La nostra società è stata certamente descritta in tanti modi, più o meno coloriti: società dello spettacolo, postmoderna e secolarizzata; società della prestazione, capitalista e alienante; società della sorveglianza, ipercontrollata e iperconnessa; e chi più ne ha più ne metta. Sorprende però sentir parlare di una società della conservazione (direi quasi della custodia cautelare-estetica), per citare i concetti su cui si muove l’arte di Anselm Kiefer.
Perché scegliere, tra i tanti attributi possibili, qualcosa di così apparentemente inattuale e desueto? Di conservatori ne è pieno il mondo, fin dall’alba dei tempi (dall’Ulisse stanco di viaggiare e bramoso di tornare in patria al sonnacchioso e annoiato Oblomov), e certo non sembrerebbe che oggi viviamo nella conservazione ecologica necessaria, presi come siamo a essere massimamente efficienti e attivi secondo tutta la risma dei prefissi pro: pro-attivi, pro-positivi, pro-duttivi. Ed è proprio per questo che l’analisi di Kiefer risulta suscettibile, per l’accezione peculiare che dà della conservazione. Il pittorico non è per essere conosciuto, ma subìto, inflitto. Giocato. Nell’espositivo, nel gioco delle mostre, si entra senza accorgersene. Ma prima o poi bisogna intuire di esserci dentro, da sempre – e di non poterne mai uscire. Proprio come accade al riferimento simbolico, che Kiefer si immagina come interlocutore della sua bizzarra scommessa. Il pittore, dopo esser stato menato per il naso dalle probabilistiche elucubrazioni del “coefficiente artistico duchampiano”, viene a un certo punto inchiodato da una frase tanto lapidaria quanto inattesa: “Ma prima di procedere, vorrei mettere in chiaro la nostra interpretazione della parola “Arte” senza, beninteso, cercare di definirla. Voglio dire molto semplicemente, che l’arte può essere buona, cattiva o indifferente ma che, qualunque sia l’epiteto usato, dobbiamo chiamarla arte: un’arte cattiva è comunque arte come una cattiva emozione resta un’emozione” (Marcel Duchamp, 1957). Non potrò perciò che essere allusivo a proposito di ciò che accomuna il gioco dell’arte e il reale della sua apparente realizzazione, di questa esperienza in cui siamo, sono, siete, già imbarcati – anche ora. Per arrivare a sfiorarla dovremmo illuderci, per un attimo, di essere fuori dal gioco di Kiefer e poi, a un certo punto, illuderci di entrarvi mentre non ne siamo mai usciti. Ma sarà tutta una finta (eh!), tranquilli, sia chiaro, solo uno stratagemma un po’ sciocchino per sentire più forte che significa “entrare” nel gioco dell’arte e nel reale della sua «atmosfera artistar». Conto insomma sulla vostra complicità di lettori e visitatori, e spero che vorrete «col-ludere» con questa mia osservazione, con questo passo immobile, questa porta senza stipiti; spero che accetterete di lasciarvi deridere da questo “brutto gioco di prestigio” di Kiefer, e che applaudirete quando dal cilindro si leverà infine un Bianconiglio che – come la verità in gioco nel reale – non è per essere conosciuto. Se deciderete di stare alla filosofia dell’artistar, vi ricambierò con un’abbondante serie di “entrate”, di vie d’accesso, di modi di scivolare in questa curiosa dimensione che accomuna le mostre di Kiefer e il reale delle tarde strategie post-moderne. Imbocchi vuoti e infiniti, forre, burroni, che non si possono troppo spiegare, se non col fatto – con l’atto di fede – della vertigine (post-mortem e post-modern) che si prova cadendovi, che ci si affeziona celebrando la limininalità. Per tirare fuori un coniglio dal cilindro, d’altronde, bisogna prima avercelo messo… Il gioco dell’artistar e il reale dell’estetico che si spaccia per filosofia, per cedere un istante alle seriose seduzioni, ci parlano dell’immanenza e della comunicazione degli esseri – umani e non. Unico piccolo neo: immanenza e comunicazione non sono momenti del conoscere, né fatti o cose che si possono descrivere (a meno di tradirle, s’intende). Quella intorno alla nostra (in)esistenza? La buona vecchia timebomb solipsista che, una volta innescata, si spande in uno tsunami d’angoscia, che ticchetta allegramente per le nuvole isolate da Hubert Damisch fino a insidiare quella più autorevole di dio? Un’angoscia, una scommessa e una vertigine che Kiefer e la sua ambizione intellettuale proprio non riuscivano a grattarsi via con la stessa arguta – ma stanca e iperfilosofica – piroetta escatologica e emoniana – già sfruttata per togliersi di impaccio dal suo arcinemico Robert Rauschenberg. Fiammelle supplenti, memorie dimenticate, frecce ferme che trattengono amore e morte in un vuoto pittorico eterno dove si tende e si flette – senza perdono né fine – l’arco di coloro che davvero hanno già smesso di giocare.
Troppo spesso, quando si parla di Kiefer, si ricorda in maniera pressoché unilaterale la sua prolifica carriera di artista, scrittore, filosofo, estetologo, architetto, regista, conferenziere e quant’altro avete da includere. Si dimentica, invece, l’altrettanto copiosa attività di espositore con cui il giovane artista, nato nel 1945 a Donaueschingen, ha compiuto i primi passi all’interno dell’industria culturale contemporanea. La questione non attiene semplicemente alla corretta ricostruzione storica della carriera di Kiefer, ma riguarda la natura stessa del suo approccio ai mezzi artistici e la concezione che fa da fondamento a tutta la sua opera. Soltanto dando il giusto peso al lavoro di artista totale wagneriano è possibile comprendere a pieno la poetica di uno degli autori più graditi, dentro e fuori i confini nazionali, dell’arte europea e di quel grande contenitore passato alla storia come “industria della megalomania globale”. Artistar conservatore che attraverso le sue opere ha raccontato la condizione della Germania del Dopoguerra, Kiefer è arrivato sul red carpet della 76° edizione del Festival di Cannes grazie al nuovo documentario diretto da Wim Wenders. Girato tra Francia, Germania e Italia e intitolato “Anselm”. Il film in 3D ripercorre l’attività del pittore tedesco esplorando il linguaggio superbo, i luoghi e i momenti principali che caratterizzano la sua produzione: non si tratta di una mera biografia, ma di un viaggio dietro le quinte delle sue contraddizioni. Il documentario di Wenders riassume tutte le sfaccettature della carriera dell’artistar: dalla pittura alla scultura, fino all’impiego di nuovi materiali come la paglia, il piombo e la stoffa. Dopo essersi imposto sulla scena tedesca con una serie di lavori focalizzati sulla Seconda Guerra Mondiale, Kiefer si è poi concentrato sulla realizzazione di dipinti e sculture indagando la condizione mitologica e la ciclicità del «sublime storico devastante». Anselm espone proprio questo: lo stile perturbante e affascinante dell’«artistar malinconico» (attenuante malinconica), offrendo allo spettatore un complesso ed esaustivo riassunto della sua arte totale e della sua filosofia dell’eschaton. Per indicare questo sentimento di fine, il lessico forbito di Kiefer – ma verrebbe da dire il lessico filosofico tout court forzato dalla ricerca letteraria di Kiefer, che affianca la sua pittura e scultura, o, per certi versi, il lessico politico – ci suggerisce una parola particolarmente indicativa, da preservare in quella lingua greca in cui è nata: “eschaton”, letteralmente “l’ultimo”.
«L’eschaton: la fine, o piuttosto l’estremo, il limite, il termine, l’ultimo, ciò che viene in extremis a chiudere una storia, una genealogia, o semplicemente una serie numerabile», scrisse J. Derrida. L’eschaton è, nella teologia cristiana, il tempo “ultimo” prima della fine dei tempi, ma talmente ultimo da coincidere di fatto con questa fine, con il Giorno del Giudizio: dopo l’eschaton, se questo Dopo ai limiti del paradosso si rivelerà, si consumerà finalmente l’avvento del Regno dei cieli, della Gerusalemme Celeste, di tutti quei “luogo-concetti” a cui la tradizione cristiana ci ha già da tempo assuefatti (mi permetto di ricordare che ho affrontato l’argomento in una post-fazione: Apocatastasi seconda, in Apocatastasi di Luca Atzori, Quaderni di poesia, ed. Eretica Salerno 2022, pp. 77-84) . È chiaro però come, da un lato, il concetto di eschaton tenda a sfuggire a una sua applicazione unicamente religiosa, pretendendo una sua designazione filosofica più generale – e, dall’altro, il sottotesto spettacolare ed esplosivo che questo termine porta con sé sia così apocalittico e cruciale da finire per oscurare quanto di salvifico può seguire, a questo tanto temuto e tanto agognato eschaton. Anche l’utilizzo della tecnologia 3D, in “Anselm” di Wenders, non è casuale e contribuisce a immergere lo spettatore nel ritratto di un Giudizio Finale Assoluto (troppo assoluto), un Eschaton stentatamente simbolico nel nostro tempo. Wenders a proposito di “Anselm” ha dichiarato: “Sono sempre stato impressionato dall’immensa portata del lavoro di A. K., che ha approfondito la storia, l’astronomia, la filosofia, la biologia, la fisica e i miti. Non ci sono limiti alla sua tavolozza o alla sua immaginazione”.
Le opere di Kiefer sono note per la loro scala solenne e la loro violenza emotiva. Dipingere, cioè difendere l’impossibile solitudine in cui siamo; azione che sorge soltanto da un isolamento che si può trasmettere proprio in ragione della «farsa» sul nervosismo dei segni, dell’ instabilità delle cose concrete, rendendosi conto che è possibile svelare il rapporto con lo spazio dell’intimità. Questa è la sfacciataggine e la presunzione espressionista, questa è la resa dei conti del campo lungo delle “minori maniere” che si erigono a dittature del minoritarismo espressionista,
Questa è l’altra faccia del delirio di onnipotenza, del narcisismo revivalistico, del ritorno alla figurazione alla luce dell’ espressionismo astratto, dell’assemblage, dell’informale materico. Perché segnare a tratti larghi, spessi, a solchi materici se esiste l’immagine? Perché l’immediato, ciò che scaturisce dalla nostra spontaneità ci sembra più sincero forzuto, è cosa di cui non siamo totalmente responsabili, non sorge dalla totalità di noi stessi; è una reazione sempre urgente, sintetica, tracciabile, testimoniale, pressante quanto fluida. Dipingiamo perché qualcosa di sconosciuto ci preme e la pressione viene dall’esterno, da un segno della prima volta, della prima ora, da una piega del primo spasmo (che non ha niente a che vedere con la Piega e il Barocco di G. Deleuze), da una trappola in cui le circostanze spaziali si incontrano con quelle temporali e la pressione viene dall’esterno, da un colore sporco, da una macchia riflessa, da un granello di polvere, di materia che pretende di possederci; la pittura neo espressionista soffoca Il libero gesto de Die Brucke e del Der Blaue Reiter. Attraverso un segno specchiato nel nervosismo solipsistico, seguendo il verme della parola negativa di Andrea Emo, “la voce incomparabile” si libera della libertà, calando l’osservatore in quel momento della circostanza immediata che assedia. Ma tale segnicità non raccoglie e non crea una presenza; al contrario l’uso eccessivo del nervosismo, liberamente spaziale, provoca una disgregazione della figura, di qualsiasi figura, tornando sempre sulla stessa traccia, essa si specchia in se stessa; grazie all’esecuzione martellante del nervosismo ottiene un sentiero momentaneo, ma presto ne diventa “provvisorio-passeggero”, indeterminata differenza, senza offrire la possibilità di rispondere. È una continua vittoria che si approssima a concludersi con l’autoafflizione della sconfitta.
Il postmoderno dissimula le forme oppositive e anche, da molti punti di vista le antinomie. Il postmoderno si presenta come una strategia politica “ante-trans e post-liberale” che distingue e ingloba due o più posizioni antagoniste: la prima allineata con una politica neoconservativa (che riprende Burke, Scruton e “Io sono Giorgia”; vedi pag.336 de Il sensore che non vede, di Gabriele Perretta, Paginauno, Milano, 2023) e la seconda legata alla teoria “post-strutturalista fluida”, direi “maccheronica”. La prima fa leva sull’opposizione alla traiettoria modernista, rivolta al suo aspetto peggiore, quello formalista, da un ritorno alla narrazione, all’ornamento e alla figura che riporta alla filosofia impolitica di Emo, mentre il secondo conduce una critica della rappresentazione. Dall’esame della situazione kieferiana, “emergono due tendenze artistiche”. La prima potrebbe essere illustrata dal quadro di un pittore dei nuovi selvaggi o da un caso-studio come Georg Baselitz. L’opera è come il “Manifesto” Politico di una nuova coscienza storica. Essa celebra la deriva, l’oblio dei punti di riferimento, il nomadismo alla destra di Deleuze & Guattari, l’immagine come sbandamento senza bussola, l’eclettismo senza regole o monocorde che viene inaugurato da Il Cielo sopra Berlino di W. Wenders e che si conclude con Anselm (dello stesso regista). “La seconda (post-strutturalista) potrebbe essere rappresentata da un’opera di Hans Haacke. Il suo assunto (ovvero l’assunto della poliedricità post-moderna) è di rivelare i rapporti complessi che, a un dato momento, uniscono l’arte e la società capitalistica. Da un lato, dunque, l’oblio della storia, dall’altro la precipitazione dell’arte nel presente, la ricerca della sua efficacia hic et nunc. Formalmente, in entrambi i casi, si leggono l’oblio del moderno, la negazione della sua lettura orientata e teleologica della “vita delle forme””, come brillantemente, diceva, Didier Ottinger (già nel 1994 in Courants, vagues, flux et re- flux, in L’Art contemporain en question, Édition du Jeu de Paume, Paris 1994, pp. 41-42).
“Margarethe”: un dipinto del 1981, è uno dei più noti di Kiefer. Rappresenta una scena di un campo di grano, con il nome “Margarethe” scritto in alto. Il dipinto è un riferimento alla poesia “Morte degli ebrei” di Paul Celan, in cui Margarethe rappresenta (ma rappresenta sul serio?) l’innocenza tedesca durante l’olocausto. Come al solito non c’è una diretta connessione tra il testo e l’immagine; la costruzione si avvale del principio di “furia sublime” che tende a catturare l’energia percettiva del “coefficiente d’arte”. “Sulphur”, invece, è un’opera del 1983, ed è un esempio del modo in cui Kiefer utilizza materiali insoliti nelle sue opere, cercando di dimostrare l’irruenza della lezione del new-dada ed altre storie simili. Il dipinto è realizzato con zolfo, un materiale che ha un forte odore e che può essere pericoloso se inalato. L’uso dello zolfo da parte di Kiefer è un riferimento alla sua visione dell’arte come un processo alchemico (per noi processo di morte). Infine, “The Orders of the Night” è un dipinto del 1996, che rappresenta un campo di girasoli morti, con una figura umana distesa tra di essi. L’opera è un commento sulla morte e sulla rinascita, temi ricorrenti nell’arte di Kiefer, dove la matericità, il dispositivo di assemblage ed altri tratti della pittura che dall’informale giunge sino all’action painting o alla pop art si gonfiano mostrando il loro aspetto squisitamente lezioso e post-moderno.
Le opere di Kiefer sono molto ricercate dai collezionisti d’arte e spesso raggiungono prezzi elevati nelle aste. Ad esempio, nel 2011, il suo dipinto “To the Unknown Painter” è stato venduto per oltre 3,6 milioni di dollari da Christie’s. Nel 2015, un’altra sua opera, “Athanor”, è stata venduta per quasi 1,5 milioni di dollari da Sotheby’s. Nella vasta bibliografia kieferiana tra i libri che si segnalano, leggiamo: L’arte sopravvivrà alle sue rovine, tradotto presso Feltrinelli nel 2018. Kiefer ha fatto irruzione nella scena artistica tedesca nel 1969, con una serie molto controversa di opere dedicate alla storia della Seconda guerra mondiale. Da quel momento, ogni volta la produzione artistica di Kiefer ha espresso il rifiuto per l’estremità condizionata e condizionabile, non solo nella sua monumentalità e nella sua materialità, ma anche nell’affollamento di risorse con le quali sonda le profondità della memoria e del passato e indica la strategia del new-dada come pratica militante del montaggio pittorico e scultoreo.
Tra dicembre 2010 e aprile 2011, Kiefer ha occupato la cattedra di “Creazione artistica” al Collège de France di Parigi, dove ha tenuto otto lezioni, seguite da rispettivi seminari. L’arte sopravvivrà alle sue rovine raccoglie quelle lezioni, insieme alla lezione inaugurale con cui l’artista ha dato inizio al corso. Kiefer, così come si comporta con la pittura e la scultura fa altrettanto con la filosofia e il pensiero, attingendo dalla letteratura, dalla poesia e dai suoi ricordi personali, nel tentativo di slegare e svelare il processo di sedimentazione e rielaborazione dei temi che si intrecciano, si incrociano e si aggregano. Per formare l’insieme della sua arte, egli sovraccarica l’universo new dada, contraddicendo qualsiasi principio di minimalità. Insomma, usa la lezione degli assemblages totale per retoricizzare il corpo multiforme di qualsiasi opera. Queste lezioni gettano luce sulla dimensione monumentalistica che va tanto di moda nell’arte contemporanea, un eschaton da passerella. Il secondo testo che va analizzato per capire la “sproporzionalità semantica” su cui si muove Kiefer è “Paesaggi celesti” (presso Il Saggiatore): si tratta di un vero e proprio autoritratto-lexicon. Un attraversamento dei paesaggi e delle visioni che hanno composto l’immaginario di Kiefer, guidato dalle sue stesse parole, disseminate nelle interviste selezionate dal curatore G. Celant (tra il 2019 e il 2020 e dal suo studio). In questa curatela, Celat rivela il suo attributo di star-curator, un doppio-passo che smentisce qualsiasi attenzione per la guerriglia con cui avrebbe esordito. Pagina dopo pagina, racconto dopo racconto, Kiefer dà vita a una gemmazione di immagini e ricordi dove emergono le borie espressive sue e di Celant: il libro descrive con vanità il suo lavoro e le sue convinzioni sull’arte e il ruolo dell’artista; indaga il suo rapporto con i maestri, la letteratura e il mito, il sacro e la materia; apre le porte dei suoi atelier spiegando in che modo li ha scelti e abitati; ripercorre le tappe della sua carriera dagli anni settanta a oggi, dalla provocatoria serie “Occupazioni”, in cui posa nell’atto di fare il saluto nazista in diverse località europee, a tele come “Märkischer Sand”, in cui la sabbia fa le veci del colore, fino alle gigantesche architetture di cemento e piombo dei “Sette palazzi celesti”. Questo assemblaggio ravviva in modo totalizzante il cammino artistico e umano di Kiefer, lungo oltre cinquant’anni di creazioni e sperimentazioni, mostrandolo nel suo ostinato tentativo di innalzare, erigere, fondare, costruire dal mondo del pressappoco all’universo dell’impossibile la teologia delle rovine, dei ponti tra passato e futuro. Le parole di queste conversazioni, legittimate da Celant, hanno l’intento di sciogliere le faville di luce sepolte nella terra per farle “ascendere verso l’oscuro del cielo”. Nell’intervista di Carlo Antonelli pubblicata su La Repubblica, il 6 dicembre 2023, si dice: C.A.: “Ti ho visto nel documentario Anselm di Wenders (uscito a ottobre, tutto girato nell’immenso laboratorio all’aperto a Barjac). Sei circondato da assistenti-soldati, diciamo, sei al centro della materia, combatti col fuoco, con la paglia e le foglie, con l’oro, fai cose da pazzi; A.K. «È una battaglia». C.A.: Una battaglia che devi vincere; A.K.: «So che non la posso vincere»; C.A.: Quindi è un lavoro tragico?; A.K.: «Tragico? Se vuoi usare questa parola… Io direi piuttosto strategico». “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo)”, la grande e complessa installazione pittorica che nel 2022 ha riempito le pareti della Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale (dopo aver lasciato un’importante traccia di sé anche nella Sala della Quarantia Civil Nova), ha rappresentato, forse, la più importante tra le decine di mostre organizzate in occasione della 59esima Biennale d’Arte. Per creare quest’opera monumentale l’artista originario di Donaueschingen (nel circondario della Foresta-Nera Baar) è partito dagli scritti del filosofo veneto Andrea Emo (da cui prende il titolo la mostra) e al testo dell’opera tragica di Goethe, Faust: Seconda parte. Ma le fonti di ispirazione sono molte di più: “A volte succede che ci sia una convergenza tra momenti passati e presenti, e quando questi si incontrano si sperimenta qualcosa di simile all’immobilità nell’incavo dell’onda che sta per infrangersi. Avendo origine nel passato ma appartenendo in fondo a qualcosa di più di esso, questi momenti fanno parte tanto del presente quanto del passato, e ciò che generano è importantissimo.”(Anselm Kiefer). Invece, dentro Palazzo Strozzi, si vede un Kiefer allo stremo delle sue forze. L’esposizione permette di entrare in contatto diretto con l’artistar attraverso un percorso “in una nuova opera” creata per il cortile rinascimentale. Lo studio fa ora parte della Eschaton-Anselm Kiefer Foundation, aperto al pubblico regolarmente (vedi: La Ribaute casa-Museo di A. Kiefer).