasi per tutta la vita, del suo proporsi fuori da quelle correnti di successo che hanno caratterizzato il secondo novecento, dall’Arte Povera o dalla Transavanguardia o da qualsiasi altra forma di gruppo, del suo essere “individuale” e “unico” nel panorama artistico italiano e internazionale per quel reiterare quasi ossessivo e manicale di costanti forme e volumi geometrici e di una color palette inconfondibile diventata la sua cifra qualitativa primaria, del suo guardare all’antico, infine, coniugando memorie tanto rinascimentali quanto primo novecentesche, la letteratura artistica ha da sempre elaborato pagine rilevanti, rendendo quasi arduo alla giovane critica aggiungere nuovi pensieri influenti e precisanti. Tuttavia, la mostra impaginata a Villa Paloma del NMNM e in questo momento in corso, offre alcuni spunti di riflessione sul lavoro dell’artista che rivelano dettagli tutt’altro che scontati. Particolari che, se già in precedenza quasi un lustro fa erano divenuti parte di un immaginario collettivo, grazie alla triplice retrospettiva Un giorno così bianco, così bianco, allestita al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al Museo Madre di Napoli, nel principato, per certi aspetti, si palesa un dato poetico che, seppure coerente alla sua indivisibile ricerca, traccia qualcosa di nuovo e del tutto inatteso. Curata da Cristiano Raimondi, Ombre d’azur, transparence porta in scena, pertanto, il combinarsi di opere inedite e storiche che, provenienti dal suo studio e da importanti collezioni private, si ritmano nel valorizzare la sacralità del luogo che le accoglie attraverso la loro stessa presenza, scartando, infine e nettamente, l’ipotesi di una ricostruzione cronologica che sarebbe apparsa fuorviante e pretestuosa.
Ci spieghiamo meglio. Se prendiamo come punto di partenza per Spalletti i luoghi d’ispirazione della sua opera, pertanto il paesaggio abruzzese con le sue forme – si pensi alla Majella e alla leggenda della Bella Addormentata o mito di Maia e suo figlio Ermes – e alla sua luce e ai suoi colori, agli azzurri, ai grigi e ai rosa in particolare, non sfuggirà quanto l’opera dell’artista possa considerarsi nel tempo e sin dagli esordi un continuo sublimarsi di tali aspetti. Esiti che si offrono allo spettatore in una sintesi geometrica e monocroma solo in apparenza fredda e distante e che, a scanso di equivoci, lo diciamo subito, nulla hanno a che fare con moventi concettuali di matrice minimale se non, per l’appunto, in una resa formale riassuntiva. Volendo penetrare veramente l’opera di Spalletti ci si potrà abbandonare in un grande e affettuoso abbraccio che l’intero suo lavoro simula, interrompendo qualsiasi schema contemporaneo che ci vuole affannosamente ragionieri del tempo e della geografia. In tal senso, Ombre d’azur, transparence si propone nella sua genesi come una mostra priva di confini dove, …
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